THE NEW WAITRESS

Francesca

Era iniziato un altro giorno al castello, ed ero sola nella mia stanza, preparandomi per l'allenamento. Il pensiero del mio maestro di tiro con l'arco mi riempiva di un sentimento contrastante. Non mi piaceva affatto come persona, ma non potevo negare il suo fascino, e questo mi disturbava in qualche modo. Le mie dame di compagnia erano appena uscite, lasciandomi finalmente libera di godere della mia solitudine. Non mi piaceva avere persone intorno, nemmeno loro, che erano lì per servirmi.

Mi guardavo allo specchio, un’abitudine che potevo portare avanti per ore. Il vestito che indossavo oggi era uno dei miei preferiti. Era lungo, di un verde intenso, che si fondeva perfettamente con il mantello che cadeva sulle mie spalle. Una cintura in cuoio marrone cingeva la mia vita, e un piccolo pugnale era agganciato ad essa, non per difesa, ma per tradizione. I miei capelli, lunghi e scuri, cadevano sulle spalle in morbide onde, incorniciando il mio viso con un’aria di innocenza che sapevo benissimo non essere reale.

Mi toccai i fianchi, sorridendo al mio riflesso. La felicità che provavo in quel momento era fugace, ma intensa. Mi girai poi verso il mio nuovo arco, posato accanto al muro.

La stanza in cui mi trovavo era come un rifugio, un mix perfetto di lusso e calore. Il grande letto a baldacchino, riccamente intagliato e adornato con pesanti tendaggi, dominava lo spazio. I mobili erano tutti in legno scuro, decorati con motivi intricati che parlavano di antiche tradizioni. Alle pareti, arazzi finemente tessuti narravano storie di antiche battaglie e leggende, mentre la luce delle candele rifletteva sui loro fili dorati, creando un'atmosfera calda e accogliente. Il pavimento era coperto da un tappeto soffice e pregiato, che attutiva i miei passi mentre mi muovevo nella stanza.

Camminando lungo il corridoio del castello, mi accorsi di un silenzio insolito. Di solito, i corridoi erano affollati di servi e cortigiani che andavano e venivano, ma oggi regnava una quiete inquietante. Mentre mi avvicinavo alla fine del corridoio, vidi delle scale che conducevano al piano superiore. Non sapevo cosa ci fosse lì, e il mistero mi creava un sottile disagio. Questo castello, con i suoi angoli nascosti e i suoi segreti, aveva un'aura che metteva a disagio anche me.

Proprio mentre stavo per distogliere lo sguardo, vidi una ragazza inginocchiata a terra, intenta a pulire il pavimento con una scopa. Doveva avere la mia stessa età, forse un po' di più, ma l'abbigliamento la faceva apparire molto diversa da me. Indossava un vestito lungo, simile al mio, ma il suo era sporco, macchiato da chissà cosa, e i suoi capelli, seppur curati, senza ornamenti o gioielli. Non l'avevo mai vista prima, e il modo in cui lavorava, con precisione e dedizione, mi incuriosiva.

Mi fermai a guardarla per un momento, poi dissi, quasi senza pensarci: «Voi chi siete?»

La ragazza si fermò immediatamente, alzando lo sguardo verso di me. I suoi occhi erano profondi, quasi ipnotici, e c'era una calma dignitosa nel suo atteggiamento. Fece un inchino rispettoso, rispondendo: «Altezza,» la sua voce era dolce, ma ferma. «Sono Cleopatra, la nuova ancella.»

La guardai per un momento, cercando di capire qualcosa di più su di lei, ma lei si limitò a tornare al suo lavoro, continuando a pulire con la stessa dedizione di prima. Il suo nome, Cleopatra.

La osservai mentre continuava a pulire con la stessa dedizione. Non potevo fare a meno di notare quanto fosse bella, anche se la sua condizione di serva la rendeva invisibile agli occhi dei nobili. Ma non ai miei. Qualcosa in lei mi incuriosiva, forse la sua calma o il modo in cui sembrava non appartenere completamente al ruolo che le era stato assegnato.

«Cosa ci fate qui?»chiesi, il tono più morbido, quasi casuale. «Siete una bella ragazza.»

Cleopatra alzò lo sguardo verso di me, i suoi occhi lucenti e penetranti. Sapevo bene che, nonostante la sua bellezza, i nobili la ignoravano, solo per il fatto di essere povera e di appartenere a un'altra classe sociale. Eppure, c’era qualcosa in lei che attirava la mia attenzione, qualcosa che non riuscivo a definire.

Lei mi guardò per un attimo, poi tornò a concentrarsi sulla sua pulizia, rispondendo con calma: «Voi siete sempre la stessa, Vostra Altezza.»

Le sue parole mi sorpresero. Come poteva conoscermi? Non l’avevo mai vista prima d’ora, eppure parlava come se sapesse chi ero, come se ci fosse qualcosa di familiare in me per lei. La guardai con sospetto, cercando di decifrare il suo significato, ma Cleopatra si affrettò a correggersi, forse notando la mia espressione: «O volevo dire, anche lei, Vostra Altezza.»

Era evidente che c'era qualcosa di strano in lei, un mistero che avrei voluto svelare. Eppure, non potevo fare a meno di trovarla affascinante, nella sua stranezza, nel modo in cui si comportava come se sapesse qualcosa che io ignoravo.

«Cleo… Cleopatra,» dissi, assaporando il suono del suo nome, il tono più caldo e amichevole. «C'è qualcosa in voi, qualcosa che non riesco a capire... ma mi piace.»

Restai a guardarla per un momento, domandandomi cosa celasse dietro quella facciata tranquilla. Sapevo che avrei dovuto andare avanti, proseguire per il mio allenamento, ma l'idea di svelare il mistero di Cleopatra mi affascinava più di quanto avrei voluto ammettere.

Cleopatra mi guardò con quegli occhi profondi, quasi penetranti, e disse con una calma inquietante, «Vostra Maestà, voi non lo sapete, ma io vi ho sempre conosciuta.»

Quelle parole mi fecero gelare il sangue. Stavo per chiederle cosa intendesse, come potesse affermare una cosa simile, ma prima che potessi aprire bocca, una voce interruppe il momento. Era Elisabeth, mia sorella. Come sempre, indossava un vestito verde, il suo colore preferito, che le donava un’aura di sicurezza e determinazione.

Mi girai per affrontarla, nascondendo la mia sorpresa dietro una maschera di indifferenza. «Ti metti a parlare con i servi?» mi rimproverò con quel tono che solo una sorella maggiore può avere. «Il tuo maestro ti aspetta.»

Elisabeth lanciò uno sguardo a Cleopatra, uno sguardo che sembrava più pesante di quanto le parole avrebbero mai potuto essere. C’era una sorta di tensione nell’aria, come se entrambe sapessero qualcosa che io non riuscivo a cogliere.

Mi voltai nuovamente verso Cleopatra, che abbassò lo sguardo in segno di rispetto. «Ci vediamo, Cleopatra,» dissi, e c’era un tono di promessa nella mia voce, una promessa che non avevo mai fatto prima. Lei rispose con un formale, «Vostra Altezza,» rivolto tanto a me quanto a mia sorella.

Mi incamminai accanto a Elisabeth, che non perse tempo a riprendermi. «Non dovresti parlare con i servi,» mi disse con una nota di disapprovazione.

«Sono solo curiosa,» risposi, cercando di mantenere un tono leggero. Ma la verità era che le parole di Cleopatra continuavano a risuonare nella mia mente. Cosa intendeva dire quando affermava di conoscermi da sempre? Cosa sapeva di me, o forse, cosa sapevo io di lei senza saperlo?

Elisabeth sospirò di nuovo, questa volta con un sorriso quasi condiscendente. «I servi non hanno storie da raccontare,» disse con la solita sicurezza, «e poi l'hai vista, no?»

Non volevo accogliere le sue parole, ma sapevo che, in fondo, avevo poche scelte. Nonostante fosse insopportabile a volte, le volevo comunque bene, e il suo giudizio era qualcosa che non potevo ignorare del tutto. Però, non riuscivo a togliermi dalla testa quel pensiero.

«Che ne sai tu?» replicai, sentendo la mia voce farsi più ferma. «Tutti abbiamo una storia da raccontare. Se lei è qui, ci sarà un motivo.»

Elisabeth scosse la testa, ancora sorridendo, ma questa volta c'era una traccia di disappunto nel suo sguardo. «No, i servi puliscono soltanto,» rispose in modo deciso.

C'era una certa crudeltà nella sua convinzione, una rigidità che non riuscivo a comprendere del tutto. Per lei, il mondo era diviso in bianco e nero: i nobili avevano storie, destini, e i servi avevano solo il compito di servire, di eseguire gli ordini. Ma io non potevo fare a meno di pensare che dietro quegli occhi scuri e quel volto enigmatico di Cleopatra, ci fosse qualcosa di più.

Forse Elisabeth non aveva mai guardato veramente oltre le apparenze, non aveva mai cercato di vedere oltre il ruolo che le persone interpretavano. Io, invece, ero convinta che ogni persona, persino la più insignificante agli occhi degli altri, avesse una storia da raccontare. E Cleopatra, con quel suo sguardo intenso e quelle parole misteriose, sembrava avere una storia più interessante di quanto chiunque avrebbe mai immaginato.

Decisi di non insistere oltre con Elisabeth. Era chiaro che non mi avrebbe mai capito, e forse nemmeno io comprendevo appieno cosa stavo cercando. Ma una cosa era certa: non avrei ignorato ciò che sentivo dentro di me. Cleopatra non era una semplice serva, e avrei scoperto la sua storia, anche se questo significava andare contro le convinzioni di mia sorella.

Arrivammo finalmente al giardino, e prima di andarsene, Elisabeth si fermò un attimo, posandomi una mano affettuosa sulla spalla. «Fai la brava e allenati per il meglio, sorellina,» mi disse con un tono più dolce, diverso da quello un po' severo di prima. Poi mi baciò sulla guancia, un gesto che mi fece sorridere, nonostante tutto. La guardai allontanarsi, scomparendo tra i corridoi del castello, e presi un respiro profondo.

Mi voltai verso il giardino, lasciando che l'aria fresca riempisse i miei polmoni. Amavo quel posto, mi riempiva di una nostalgia dolce e amara allo stesso tempo. Il giardino mi riportava alla mia infanzia, a quei giorni spensierati in cui io e Elisabeth correvamo tra i sentieri, nascondendoci tra i cespugli e ridendo senza pensieri. Era un luogo che, nonostante tutto, mi faceva sentire al sicuro.

I miei occhi si posarono sull'arciere che mi stava aspettando al centro del campo di allenamento. Damon Flèche, il mio maestro.

Era lì, fermo e impassibile, con il suo arco pronto e lo sguardo che sembrava trapassarmi. Sembrava che il tempo non avesse alcun effetto su di lui; lo stesso atteggiamento distante, la stessa aria di superiorità che mi aveva infastidito sin dal primo giorno. Non mi piaceva, ma c'era qualcosa in lui che mi attirava, forse quella sfida continua, quel suo non lasciarmi mai il controllo della situazione.

Mi avvicinai, cercando di ignorare la leggera tensione che sentivo crescere dentro di me. «Buongiorno, maestro,» dissi con un tono formale, tentando di nascondere l'emozione che provavo.

Demon non rispose subito, limitandosi a sollevare leggermente un sopracciglio, quasi a valutare il mio umore. Poi, con quella voce fredda e distante disse: «Pronta per l'allenamento, principessa?»

Il suo modo di parlare mi irritava, era così distaccato, come se niente al mondo potesse toccarlo davvero. Ma non volevo dargli la soddisfazione di mostrargli quanto mi infastidisse. «Sempre,» risposi, sollevando il mento in un gesto di sfida.

Presi l'arco, sentendo la tensione del legno sotto le dita, e posai l'attrezzatura a terra con cura. Le frecce scintillavano alla luce del mattino, quasi come se mi sfidassero a fare del mio meglio. Mi girai verso Demon e, cercando di mantenere un tono sicuro, dissi: «Maestro, potrei spiegarle le istruzioni che mi hanno insegnato? Così potremmo confrontarle con le sue.»

Lui mi guardò per un lungo momento, e per un attimo pensai che avrebbe acconsentito. Ma poi, con quella voce che sembrava fatta di ghiaccio, disse: «No, Altezza. Qui non siamo in una lezione di corte. Farete le cose come dico io. Sono io il vostro maestro adesso.»

Il suo tono era autoritario, definitivo. Avrei potuto ribattere, ma sapevo che sarebbe stato inutile. Demon non era il tipo da accettare suggerimenti, specialmente non da una principessa che, ai suoi occhi, probabilmente sapeva meno di niente sull'arte dell'arco.

Sentii un'ondata di frustrazione montare dentro di me, ma la tenni a bada.

«Come desidera, maestro,» risposi infine, cercando di mantenere la calma. Raccogliendo una freccia, la posizionai sull'arco, seguendo attentamente ogni movimento che Demon faceva. Mi osservava con attenzione, e potevo sentire il suo sguardo analitico su di me, pronto a cogliere ogni minimo errore.

Inspirai profondamente, concentrandomi sulla postura. Non era la prima volta che maneggiavo un arco, ma sotto lo sguardo di Demon tutto sembrava più complicato. Tendendo la corda, sentii la tensione crescere nelle braccia, ma non distolsi lo sguardo dal bersaglio davanti a me.

Demon si avvicinò silenziosamente, e prima che potessi rendermene conto, era dietro di me. Sentii il suo corpo appena sfiorare il mio mentre si chinava per afferrare l'arco con me. Le sue mani, forti e sicure, si posarono sulle mie, guidandomi con precisione. Ogni suo movimento era calcolato, ogni suo tocco mirato a correggere la mia postura.

«Poggia meglio il piede sinistro,» sussurrò, la sua voce un sibilo appena percettibile, come se stesse impartendo un segreto che non voleva condividere con il vento. «E inclina leggermente il busto in avanti.»

Sentii il suo fiato caldo sfiorare la pelle del mio collo, e involontariamente, un brivido mi percorse la schiena. Cercai di concentrarmi, di non lasciarmi distrarre dalla sua vicinanza. Sapevo che non era lì per essere gentile, ma per assicurarsi che eseguissi tutto alla perfezione. Tuttavia, la sua presenza così vicina rendeva difficile mantenere la mente lucida.

Mentre mi guidava, potevo percepire la tensione nei suoi muscoli, la forza che tratteneva per non sovrapporsi al mio controllo. Era come se mi stesse trasferendo la sua abilità, attraverso quei piccoli aggiustamenti e quella pressione sottile che esercitava sul mio corpo.

«Così,» disse, correggendo leggermente l'angolo del mio gomito, «ora mira con calma, senza fretta.»

Le sue parole avevano un tono più morbido del solito, quasi ipnotico, ma non era un segno di debolezza. Anzi, sembrava che sapesse esattamente come manipolare ogni mio movimento, come piegare la mia volontà alla sua.

Inspirai profondamente, cercando di ignorare la sensazione della sua mano che premeva contro la mia, della sua presenza imponente che mi circondava. Dovevo concentrarmi sul bersaglio, sull'arco, e sul colpo perfetto.

Lasciai andare la corda, e la freccia volò veloce verso il bersaglio, colpendo quasi il centro.

Finalmente, si staccò da me, facendo un passo indietro. «Meglio,» disse semplicemente, ma potevo percepire una sfumatura di approvazione nella sua voce.

«So come posizionarmi, faccio giro con l’arco da molto tempo, maestro» dissi, cercando di suonare sicura e determinata. Non volevo che Damon pensasse che fossi una principiante o, peggio ancora, che avessi bisogno di qualcuno che mi tenesse per mano.

Lui mi guardò per un attimo, il suo sguardo impenetrabile. Non c’era traccia di un sorriso sulle sue labbra, solo un leggero sollevare di sopracciglio, come se le mie parole lo avessero divertito.

«Ah sì?» replicò, con quel tono che sembrava sempre velato di sarcasmo. «Vediamo, allora. Senza il mio aiuto, altezza. Dimostrami cosa sapete fare.»

Potevo percepire il suo scetticismo, quasi palpabile, come se stesse già pregustando il momento in cui avrebbe potuto correggermi di nuovo. Stringendo l’arco con più forza del necessario, presi posizione. Questa volta, mi assicurai di fare tutto alla perfezione, di non lasciare spazio a nessun errore che lui potesse usare contro di me.

Inspirai profondamente e mi concentrai sul bersaglio, cercando di ignorare la presenza opprimente di Damon alle mie spalle. Tendendo la corda, lasciai che la freccia trovasse la sua strada, fluida e naturale, come avevo fatto molte volte prima.

Scoccai la freccia, e questa volò veloce, colpendo il bersaglio con un suono secco. Non al centro esatto, ma abbastanza vicino da essere considerato un buon colpo.

Mi girai verso di lui, aspettando il suo commento. Demon mi scrutò per un lungo momento, in silenzio. Non riuscivo a leggere la sua espressione, come se stesse deliberatamente nascondendo il suo pensiero. Poi, con la stessa freddezza di sempre, disse: «Non male. Ma non perfetto. E nel mio allenamento, altezza, solo la perfezione è accettabile.»

Non sembrava importargli quanto mi fossi impegnata, quanto avessi cercato di dimostrargli che ero capace. Per lui, c’era qualcosa di sbagliato, era un modo per farmi sentire inadeguata.

«Continuiamo,» aggiunse, facendo un cenno verso il bersaglio. «Questa volta, fai meglio.»

Non c’era altro da fare se non obbedire. Ma dentro di me, giurai che avrei fatto di tutto per dimostrargli che non aveva il diritto di giudicarmi così duramente. Ripresi posizione, decisa a non lasciare che la sua freddezza mi scoraggiasse. Se voleva perfezione, gliela avrei data. Ma non per lui, per me stessa.

Mi rimisi nella posizione esatta come mi aveva insegnato lui poco prima, e con un leggero sorriso sarcastico dissi, «Così, signor Flèche?» C’era una punta di sfida nella mia voce, quasi a provocarlo. Volevo vedere se avrebbe osato criticare nuovamente la mia tecnica.

Lui mi guardò intensamente, il suo sguardo era tagliente, ma non disse nulla. Il silenzio tra di noi diventò pesante, quasi palpabile. Potevo sentire la tensione crescere nell'aria, come se ogni respiro che facevo fosse carico di significato.

Concentrandomi di nuovo sul bersaglio, tirai la freccia con la massima precisione, lasciando che tutto il mio orgoglio e la mia determinazione si riversassero in quel movimento. La freccia volò attraverso l’aria e colpì il centro del bersaglio con un suono soddisfacente. Mi voltai verso di lui, i miei occhi brillavano di soddisfazione. «Avete visto? Centro.»

Per un attimo, mi sembrò che un'ombra di sorpresa attraversasse il suo volto, ma scomparve così velocemente che non avrei potuto esserne certa. Invece, sollevò un sopracciglio, il suo atteggiamento rimase glaciale. «Sì, altezza,» rispose con una calma disarmante, «ma solo perché vi ho insegnato a posizionarvi correttamente.»

Il suo tono era fermo, quasi condiscendente, come se il merito fosse esclusivamente suo. La sua risposta mi irritò profondamente, facendomi sentire come se il mio successo fosse solo il riflesso delle sue istruzioni.

Mi trattenni dal rispondere immediatamente, mordendomi leggermente il labbro per controllare l'impulso di contraddirlo. Lui continuava a guardarmi con quell'espressione impassibile, come se aspettasse una mia reazione, una piccola crepa nel mio controllo.

«Forse,» dissi infine, con una voce che cercava di essere neutra, ma che tradiva un lieve tremolio di emozione, «ma senza il mio talento naturale, le vostre istruzioni sarebbero state inutili.» C'era una sfumatura di sfida nelle mie parole, volevo che capisse che non ero solo una sua creazione, ma che avevo anche io del merito.

Per un istante, pensai di aver visto un lampo di rispetto nei suoi occhi, ma svanì rapidamente, sostituito da quella sua solita maschera di indifferenza. «Vedremo, altezza,» disse infine, la sua voce bassa e priva di emozione. «Vedremo se il vostro talento naturale sarà sufficiente nei giorni a venire.»

Le sue parole rimasero sospese nell’aria, come una sfida non dichiarata. La tensione tra di noi era tangibile, come se entrambi fossimo sul punto di un conflitto che nessuno dei due voleva realmente ammettere.

Andai a recuperare le mie frecce dall’arco, sentendo il suo sguardo su di me mentre lo facevo. C’era ancora quella tensione sospesa tra di noi, come una corda tirata al massimo, pronta a spezzarsi. Ma invece di lasciarmi sopraffare dall’irritazione, mi venne un’idea.

«Ora facciamo un gioco,» dissi, girandomi verso di lui con un sorriso provocatorio.

Demon mi fissò, la sua espressione si fece ancora più seria, se possibile. «Non ho tempo per giocare con lei, vostra altezza,» rispose in modo brusco, come se anche solo l’idea fosse una perdita di tempo.

Ma io non mi lasciai scoraggiare dalla sua risposta. «No, adesso giochiamo,» insistetti, la mia voce assumendo un tono più deciso. «E gioca anche lei con me.» C’era una determinazione nel mio sguardo che non lasciava spazio a obiezioni.

Presi di nuovo il mio arco e mi posizionai, ignorando il suo sguardo scettico. Tirai una freccia, il suono dell’arma che perforava l’aria era come musica per le mie orecchie. Senza esitare, ne tirai un’altra, stavolta con più precisione.

«Ora tocca a voi, signor Flèche,» dissi, facendomi da parte per lasciargli il posto. Mi allontanai, incrociando le braccia mentre lo guardavo prendere posizione.

Demon si avvicinò al punto in cui mi ero appena messa io, con la stessa calma e precisione di sempre. Afferrò il suo arco, e per un attimo, il mondo sembrò fermarsi mentre lo osservavo. Ogni suo movimento era fluido, controllato, come se stesse eseguendo un rito antico.

Prese una freccia, la posizionò correttamente e tirò. Il suono dell’impatto risuonò nell’aria, ma ciò che accadde subito dopo mi lasciò senza parole: la sua freccia colpì la mia prima, spezzandola in due. Il suo colpo era stato perfetto, preciso come non avevo mai visto fare a nessuno.

Demon si voltò verso di me, e sul suo volto si formò un sorriso, uno di quelli rari e quasi impercettibili che mi lasciò sorpresa. «Avete visto, altezza?» disse, la sua voce leggermente più calda, quasi come se fosse soddisfatto del suo stesso talento.

Il mio cuore accelerò per un istante, un misto di irritazione e ammirazione che non riuscivo a controllare. Lui era così sicuro di sé, così perfettamente capace in tutto ciò che faceva. E quel sorriso... era come se per un attimo, dietro quella facciata rigida e impenetrabile, si celasse qualcosa di più.

«Sì, l’ho visto,» risposi, cercando di mantenere la mia voce neutra, anche se dentro di me sentivo una strana emozione crescere.

Sapevo di dover mantenere il mio controllo, di non lasciarmi trasportare da queste nuove sensazioni che iniziavano a mescolarsi al mio interno. Ma mentre Demon si allontanava dal bersaglio, non potei fare a meno di pensare che, in qualche modo, questo gioco stesse iniziando a diventare molto più serio di quanto avessi immaginato.

Presi le frecce, la mia frustrazione crescendo nel petto, e quella spezzata in due la gettai con disprezzo sul terreno. Stavo ancora combattendo contro l'irritazione quando sentii un suono che mi fece voltare di scatto: qualcuno stava battendo le mani.

Mi girai e la vidi. Fiona, la donna che trovavo quasi più insopportabile di mia sorella Elisabeth. Era lì, con quell'aria altezzosa e il sorriso furbo che sembrava incollato al suo volto. Chissà da quanto tempo ci stava osservando.

Il solo vederla mi fece stringere i pugni. Fiona. L’amante di mio padre, la donna che era riuscita a farsi regalare terreni e gioielli come se non avesse alcun valore, persino il gioiello di mia madre, una cosa che non avrei mai potuto perdonare. Non capivo cosa mio padre vedesse in lei, né come potesse fidarsi di una persona così falsa e calcolatrice.

Lei sorrise, ma non era un sorriso genuino. Guardava Demon come se lui fosse un trofeo, qualcosa da ammirare e conquistare.

«Sei stato bravo, Seigneur Flèche,» disse, la sua voce dolce come il miele, ma con una punta di veleno che solo chi la conosceva poteva percepire.

Demon si voltò verso di lei e, con una cortesia che mi irritava ancora di più, rispose: «Grazie, lady Fiona.» C'era qualcosa nel modo in cui si rivolse a lei che mi fece stringere i denti. Sembrava quasi... compiaciuto della sua attenzione. Forse era solo la mia immaginazione, ma non potevo fare a meno di notare la leggera sfumatura di soddisfazione nel suo tono.

Rimasi in silenzio, osservando quella scena con una crescente sensazione di disgusto. Fiona era abile nel manipolare le persone, nel giocare con le emozioni degli altri, e odiavo il fatto che sembrava aver catturato l’attenzione di Demon così facilmente.

Lei fece un passo verso di lui, come se volesse accorciare la distanza tra loro. «Vostra altezza,» disse rivolgendosi finalmente a me, anche se i suoi occhi erano ancora fissi su Demon, «dovreste essere molto orgogliosa di avere un maestro così talentuoso.»

Il modo in cui parlava, così suadente e pieno di sottintesi, mi faceva venire la nausea. Ma non avrei permesso che Fiona vedesse quanto mi irritava. Dovevo mantenere il controllo, dovevo rimanere superiore.

«Sono sicura che farà il suo lavoro con la stessa precisione con cui ha rotto la mia freccia,» risposi, il mio tono freddo e tagliente. Poi mi voltai verso Demon, il mio sguardo penetrante, cercando di far capire che non ero disposta a lasciare che questa donna intralciasse i nostri allenamenti. «Signor Flèche,» aggiunsi, «continuiamo?»

Fiona si voltò verso di me con un sorriso. «Franny,» disse con quella voce mielosa che riusciva sempre a farmi innervosire, «Demon è il cacciatore più bravo di Hyperboria.»

Rimasi sorpresa, non tanto per la notizia, ma per il fatto che Fiona avesse già ottenuto quell’informazione. Era evidente che lei non lasciava mai niente al caso. Demon, tuttavia, sembrava altrettanto sorpreso quanto me. «Come lo sapete?» chiese, mantenendo un'espressione composta, anche se nei suoi occhi si poteva leggere un'ombra di curiosità.

Fiona, con un movimento lento e deliberato, aprì il ventaglio e lo sventolò leggermente. «Ho fatto delle ricerche su di voi,» rispose, il suo tono così dolce.

Demon sorrise, compiaciuto, ma il mio sorriso si fece largo sulle labbra per un motivo completamente diverso. Senza pensarci troppo, le parole scivolarono fuori dalla mia bocca: «L’amante di mio padre ha un amante.»

Il sorriso di Fiona si congelò per un istante, la sorpresa che le attraversava il viso era innegabile. Avevo colpito nel segno, e la soddisfazione che provai in quel momento fu inebriante. Fiona aprì la bocca per rispondere, ma non le diedi nemmeno il tempo di formulare una frase. Afferrando il mio arco con una rapidità che le tolse il respiro, tirai una freccia e la centrai perfettamente nel bersaglio, mettendo fine a quella conversazione in un colpo solo.

«Pregherò così tanto che tu possa essere in piccata,» dissi, il mio tono calmo ma pieno di significato, mentre recuperavo la mia attrezzatura. Era il momento del mio rosario, un rituale che seguivo con devozione, e non avevo intenzione di lasciare che una donna come Fiona distogliesse la mia attenzione.

Con un ultimo sguardo verso Demon, dissi con un sorriso enigmatico: «À bientôt, Mr Arrow.» Poi, senza attendere risposta, mi allontanai, sentendo il peso delle loro occhiate su di me mentre mi dirigevo verso il giardino, pronta a immergermi nel mio rosario e a lasciare che il mondo, con le sue menzogne e i suoi giochi di potere,
rimanesse lontano, almeno per un po'.

***

Era l'ora di cena, e avevo indossato un abito color avorio che mi fasciava il corpo con delicatezza. Il vestito era morbido, con uno scollo che lasciava le spalle scoperte, ornato da balze che scendevano leggere lungo la gonna. Il bustino, stretto in vita, evidenziava la mia figura, aggiungendo un tocco di eleganza al tutto. I capelli, sciolti, cadevano in onde morbide lungo la schiena, conferendo al mio aspetto un'aria eterea.

Dopo aver fatto il rosario come previsto, mi trovavo finalmente a cena, un momento che di solito detestavo, ma che quella sera sembrava ancora più pesante. Ero stufa di quella corte, del suo lusso, delle sue ipocrisie. Il pensiero di rinunciare a Melior mi attraversò la mente, ma i ricordi di Cleopatra, quella ragazza misteriosa dagli occhi ipnotici, mi trattennero dal cedere a quella tentazione.

Camminai lungo il corridoio, i passi leggeri che rimbombavano sul pavimento di pietra, e finalmente entrai nella sala da pranzo. Mio padre era già seduto al centro della tavola, con Fiona alla sua destra ed Elisabeth alla sua sinistra. Mi sedetti accanto a mia sorella, e l'atmosfera era tesa, quasi nessuno parlava. Fiona mi fissava con un'aria di sfida, ma io feci finta di niente. Non volevo darle la soddisfazione di una reazione.

«Cosa mangiamo oggi, padre?» chiesi, cercando di rompere quel silenzio opprimente.

Lui sorrise, un sorriso che non raggiunse mai i suoi occhi. «Pollo,» rispose. Sapevo bene che il pollo era un lusso che pochi del nostro popolo potevano permettersi, e quel pensiero mi fece stringere i pugni sotto la tavola.

Mentre i camerieri iniziavano a servire, mi tornò in mente Cleopatra. Qualcosa in lei mi aveva colpito profondamente. «Padre, conoscete qualcuno che lavora qui che si chiama Cleopatra?» chiesi, cercando di mantenere un tono casuale, anche se la curiosità mi divorava.

Mio padre rimase in silenzio per un attimo, lo sguardo fisso su un punto indefinito, pensieroso. Poi, con voce ferma, disse: «No, non c'è nessuno che si chiama Cleopatra. Perché?»

Il suo tono mi fece capire che non mentiva, o almeno non ne aveva motivo. Ma allora chi era quella ragazza? E perché mi sentivo così attratta da lei? Non risposi subito, lasciando che il silenzio tornasse a dominare la sala, mentre la cena proseguiva come ogni altra sera, ma con un'ombra di mistero che ora mi avvolgeva completamente.

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