SINS

Demon

Guardavo il soffitto della mia stanza, ancora immerso nell'oscurità, mentre i ricordi della sera precedente si facevano strada nella mia mente. Il corpo di Francesca ancora caldo, premuto contro di me, le sue labbra che mi sussurravano quanto mi odiava mentre, nel contempo, si muoveva disperatamente per cercare quel piacere che solo io potevo darle. Era un miscuglio di emozioni contrastanti, di rabbia e desiderio, come un veleno dolce che scorreva nelle vene.

Mi alzai dal letto, sentendo ogni muscolo del mio corpo ancora teso da quella notte. Mi avvicinai alla finestra e guardai fuori, il castello di Hyperberia silenzioso sotto il cielo grigio dell’alba. Sapevo che avrei dovuto essere soddisfatto, avevo ottenuto ciò che volevo. Avevo dominato la principessa, la figlia dell’imperatore, la donna che più di tutte avrebbe dovuto detestarmi, eppure mi aveva cercato, mi aveva implorato di prenderla. E l’avevo fatto.

Ma dentro di me, quella sensazione di vittoria aveva un sapore amaro. Non era solo il corpo di Francesca che avevo conquistato, ma una parte della sua anima che lei non voleva concedere. Quella sfida costante tra di noi, quel continuo rincorrersi e respingersi, era diventata una guerra personale, un modo per dimostrare qualcosa a noi stessi, più che agli altri.

Non potevo negare che mi piacesse quella tensione, quel gioco perverso che avevamo iniziato. Era come una caccia, e io ero il cacciatore. Ma Francesca non era una preda facile. Lei si dibatteva, mordendomi metaforicamente ogni volta che pensavo di averla sottomessa. La sua resistenza, la sua forza, erano come il fuoco per un uomo che vive nel ghiaccio. Mi attiravano, mi sfidavano, mi costringevano a volerla ancora di più.

Mi appoggiai al muro, chiudendo gli occhi, rivivendo il momento in cui l'avevo avuta nella chiesa. Era stato crudo, intenso. Le sue mani che stringevano il rosario mentre io la spingevo oltre ogni limite, ogni convenzione. Il modo in cui il suo corpo rispondeva al mio tocco, come se solo io potessi liberarla da qualcosa di molto più profondo. Era in quegli attimi, tra un bacio e un insulto, che si mescolavano i nostri sentimenti più oscuri.

Ma al di là del desiderio, c'era una linea che non potevamo oltrepassare. Francesca aveva detto che non mi piaceva, che era stata solo una notte per svagarsi, per dimenticare. Quelle parole mi avevano colpito, come una freccia lanciata con precisione. Mi aveva usato per distrarsi dal peso della sua corona, dai drammi della sua famiglia, da quel padre che era caduto e che lei voleva credere invincibile. E io, pur sapendo di essere stato solo un mezzo, l’avevo lasciata fare.

Francesca non era pazza, come tutti dicevano. Era solo intrappolata tra il suo dovere e i suoi desideri, tra quello che voleva e quello che le veniva imposto. Era come me, in un certo senso. Prigionieri entrambi di aspettative e obblighi che ci schiacciavano. E forse, proprio per questo, ci cercavamo con tanto furore.

Aprii gli occhi, decidendo che non avrei pensato più a quello che era successo. Francesca era solo un capitolo in una storia più grande, un intralcio nei miei piani che avrei dovuto gestire con attenzione. Non c’era spazio per sentimenti o rimpianti. Solo per il gioco che avevamo iniziato e che, ne ero certo, sarebbe continuato. Perché il nostro odio, come lei stessa aveva detto, non sarebbe mai morto.

Mi vestii, preparandomi a scendere per gli allenamenti del mattino. Dovevo essere il miglior cacciatore di Hyperberia, non solo per gli altri, ma anche per lei. Per dimostrarle che potevo essere ancora superiore, che potevo tenerla in pugno ogni volta che volevo. Ma mentre mi allacciavo gli stivali, una parte di me sapeva che non era così semplice. La principessa era una sfida che non avrei mai potuto ignorare, e forse, in fondo, nemmeno volevo.

Con un ultimo sguardo fuori dalla finestra, lasciai la stanza. Un nuovo giorno iniziava, e con esso, un’altra possibilità di giocare al nostro gioco preferito.

Era passata una settimana da quella notte nella chiesa, nel luogo dove i peccati venivano confessati, eppure il peccato più grande l’avevamo commesso noi. Francesca, la mia dolce arciera di cristallo, tanto dolce non era. Quel pensiero mi strappò un sorriso amaro mentre camminavo lungo i corridoi del castello, diretto verso le stanze dell’imperatore.

L’imperatore Hanry si stava riprendendo lentamente, ferito e ora afflitto da un’ulcera che lo costringeva a letto. Un uomo che era stato così forte, adesso ridotto a una figura pallida e debole tra le lenzuola, con la figlia maggiore, Elisabeth, a prendere il suo posto come reggente. Hanry aveva sempre avuto un’aura di invincibilità, un uomo che guidava con il pugno di ferro e la mente acuta, ma anche il potere cade, e lui non era stato immune al tempo e alle sue crudeli conseguenze.

Elisabeth, con la sua determinazione inflessibile, aveva assunto il ruolo con dignità e precisione. Era meticolosa, ogni sua mossa calcolata, un vero riflesso del padre, ma senza la stessa potenza nell’imporre il suo volere. La vedevo come una regina temporanea, una custode del trono che, nonostante i suoi sforzi, non avrebbe mai avuto il pieno controllo come Valerian. Questo le causava frustrazione, la percepivo nelle sue parole ogni volta che ci incrociavamo nei saloni del potere.

Francesca, invece, era un’altra storia. Lei non aveva mai cercato il potere, né la posizione, ma c’era una parte di lei che desiderava qualcos’altro, qualcosa che ancora non riuscivo a decifrare del tutto. La sua presenza mi mancava, il modo in cui i suoi occhi si illuminavano di sfida ogni volta che mi vedeva, la tensione palpabile tra di noi che rendeva ogni incontro elettrico. Avevamo giocato col fuoco e, almeno per quella settimana, sembrava che le fiamme si fossero calmate. Ma conoscevo Francesca abbastanza per sapere che era solo una questione di tempo prima che si riaccendessero.

L'imperatore Hanry mi aveva convocato, e ogni passo che facevo verso la sua stanza sembrava trascinarmi sempre più in un abisso di incertezza. Non sapevo cosa volesse da me, ma un pensiero continuava a tormentarmi: e se l’uomo che aveva visto me e Franny quella notte avesse detto qualcosa? La possibilità mi stringeva la gola come una morsa, lasciandomi con un senso di ansia che non riuscivo a scrollarmi di dosso.

Arrivai davanti alla grande porta di legno intarsiato che separava la stanza dell'imperatore dal resto del mondo. Mi fermai, esitando un istante. Il respiro era pesante e mi sembrava di sentire il rumore del mio cuore che batteva forte. Sospirai profondamente, cercando di calmare i nervi, ma non riuscivo a scacciare del tutto la paura. Con un gesto deciso, bussai tre volte, il suono dei colpi che risuonava nitidamente nel corridoio silenzioso.

Dall'interno, udii la voce dell'imperatore Hanry, profonda e autorevole, che mi invitava a entrare. La porta si aprì lentamente, e uno dei suoi consiglieri mi fece un cenno con la testa per farmi entrare. L'aria nella stanza era pesante, un misto di incenso e l’odore pungente delle medicine.

Appena entrai, i miei occhi incontrarono quelli di Hanry. Sembrava ancora più stanco e affaticato di quanto ricordassi, il volto pallido e segnato dalle rughe, segno di un uomo che aveva visto e sopportato troppo. Lo sguardo dell’imperatore era fisso su di me, un misto di curiosità e qualcosa che non riuscivo a decifrare. Il consigliere richiuse la porta alle mie spalle, lasciandoci soli. Feci un profondo inchino, rispettando l'etichetta di corte, mentre cercavo di non tradire la tensione che mi divorava dentro.

Entrai nella stanza con un leggero inchino, cercando di mantenere un’espressione calma e composta. L’imperatore Henry era disteso sul letto, pallido e visibilmente provato dalla malattia. L’ulcera lo stava debilitando, ma i suoi occhi mantenevano la solita freddezza autoritaria. Accanto a lui, il consigliere personale mi osservava con uno sguardo indagatore, mentre sorreggeva dei documenti tra le mani.

«Avvicinati, Demon Flèche,» ordinò l’imperatore con una voce roca ma ferma. La sua autorità era intatta, nonostante il suo stato fisico. Feci un passo avanti, con il cuore che batteva veloce nel petto. Non riuscivo a scrollarmi di dosso la paura che l'uomo che ci aveva sorpresi potesse aver parlato.

«Vostra Maestà,» risposi, inchinandomi leggermente. Mi ero preparato mentalmente a ogni possibile domanda o accusa, ma speravo che quel momento non arrivasse mai. Il silenzio nella stanza era pesante, quasi soffocante, e mi sentivo sotto scrutinio.

Henry mi guardò intensamente, scrutandomi come se potesse vedere ogni mia colpa. «So che sei uno dei migliori arcieri e cacciatori del regno,» iniziò, la sua voce tagliente. «Ma il tuo talento non ti rende immune dagli errori. Ci sono questioni delicate che necessitano di uomini di cui potersi fidare ciecamente.»

Annuii, mantenendo il mio sguardo fisso su di lui, anche se ogni fibra del mio corpo voleva distogliere lo sguardo. «Sono a vostra disposizione, Maestà,» risposi con una calma che cercavo di forzare nelle parole. Dentro di me, ogni muscolo era teso come una corda di violino, pronto a spezzarsi.

L’imperatore sollevò una mano, indicando al consigliere di allontanarsi. L’uomo obbedì immediatamente, uscendo dalla stanza e lasciandoci soli. Il rumore della porta che si chiudeva alle sue spalle mi fece sobbalzare leggermente, come se il suono amplificasse la gravità della situazione.

Henry mi osservò per un lungo momento, poi finalmente parlò. «Demon, ci sono voci che corrono nei corridoi di questo castello,» disse, con un tono che tradiva una stanchezza nascosta. «E tra queste voci, c’è il mio nome. Franny.»

Il cuore mi si fermò per un istante, e mi sforzai di mantenere un'espressione neutra. «Vostra Maestà, io...»

Lui alzò una mano per zittirmi. «Non sono interessato ai dettagli sordidi, Demon,» disse bruscamente. «Quello che mi interessa è la mia corte, la mia famiglia. Non ci devono essere distrazioni che possono compromettere il regno, soprattutto ora che sto lottando per la mia salute e Elisabeth ha preso il mio posto come reggente.»

Annuii lentamente, mantenendo un rispetto apparente mentre cercavo di decifrare esattamente quanto sapesse. Il mio corpo era in tensione, ogni fibra pronta a reagire al minimo segnale di pericolo. «Capisco, Maestà. Non accadrà più nulla che possa compromettere la stabilità del regno o la vostra famiglia.»

Henry mi fissò, come se cercasse di pesare la sincerità delle mie parole. «Spero che tu lo capisca davvero, Demon. Perché se dovessi scoprire che qualcuno ha osato mettere a rischio ciò che è mio...» lasciò la frase sospesa, ma il significato era chiaro come il ghiaccio.

Abbassai la testa, stringendo i pugni per mantenere il controllo. «Sì, Maestà. Non ci saranno altre distrazioni.»

Dopo un lungo silenzio, annuì. «Bene. Puoi andare.»

Mi inchinai di nuovo, poi mi voltai e uscii dalla stanza. Ogni passo lontano dall'imperatore sembrava liberarmi da un peso, ma la consapevolezza che tutto ciò che avevo fatto con Franny poteva venire alla luce mi seguiva come un’ombra. Ero riuscito a mantenere il controllo, ma sapevo che quell’incontro era solo l’inizio di una lunga battaglia per proteggere ciò che era accaduto quella notte.

Camminai lungo i corridoi del castello, le pietre antiche sotto i miei passi sembravano pesanti, come se riflettessero il peso dei miei pensieri. La mia mente era avvolta in un turbinio di preoccupazioni, e mentre avanzavo, speravo solo che Franny fosse pronta ad affrontare tutto questo. I muri decorati con arazzi e ritratti di antenati imperiosi sembravano scrutarmi, giudicando ogni mio pensiero, ogni mia decisione. Non potevo scrollarmi di dosso la sensazione che qualcuno, da qualche parte, sapesse tutto.

Ogni passo mi avvicinava all’atrio, dove il sole filtrava dalle alte finestre, creando un mosaico di luci sul pavimento. Ma nonostante la bellezza della scena, la tensione mi stringeva il petto. Speravo con tutto me stesso che Elisabeth non sapesse nulla. La sua opinione contava troppo per me, e la sola idea che potesse vedermi come un uomo senza onore, un uomo che aveva tradito la fiducia della famiglia imperiale, era insopportabile. Mi fermai nell’atrio, il respiro pesante, e sospirai profondamente, cercando di calmare il battito frenetico del cuore.

Sentii una voce alle mie spalle. «Demon,» disse, e mi voltai rapidamente. Franny era lì, la sua figura slanciata in contrasto con la luce che proveniva dalle finestre dietro di lei. Sembrava tranquilla, ma io potevo leggere nei suoi occhi una tempesta di emozioni non dette.

«Franny,» dissi, tentando di mantenere un tono di voce neutrale. «Tuo padre…» Mi fermai, non sapendo come continuare senza rivelare il mio nervosismo.

Lei chiuse gli occhi per un istante, come per assorbire le mie parole, e poi li riaprì lentamente. «Lo so,» disse con calma, ma il suo tono tradiva una leggera tensione. «Ma non sa niente, nessuno sa nulla. Non preoccuparti,» aggiunse, le sue parole erano un balsamo che cercava di placare le mie ansie. «Ho incastrato il consigliere di mio padre, l’ho mandato via.»

Le sue parole mi colsero di sorpresa, e sospirai, sentendo un peso sollevarsi, anche se solo leggermente. «Franny, tu lo sai che girano delle voci su di noi, giusto?» Chiesi, la mia voce tradiva una punta di preoccupazione. Avevo bisogno di sapere che anche lei era consapevole del rischio, che anche lei fosse pronta ad affrontare le conseguenze.

Lei mi guardò con quella sicurezza che sembrava non abbandonarla mai. «Lo so,» rispose, con una calma che sembrava quasi sovrumana. «Non ci accadrà nulla, Demon.» Il suo sguardo era fermo, convinto. Per un attimo, mi persi nella profondità dei suoi occhi, cercando di trovare in essi la stessa sicurezza che lei sembrava avere.

Franny era sempre stata così, impavida di fronte al pericolo, quasi spavalda nel suo modo di affrontare la vita. E per un istante, quella sua fiducia mi contagiò. Ma dentro di me, il dubbio rimaneva, sussurrando che il nostro segreto era fragile, un castello di carte pronto a crollare al primo soffio di vento.

Cercai di lasciarmi trasportare da quella sua sicurezza, ma il pensiero di Elisabeth e delle voci che correvano nei corridoi del castello non mi abbandonava. Sapevo che la verità avrebbe potuto distruggere tutto, che il mio onore e la mia lealtà erano appesi a un filo sottile. Ma in quel momento, con Franny davanti a me, con la sua promessa di protezione, decisi di aggrapparmi a quell’unico barlume di speranza.

«Sei sicura?» Chiesi ancora una volta, come se avessi bisogno di risentirlo per convincermi del tutto.

Lei mi sorrise, un sorriso che prometteva di superare qualsiasi avversità. «Sì, Demon,» disse con fermezza. «Non ci accadrà nulla.»

Decisi di credere in lei.

Franny si girò e iniziò a camminare con passo deciso verso il campo d’allenamento, il suono dei suoi stivali che colpivano il pavimento rimbombava nel corridoio vuoto. I suoi movimenti erano fluidi e pieni di grazia, ma la tensione nei suoi passi era palpabile, quasi come se ogni passo fosse una dichiarazione di sfida al mondo intero. Mentre la seguivo, osservando la sua schiena dritta e le spalle tese, mi resi conto di quanto fosse determinata a non farsi intimidire da nulla e da nessuno.

Appena arrivati al campo d'allenamento, lei si fermò improvvisamente e si voltò verso di me, il vento leggero sollevava appena i suoi capelli, dandole un’aria ancora più imperiosa. «Dovresti essere più preoccupato per la tua relazione con Fiona,» disse, con un tono tagliente, come se avesse appena lanciato una freccia precisa al centro del bersaglio. Le sue parole colpirono un nervo scoperto, e io non potei fare a meno di distogliere lo sguardo, guardando le spade e gli archi appesi alle pareti, cercando un modo per nascondere il mio disagio.

Fiona era un altro problema, uno che continuava a pesare come un macigno sulla mia coscienza. Fiona era intelligente, ambiziosa, e soprattutto, era troppo coinvolta in ciò che accadeva a corte per essere ignorata. Ma c'era qualcosa di ancora più complicato, qualcosa che non avevo mai ammesso nemmeno a me stesso: Fiona sapeva leggere le persone. Lei mi conosceva, conosceva i miei segreti e le mie debolezze meglio di chiunque altro. E quel pensiero mi tormentava.

Sospirai pesantemente, il suono sfuggì dalle mie labbra prima che potessi trattenerlo. Franny mi guardava con quegli occhi penetranti che sembravano scandagliare ogni angolo del mio animo, cercando risposte che non ero pronto a darle. Il suo sguardo mi sfidava a dire la verità, a mettere a nudo i miei sentimenti senza alcun filtro.

«Non vai più a letto con lei da quando mi hai scopato,» dichiarò con una freddezza tagliente, quasi a voler testare la mia reazione. Il suo tono era accusatorio, come se già sapesse la risposta ma volesse che fossi io a pronunciarla, a riconoscere l’evidenza.

«No,» risposi, la voce più bassa di quanto avrei voluto, quasi sussurrata, come se il solo ammetterlo fosse un peso troppo grande. «Si occupa di tuo padre.» Quelle parole rimasero sospese tra di noi, come una lama pronta a cadere. C'era una verità innegabile in ciò che avevo detto, ma sapevo che quella risposta non sarebbe bastata a placare i dubbi di Franny.

I suoi occhi si fecero più scuri, come se dentro di lei stesse esplodendo una tempesta silenziosa. Era come guardare il mare poco prima che arrivi la tempesta: calmo in superficie, ma con un tumulto implacabile nascosto appena sotto. Franny non disse nulla per un lungo momento, il suo silenzio parlava più di mille parole. Mi studiava, cercava di capire quanto di ciò che avevo detto fosse sincero, quanto di quel «si occupa di tuo padre» fosse una scusa e quanto fosse realmente la verità.

Mi sentii esposto, come se ogni parte di me fosse sotto scrutinio. Fiona era stata una mia amante per un po' di tempo, e il suo ruolo nella corte era innegabile. Aveva guadagnato la fiducia dell’imperatore Hanry, ed era sempre presente, attenta, pronta ad agire. Sapevo che la mia decisione di allontanarmi da lei non sarebbe stata senza conseguenze, ma da quando Franny era entrata nella mia vita con la forza di un uragano, tutto era cambiato.

Franny si mosse con una sicurezza innata, i suoi movimenti erano precisi e calcolati, come quelli di una pantera pronta a balzare sulla sua preda. La osservai mentre si avvicinava all'arco appeso al muro, il suo sguardo concentrato, le labbra serrate in una linea determinata. Non c’era esitazione in lei, ogni gesto era carico di una tensione silenziosa ma evidente.

Prese l'arco tra le mani, sfiorandolo con delicatezza, come se fosse un'estensione del suo stesso corpo. Lo sollevò, verificando la tensione della corda con un gesto rapido e sicuro, le dita che scivolavano sulla superficie liscia del legno con una familiarità che rivelava anni di addestramento. Mi colpì la sua precisione, ogni mossa era stata allenata, perfezionata fino a diventare quasi istintiva.

Si posizionò con una grazia che non lasciava spazio all’errore. Le sue gambe erano ben piantate sul terreno, i piedi distanziati quanto bastava per garantire equilibrio, mentre le spalle si allineavano in una linea retta. Avevo visto quella postura molte volte, una postura che le avevo insegnato io stesso, ma vederla così, con la determinazione scolpita nei suoi occhi, mi fece provare una strana fitta di orgoglio. Era la mia arciera di cristallo, quella che avevo modellato a mia immagine, eppure, in quel momento, era chiaro che mi aveva superato in tutto.

«Come ti ho insegnato,» mormorai, più a me stesso che a lei, ma sapevo che Franny mi sentiva, che ogni parola rimbombava nel silenzio dell’arena. Lei annuì appena, una reazione quasi impercettibile mentre allineava la freccia con la corda dell’arco. Le sue dita affusolate si muovevano con precisione, aggrappandosi alla corda con fermezza e delicatezza al contempo. Potevo vedere i muscoli delle sue braccia tendersi, la concentrazione che le velava lo sguardo mentre prendeva di mira un punto invisibile davanti a sé.

Poi, senza alcun preavviso, tirò indietro la corda, tendendola fino al massimo della sua tensione. L'arco sembrava quasi vibrare tra le sue mani, carico di una potenza trattenuta pronta a esplodere. Potevo sentire l’attesa, quella frazione di secondo in cui tutto il mondo sembrava sospeso, e c'era solo lei, l’arco, e l’obiettivo davanti.

Franny inspirò lentamente, le sue spalle si alzarono appena e poi, con un movimento fluido e deciso, rilasciò la corda. La freccia sfrecciò nell’aria con un sibilo acuto, attraversando lo spazio con una velocità impressionante. Seguì il suo volo con lo sguardo, fino a quando non colpì il bersaglio al centro, con un rumore secco che ruppe il silenzio del campo d'allenamento.

Lei abbassò l'arco, il respiro ancora regolare, senza un accenno di trionfo sul suo volto. Era come se per lei colpire il bersaglio fosse solo un’inevitabile conseguenza del suo allenamento, niente di cui vantarsi, solo la norma. Si girò lentamente verso di me, gli occhi brillavano di una luce fredda, quella determinazione feroce che l’aveva sempre caratterizzata.

«E poi, non preoccuparti,» disse, la sua voce era bassa ma sicura, quasi un sussurro che penetrò fino al midollo delle mie ossa. «L'unico che morirà sarai tu, non io.» C'era un sorriso sottile sulle sue labbra, un misto di sfida e sicurezza che fece crescere in me una strana miscela di ammirazione e inquietudine.

Quelle parole mi colpirono come un colpo in pieno petto, ma sapevo che non erano solo una minaccia. Era una promessa. Una dichiarazione di intenti, un promemoria che Franny non avrebbe permesso a nessuno, nemmeno a me, di farle del male. Guardai il bersaglio, la freccia che vibrava ancora al centro, perfettamente allineata. Lei era il pericolo e la protezione, un’arma che avevo contribuito a forgiare e che adesso aveva una volontà propria, impossibile da controllare.

La osservai per un istante più lungo, assaporando quel momento in cui l'allieva aveva superato il maestro, trasformandosi in qualcosa di più. Era più di una semplice arciera, più di una principessa ribelle. Franny era una forza della natura, e in quel momento, sapevo che chiunque avrebbe dovuto pensarci due volte prima di mettersi sulla sua strada. Perfino io.

Mi avvicinai lentamente a lei, sentendo il peso di ogni passo sul terreno polveroso del campo d'allenamento. I miei stivali affondavano leggermente nella terra, ma non rallentai. Gli occhi di Franny erano fissi su di me, il loro colore acceso da una sfumatura di rabbia e sfida che la rendeva ancora più irresistibile. La tensione tra di noi era palpabile, un filo invisibile teso al limite, pronto a spezzarsi al minimo movimento sbagliato.

«Sarai giustiziata anche tu,» le dissi, la mia voce era bassa, quasi un sussurro, ma tagliente come una lama. La osservai attentamente, cercando di cogliere ogni minima reazione sul suo viso. Franny non si mosse, le sue labbra si serrarono in una linea sottile, il suo sguardo si fece ancora più duro.

Lei scosse appena la testa, il suo respiro diventò più rapido, ma non distolse lo sguardo dal mio. «Mio padre non mi farebbe niente del genere,» rispose, la sua voce era sicura, ma avvertii una leggera incrinatura, un’ombra di incertezza che non riuscì a mascherare del tutto. «Lui mi ama.»

Sorrisi, un sorriso amaro, carico di ironia. «Ti ricordo che ti ha minacciato di rinchiuderti nella torre, Franny,» dissi, calcando il suo nome con una punta di provocazione. Franny mi guardò male, le sue pupille si dilatarono leggermente e potevo vedere il fuoco che ardeva dietro i suoi occhi. Era una fiamma che avevo visto crescere negli anni, ma mai così intensa come in quel momento.

«Non chiamarmi Franny,» replicò, il suo tono era duro come acciaio, la voce vibrava di una determinazione che conoscevo fin troppo bene. «Puoi darmi del tu, ma non chiamarmi Franny. Sono ancora la tua principessa.»

Rimasi immobile per un istante, studiando il suo volto. C’era un misto di rabbia e orgoglio, ma anche qualcosa di più profondo, una vulnerabilità nascosta che la rendeva ancora più enigmatica. «Sì, appunto,» risposi lentamente, il mio sorriso si allargò mentre pronunciavo le parole che sapevo l’avrebbero colpita al cuore. «Sei mia. Ti ho sverginato.»

Lei sussultò appena, un fremito quasi impercettibile che scosse la sua calma apparente. Era un colpo basso, lo sapevo, ma volevo vederla reagire, volevo che sentisse il peso di ciò che era accaduto tra noi, di ciò che avevamo condiviso in quel confessionale, nascosti agli occhi di tutti ma consapevoli del peccato che stavamo commettendo.

Quando tuo padre ti metterà in moglie, pensai, senza pronunciare quelle parole ad alta voce, e scoprirà che non sei più vergine, che cosa accadrà? Il pensiero mi attraversò la mente come un fulmine, lasciando dietro di sé una scia di incertezza e paura. Ma le parole uscirono con un tono velenoso che non potei trattenere del tutto.

Franny mi fissò con uno sguardo che avrebbe potuto uccidere. La sua mano tremò leggermente, ma non abbassò lo sguardo. «Quello che è successo tra noi è stato un errore,» disse, ma la sua voce tradiva una sfumatura di esitazione, come se nemmeno lei fosse completamente convinta di ciò che stava dicendo.

Mi avvicinai ancora di più, fino a che non sentii il suo respiro caldo contro il mio volto. Potevo percepire la tensione nei suoi muscoli, il battito accelerato del suo cuore. «Un errore che non si può cancellare,» mormorai, le parole erano appena un soffio, ma abbastanza forti da farle distogliere lo sguardo per un istante, la prima crepa nella sua corazza di sicurezze.

Franny si irrigidì, il suo sguardo tornò a incrociare il mio con una ferocia rinnovata. «Mio padre non saprà mai niente,» sibilò, le sue parole erano piene di veleno e determinazione. «E tu non farai mai più riferimento a quel momento. Tu non sei nessuno per ricordarmelo.»

Il suo volto era una maschera di sfida, ma nei suoi occhi c’era una scintilla di qualcosa di diverso, qualcosa che non era semplice rabbia. Era paura, un’emozione che cercava di nascondere con tutte le sue forze, ma che era lì, presente e reale.

«Ah, principessa,» dissi con un sorriso freddo, mentre la guardavo intensamente. «Non dimenticare che sono stato io a portarti al peccato. E non è finita qui.»

Lei mi fissò per un lungo momento, il respiro pesante, le mani strette intorno all'arco come se volesse spezzarlo in due. Ma non disse nulla, e in quel silenzio, compresi che la partita tra noi era tutt'altro che conclusa. Eravamo intrappolati in un gioco pericoloso, un gioco fatto di sfide, segreti e desideri inconfessabili. E nessuno dei due sembrava disposto a fare il primo passo indietro.

Mi avvicinai ancora di più a lei, sentendo il suo respiro affrettarsi mentre il mio si manteneva calmo, controllato. La distanza tra noi si riduceva sempre di più, e il silenzio pesava come una sentenza sospesa sopra le nostre teste. Vedevo ogni dettaglio del suo viso, la tensione nella sua mascella serrata, la lieve contrazione delle sopracciglia. Franny era una donna che sapeva nascondere le sue emozioni dietro una maschera di freddezza, ma in quel momento la vedevo esattamente per ciò che era: una ragazza in conflitto con se stessa, che lottava contro desideri che non voleva ammettere.

«Abbiamo peccato entrambi,» dissi lentamente, assaporando ogni parola mentre usciva dalle mie labbra come un veleno dolceamaro. Il mio tono era basso, quasi un sussurro, ma carico di intenzione. Volevo che lei sentisse il peso di quelle parole, che sapesse che il nostro peccato non era solo un momento passato, ma qualcosa che ci avrebbe legato per sempre.

Franny fece un passo indietro, il suo volto si irrigidì in una smorfia di fastidio. La vidi lottare con se stessa, cercando di mantenere quel contegno freddo e distante che tanto si sforzava di mantenere. «Smettila, Demon,» rispose, la sua voce tremò leggermente, come se non riuscisse a sostenere la fermezza che voleva imprimere alle sue parole.

Sorrisi, un sorriso che sapevo l'avrebbe fatta arrabbiare ancora di più. Era un sorriso di pura provocazione, un modo per ricordarle che, nonostante tutto, non poteva nascondere ciò che era accaduto tra noi. «Abbiamo peccato nella chiesa,» ripetei, calcando con cura ogni sillaba. Era una verità inconfessabile, un segreto che bruciava sotto la pelle e che nessun bagno di redenzione avrebbe mai potuto lavare via.

Franny chiuse gli occhi, il suo petto si sollevava e abbassava velocemente mentre cercava di mantenere il controllo. La sua reazione era esattamente quella che volevo: la vedevo cercare di allontanarsi da quel momento, di allontanare il ricordo di ciò che avevamo fatto. Era una battaglia che stava perdendo, e lo sapevamo entrambi.

«Non ricordarmelo,» sussurrò con un filo di voce, quasi supplicante. Era la prima volta che la sentivo così vulnerabile, così esposta. Il suo sguardo era ancora chiuso, come se sperasse che non vedendo il mondo intorno a lei potesse cancellare ciò che era accaduto.

Ma io ero lì, a ricordarglielo, a mantenerla ancorata alla realtà del nostro peccato. Le misi una mano sul viso, il pollice che sfiorava il suo zigomo con una delicatezza che non avevo mai mostrato prima. Era un gesto intimo, troppo intimo, ma non potevo fermarmi. Il contatto con la sua pelle era una conferma, una promessa di ciò che eravamo e di ciò che avremmo potuto continuare ad essere.

«Non puoi dimenticare, Franny,» mormorai, la mia voce era bassa, quasi ipnotica. «Non puoi semplicemente chiudere gli occhi e sperare che tutto svanisca. È lì, tra noi. Sempre.»

Lei riaprì lentamente gli occhi, incontrando il mio sguardo con una forza che non mi aspettavo. Nei suoi occhi c’era un miscuglio di emozioni: rabbia, dolore, desiderio e una punta di sfida. Non disse nulla, ma il silenzio tra noi era più eloquente di qualsiasi parola. C’era una battaglia in corso, e nessuno dei due era disposto a cedere.

Sapevo che stavo camminando su un filo sottile, spingendo Franny sempre di più al limite. Ma era un rischio che ero disposto a correre, perché sapevo che dietro la sua resistenza c’era qualcosa di più profondo. Lei mi apparteneva, in un modo che nessun altro poteva comprendere, e quel legame era indistruttibile, anche se nato nel peccato.

Franny si scostò bruscamente, liberandosi dalla mia presa. Il suo respiro era affannoso, il volto una maschera di orgoglio ferito. Ma anche mentre si allontanava, sapevo che quel momento l’avrebbe perseguitata, così come perseguitava me. Lei non poteva scappare da ciò che eravamo, non più di quanto potessi farlo io.

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