ONE IMPORTANT THING

Francesca

Alzai lo sguardo verso il crocifisso della chiesa. La luce delle candele danzava sulle pareti, creando ombre tremolanti sul volto di Cristo. Mi sembrava che anche lui, in quel momento, stesse condividendo la mia sofferenza. Domani ci sarebbe stato il mio matrimonio, l’evento che avrebbe cambiato per sempre la mia vita. Il mio respiro era pesante, come se ogni battito del mio cuore fosse una condanna.

La lettera di Demon era ancora lì, nascosta tra i miei vestiti, vicina alla mia pelle, l’unica cosa che mi legava ancora a lui. L'avevo letta mille volte, ogni parola era un'eco di ciò che avevamo perso, di ciò che non sarebbe mai più potuto essere. Avrei voluto scappare, correre da lui, dirgli che lo amavo, che non importava nient'altro al mondo se non noi due. Ma era troppo tardi, troppo tardi per noi.

Elisabeth aveva preso il controllo di tutto. Mio padre, sempre più debole, si era lasciato sopraffare dalla sua ambizione, e ora lei stava governando al suo posto. "Reggente" la chiamavano, ma per me era solo una tiranna che si era impadronita della mia vita. Mi stava rubando tutto, il mio futuro, il mio amore, e forse anche il mio bambino.

Mi alzai lentamente dalla panca e feci il segno della croce, lasciando che le dita scivolassero lentamente sulla fronte, poi sul petto e infine sulle spalle. Era un gesto automatico, qualcosa che facevo da quando ero bambina, ma questa volta aveva un peso diverso, come se potesse darmi la forza che mi mancava. La forza per affrontare quello che mi aspettava.

Mentre iniziavo a camminare lungo il corridoio, ogni passo sembrava un macigno. I muri erano coperti di arazzi e dipinti dei miei antenati, volti severi che mi guardavano con occhi giudicanti, come se sapessero cosa stavo per fare, cosa mi sarebbe stato richiesto. Il suono dei miei passi rimbombava nel silenzio, quasi come un tamburo funebre, e l’odore di cera e fiori appassiti mi dava la nausea.

Le parole di Elisabeth continuavano a risuonare nella mia testa, le sue minacce velate, il suo odio travestito da affetto. Lei avrebbe preso il posto di mio padre, e ogni giorno pregavo che fosse lei a morire, non lui. Sì, lo ammettevo, desideravo che il destino si prendesse lei, che la falce della morte passasse sopra la sua testa e la portasse via. Non era più mia sorella, era un mostro che aveva rubato tutto ciò che mi apparteneva, un'ombra che si era insinuata nel cuore della nostra famiglia.

Mi fermai davanti alla grande finestra che si affacciava sui giardini del castello. La luna era piena, e la sua luce pallida illuminava i fiori in un modo irreale, quasi magico. Il vento muoveva dolcemente le foglie, creando un suono simile a un sussurro. Era come se anche la natura stesse piangendo con me, come se capisse il mio dolore.

Appoggiai la mano sul vetro freddo, lasciando che la sua sensazione gelida mi svegliasse, mi riportasse alla realtà.

Mi strinsi nelle spalle, cercando di trattenere le lacrime. Non volevo piangere, non adesso. Mi obbligai a continuare a camminare, a muovere un passo dopo l'altro, anche se ogni movimento sembrava portarmi più vicino a una prigione dalla quale non avrei mai potuto scappare.

Cleopatra era sparita di nuovo, come un'ombra che si dissolve nella notte. Non avevo la più pallida idea del perché continuasse a lasciare il castello, a ritirarsi nelle sue misteriose sparizioni che mi lasciavano sola a fare i conti con me stessa. Non importava quanto cercassi di convincermi che sarei stata bene senza di lei, la verità era che avevo un disperato bisogno della sua presenza. Lei era l'unica che conosceva ogni dettaglio della mia anima, ogni ferita che avevo cercato di nascondere. E ora, nella solitudine di quella stanza che sembrava chiudersi su di me come una trappola, il suo vuoto era un macigno sul mio petto.

Sapevo che dovevo essere forte, che dovevo affrontare ciò che mi aspettava senza di lei, ma ogni fibra del mio essere si ribellava a quella realtà. Mi sentivo spezzata, come un fragile vaso di cristallo che un tempo era integro e che ora giaceva in pezzi sul pavimento. Mi faceva male la pancia, un dolore sordo e persistente che mi ricordava il segreto che portavo dentro di me, il piccolo frammento di Demon che cresceva nel mio ventre. Ogni volta che posavo la mano su quella lieve rotondità, un'ondata di paura mi assaliva, un terrore profondo che questo bambino potesse non nascere mai, che potessi perderlo così come avevo perso tutto il resto.

Cercai di scacciare quei pensieri oscuri, ma erano come fantasmi che mi tormentavano senza sosta, sussurrando nelle orecchie le mie paure più profonde. E se non fossi stata abbastanza forte per proteggere questa vita? E se il destino avesse deciso che dovevo perdere anche lui, l'ultimo legame che mi teneva ancorata a Demon?

«Lady Francesca.» La voce di Salvator mi strappò dai miei pensieri, interrompendo quel vortice di paure e incertezze. Mi girai lentamente, come se ogni movimento richiedesse un enorme sforzo, e lo vidi lì, in piedi davanti a me. Il suo abito nero era impeccabile, elegante, ma gli conferiva un'aria di freddezza, come se fosse avvolto da un'armatura invisibile che lo separava dal resto del mondo. I suoi occhi verdi erano fissi su di me, scrutandomi con un'intensità che mi fece rabbrividire.

«Sì, sto bene,» dissi, anche se sapevo che era una bugia. Niente andava bene, non c'era nulla di giusto in quella farsa che stavamo mettendo in scena. Eppure, cosa potevo dire? Che mi sentivo morire dentro ogni volta che pensavo al futuro che mi aspettava? Che il mio cuore era rimasto nel passato, con un uomo che non avrei mai potuto avere?

La mano che avevo appoggiato sulla finestra scivolò lentamente verso il mio ventre, un gesto istintivo, quasi a proteggere il segreto che nascondevo. Sentivo la sua presenza lì, la piccola vita che cresceva dentro di me, e per un attimo mi sentii meno sola, come se quel bambino fosse l'unico che potesse davvero capire cosa stavo attraversando. Nessuno sapeva che ero incinta, e ogni giorno pregavo che quel segreto rimanesse nascosto ancora un po' di più, almeno finché non avessi trovato il coraggio di affrontare la verità.

Salvator continuava a fissarmi, il suo sguardo era un misto di curiosità e qualcosa di più profondo, qualcosa che non riuscivo a decifrare. Sapevo che dovevo sembrare strana ai suoi occhi, una principessa che non era entusiasta del suo matrimonio, che sembrava sempre così distante, come se il suo corpo fosse lì ma la sua anima fosse altrove. Ma non mi importava di ciò che pensava. Non poteva capire, nessuno poteva.

Salvator si leccò le labbra con un movimento lento e deliberato, i suoi occhi verdi scintillavano alla luce del tramonto, un riflesso che li rendeva simili a giade lucenti. Mi fissava con una tale intensità che sembrava volesse leggere ogni pensiero nascosto, ogni segreto custodito nel profondo del mio cuore. Poi, con una voce che era quasi un sussurro, come se volesse rendere la domanda ancora più carica di significato, disse: «Devo dirle una cosa, ma prima deve promettermi di dirmi la verità.»

Le sue parole erano un filo sottile che si avvolgeva attorno a me, tirandomi sempre più vicina, costringendomi a fare i conti con la realtà. Quale verità voleva da me? La mia mente si riempì di mille pensieri, mille paure, mentre cercavo di mantenere la calma, di nascondere il tumulto che ribolliva nel mio petto. Sapevo che c'erano cose che non potevo rivelare, segreti che avrebbero dovuto rimanere tali per il resto della mia vita. Ma cosa avrebbe fatto lui, cosa avrebbe detto, se avesse scoperto la verità? Se avesse saputo del bambino, di Demon?

Schiarii la gola e alzai lo sguardo per incontrare il suo, consapevole che stavo entrando in un territorio pericoloso, un campo minato da cui potevo uscire distrutta. «Quale verità, vostra altezza reale?» chiesi, cercando di mantenere la voce ferma, di non lasciare trasparire il tremito che sentivo dentro di me.

Lui mi osservò per un momento, valutando le mie parole, e poi si avvicinò di un passo. Ora era così vicino che potevo sentire il calore del suo corpo, la fragranza delle spezie che aleggiava attorno a lui, quel profumo che mi aveva già colpito prima. «Siete stata innamorata, Francesca?» chiese, e il suo tono era tanto affilato quanto il filo di una lama. «Prima di me, intendo.»

La domanda mi colpì come un grampo nello stomaco, togliendomi il respiro. Sentii le mie mani stringersi attorno al tessuto della mia veste, le unghie affondare nella seta mentre cercavo disperatamente di mantenere la calma, di non lasciarmi sopraffare dalle emozioni che minacciavano di esplodere. Innamorata? Sì, lo ero stata. Lo ero ancora. Ma come potevo ammetterlo? Come potevo confessare a quest’uomo, che avrebbe presto avuto il diritto di chiamarmi sua moglie, che il mio cuore apparteneva a un altro?

Mi mordicchiai il labbro, sentendo il sapore metallico del sangue riempirmi la bocca, un dolore che mi aiutava a rimanere ancorata alla realtà, a non cedere. Dovevo trovare le parole giuste, quelle che non avrebbero rivelato troppo, ma neppure mentito completamente. Sentivo che Salvator non era un uomo da ingannare facilmente; il suo sguardo mi penetrava come se fosse in grado di vedere ogni menzogna, ogni omissione.

«Cosa intendete per 'innamorata', vostra altezza?» cercai di temporeggiare, usando la formalità come uno scudo, come una barriera tra noi.

Salvator fece un sorriso, ma non c'era allegria in quel gesto, solo una strana malinconia, una rassegnazione che mi colpì al cuore. «Non prendiamoci in giro, Franny,» sussurrò, e il modo in cui pronunciò il mio nome, senza i titoli e la distanza, mi fece rabbrividire. «Parlo di quell'amore che brucia dentro, che consuma ogni cosa al suo passaggio. L'amore che non ti lascia dormire, che ti segue in ogni pensiero, in ogni respiro.»

Ogni parola che pronunciava mi si conficcava nella carne come un chiodo, inchiodandomi alla realtà dei miei sentimenti. Avrei voluto gridare, avrei voluto dirgli di smetterla, di non costringermi a ricordare ciò che avevo perso, ciò che non potevo più avere. Ma rimasi in silenzio, le labbra serrate mentre cercavo di trovare un modo per sfuggire a quella trappola che lui mi aveva teso con così tanta maestria.

La mia mente corse a Demon, al suo sorriso sfrontato, al modo in cui mi guardava come se fossi l'unica cosa importante al mondo. Mi rividi tra le sue braccia, la prima volta che mi aveva baciata, la sensazione delle sue labbra sulle mie, la forza dei suoi abbracci che mi faceva sentire viva come mai prima d’ora. Avevo amato Demon, e lo amavo ancora. Ma quel capitolo della mia vita era chiuso, sepolto sotto strati di doveri, di promesse non fatte e parole non dette.

«Sì,» sussurrai infine, la voce rotta, quasi impercettibile. «Sono stata innamorata.» Non c'era motivo di mentire, non davvero. Ma non avrei rivelato di più, non avrei dato a Salvator l’intera storia. Non glielo dovevo, e non mi sentivo pronta a condividere quel dolore con nessuno.

Il suo sguardo si fece più morbido, meno indagatore, come se avesse trovato la risposta che cercava. Fece un leggero cenno con la testa, accettando la mia confessione senza chiedere ulteriori dettagli, un gesto che mi sorprese. «E ora?» chiese, con una gentilezza che non mi aspettavo. «Adesso, siete ancora innamorata?»

Il peso della sua domanda mi schiacciò, mi tolse il fiato come un colpo al petto. Potevo mentire. Potevo dirgli che no, che quell’amore era scomparso, dissolto come nebbia al sole.

Le parole uscirono dalla mia bocca fredde, taglienti come il metallo di una lama. La mia voce tremava leggermente, ma cercai di non mostrarlo, di non rivelare il tumulto che ribolliva dentro di me. Salvator mi guardava, i suoi occhi verdi che sembravano scrutare la mia anima, e quel silenzio che seguì le mie parole fu così opprimente da sembrare quasi tangibile, come se l'aria intorno a noi si fosse improvvisamente addensata, rendendo ogni respiro difficile.

«Io non ti amo,» ripetei, come se sperassi che, dicendolo ancora una volta, sarei riuscita a convincere anche me stessa. «E non credo che potrei mai amarti.»

Stavo per andarmene ma la sua mano si chiuse attorno al mio braccio con una fermezza che mi costrinse a fermarmi, il calore della sua presa si diffondeva sulla mia pelle come una fiamma che non riuscivo a ignorare. Mi voltai, il cuore che batteva furiosamente nel petto, cercando di controllare il respiro irregolare mentre incontravo il suo sguardo. C’era qualcosa di diverso nei suoi occhi verdi ora, un’intensità che non avevo notato prima, come se dietro quel volto perfettamente scolpito ci fosse un’anima tormentata, una persona che lottava contro i propri demoni.

«Allora conosciamoci,» ripeté Salvator, la sua voce bassa e roca, quasi come se stesse sussurrando una confessione. Quelle parole erano una sfida, un invito, un segno che non era disposto a lasciarmi andare così facilmente. Sentii il mio corpo irrigidirsi, il cuore che martellava sempre più forte, e per un istante fui tentata di lasciarmi andare, di abbassare le difese e accettare ciò che stava offrendo. Ma la paura mi trattenne, la paura di provare qualcosa che non volevo, la paura di tradire quel poco che ancora mi legava a Demon.

«Non è così semplice,» risposi, cercando di liberare il braccio dalla sua presa. «Un matrimonio combinato non si trasforma in amore solo perché lo desideri.» Le parole mi uscirono di bocca più dure di quanto avessi voluto, ma non potevo permettermi di cedere, non potevo permettere a me stessa di sperare. Salvator non era l'uomo che avevo scelto, non era l'uomo che avrei voluto accanto a me per il resto della mia vita. Lui era un estraneo, un intruso nel mio mondo.

Eppure, non lasciò andare il mio braccio. Al contrario, il suo tocco si fece più delicato, quasi rassicurante. Mi accarezzò con il pollice, un gesto così intimo e inaspettato che mi fece rabbrividire. «So che non mi ami,» disse con un sorriso triste, uno di quelli che sembrano carichi di antiche ferite. «E so che forse non mi amerai mai. Ma non credi che meritiamo almeno una possibilità? Che tu meriti qualcuno che voglia conoscerti davvero?»

Quelle parole si insinuarono dentro di me come un veleno dolce e doloroso. Come potevo rispondere a una domanda del genere, quando nemmeno io sapevo chi ero, cosa volevo davvero? Ero così stanca di lottare, così stanca di dover sempre fingere di essere qualcun’altra, di dover fare ciò che era giusto invece di ciò che desideravo. Mi lasciai andare, permettendo alle mie spalle di rilassarsi, al mio corpo di abbandonarsi alla sua presa, almeno per un attimo.

«Conoscerti...» mormorai, come se stessi assaporando quella parola, come se stessi cercando di capire cosa significasse davvero. «Cosa c'è da conoscere, Salvator? Io sono solo una pedina, un mezzo per unire due regni. Non c'è nulla di più.»

Lui scosse la testa, e il sorriso triste si fece più ampio, più sincero. «Non credere a ciò che ti hanno fatto credere, Franny,» sussurrò. «Non sei una pedina. Sei molto di più.»

Quelle parole mi colpirono come un pugno allo stomaco, togliendomi il respiro. Mi sentii improvvisamente esposta, vulnerabile, come se tutte le mie barriere fossero state abbattute in un colpo solo. Volevo respingerlo, volevo dirgli di lasciarmi in pace, di smettere di cercare qualcosa che non esisteva. Ma non riuscivo a parlare, non riuscivo a trovare le parole giuste.

Salvator mi osservava, aspettando, la sua pazienza infinita come il mare che si stendeva oltre le mura del castello. «Francesca,» mormorò infine, avvicinandosi ancora di più, così vicino che potevo sentire il suo respiro sulla mia pelle, potevo vedere ogni dettaglio del suo viso, ogni piccola imperfezione che lo rendeva così dannatamente umano. «Lasciami provare. Lasciami provare a conoscerti, a capirti.»

Sentii le lacrime pungermi gli occhi, e mi odiavo per questo. Mi odiavo per essere così debole, così facilmente scossa dalle sue parole, dai suoi gesti. Ma la verità era che avevo bisogno di qualcuno. Avevo bisogno di sentirmi amata, accettata, anche se solo per un momento. Abbassai lo sguardo, fissando il pavimento sotto di noi, cercando di nascondere le lacrime che minacciavano di cadere.

«Non sarà facile,» mormorai, la voce tremante. «Io... io non so se posso amare qualcuno che non sia lui.»

Salvator non rispose subito. Rimase in silenzio, lasciando che le sue dita si intrecciassero alle mie, un contatto caldo e rassicurante. Poi, con un tono dolce e rassicurante, disse: «Non ti sto chiedendo di dimenticare. Ti sto solo chiedendo di darmi una possibilità. Di darci una possibilità.»

Alzai lo sguardo, trovando il coraggio di guardarlo negli occhi, e per la prima volta vidi in lui non un principe, non un uomo destinato a essere mio marito, ma semplicemente un ragazzo, come me, che cercava disperatamente qualcosa a cui aggrapparsi. E in quel momento, per quanto breve, sentii il mio cuore aprirsi, permettendo a un raggio di luce di entrare.

Forse era troppo tardi per me e Demon. Forse il nostro amore era destinato a essere solo un ricordo, un sogno impossibile. Ma Salvator era qui, davanti a me, disposto a lottare per qualcosa che nemmeno io sapevo di volere. E mentre mi stringeva la mano, sentii, per la prima volta, che forse non ero così sola come avevo sempre creduto.

«E se non funzionasse?» chiesi, la mia voce ridotta a un sussurro.

Salvator sorrise, un sorriso che non era né triste né felice, ma semplicemente reale. «Allora almeno avremo provato,» rispose. «E in questo mondo, a volte, provare è tutto ciò che possiamo fare.»

Mi lasciai andare, solo per un attimo, e strinsi la sua mano, accettando la sua offerta. Non sapevo se saremmo mai stati innamorati, se avremmo mai trovato la felicità insieme. Ma forse, solo forse, potevamo provare a conoscerci davvero.

***

Mi guardai allo specchio, osservando il mio riflesso, come se potessi scorgere qualcosa di diverso, come se potessi finalmente vedermi per ciò che ero diventata. La collana di diamanti scintillava alla luce delle candele, un regalo di Salvator, un simbolo del mio futuro legame con lui. Era fredda contro la mia pelle e sembrava pesare più di quanto avrebbe dovuto, come se volesse ricordarmi ogni secondo la mia condizione, la mia prigione dorata.

I miei capelli erano raccolti in una treccia morbida che cadeva sulla mia spalla, un'acconciatura semplice, nulla di eccessivo. Odiavo i festoni e gli ornamenti esagerati che le mie dame di compagnia insistevano nel farmi indossare. Oggi, però, ero finalmente sola. Nessuna di loro era lì a tormentarmi con i loro sorrisi forzati e i loro sguardi giudicanti, nessuna era lì a sistemare il mio vestito o a lisciarmi i capelli fino a farli diventare lucidi come seta. Era un piccolo sollievo in mezzo a un mare di incertezze.

Il mio sguardo scese sulla mia pancia. Era ancora piatta, ancora invisibile agli occhi del mondo grazie al corsetto che mi stringeva così forte da togliermi il respiro. Ma io sapevo. Lo sentivo ogni giorno, il piccolo segreto che cresceva dentro di me. Ogni volta che appoggiavo la mano su quella lieve curva che iniziava a formarsi, sentivo un senso di colpa e di paura avvolgermi come un mantello. Cosa avrebbe fatto Salvator se l’avesse scoperto? Cosa avrebbe fatto mio padre?

Un brivido mi percorse la schiena al solo pensiero. Cercai di scacciare quell’ansia, concentrandomi invece sul qui e ora, sulla giornata che mi aspettava. Mi chiesi se Salvator avesse davvero intenzione di conoscermi o se questa fosse solo un’altra delle sue strategie per apparire come il futuro marito perfetto. Una parte di me voleva odiarlo, voleva allontanarlo e costruire un muro così alto che non avrebbe mai potuto oltrepassare. Ma un'altra parte, più piccola, più fragile, desiderava disperatamente credere che forse, forse, non tutto era perduto.

Mi sedetti sulla sedia in legno intagliato, il bordo della mia veste frusciava leggermente sul pavimento di pietra fredda. Presi un respiro profondo, cercando di placare il battito accelerato che sentivo dentro il petto, e con un gesto lento afferrai la piuma bianca che riposava nel calamaio d’argento.

La piuma era leggera tra le mie dita, quasi fragile, e per un istante mi domandai se anche i miei sentimenti fossero così delicati, pronti a spezzarsi al minimo soffio di vento. Intinsi la punta nella densa macchia d’inchiostro nero e la osservai, il liquido scivolava lungo le venature della piuma, come se volesse tracciare il percorso dei miei pensieri.

Il foglio immacolato sembrava chiamarmi, implorandomi di liberare tutto ciò che tenevo imprigionato dentro. La luce delle candele tremolava nella stanza, creando ombre danzanti sulle pareti, mentre il mio respiro si faceva più lento, più profondo. Iniziai a scrivere, le prime parole sembravano pesanti, come se stessero lottando per uscire da me.

Carissimo Demon,

Non sai quanto mi manchi. Da quando te ne sei andato, la mia vita sembra un eterno susseguirsi di giorni vuoti e silenzi assordanti. Le cameriere mi stringono il corsetto ogni mattina, così forte da togliermi il respiro, e sento come se ogni volta volessero soffocare anche i ricordi di noi due, quelli che mi tengono ancora viva. Feriscono me, e feriscono il nostro bambino. Non passa un giorno senza che io pensi a te, senza che desideri essere di nuovo tra le tue braccia, al sicuro, lontana da questo castello che ormai è diventato una gabbia.

Non posso più cavalcare come facevo un tempo, né tirare una freccia come quando ci allenavamo insieme. Quelle erano le uniche cose che mi facevano sentire viva, ma ora tutto sembra così lontano, così impossibile da raggiungere. Ogni giorno diventa più difficile respirare senza di te.

Oggi Salvador mi ha invitata a fare un picnic. Immagino che dovrei essere felice, dovrei cercare di conoscerlo, di abituarmi alla vita che mi aspetta al suo fianco, ma come posso? Come posso accettare un altro uomo quando il mio cuore appartiene ancora a te? Giuro, Demon, non ti tradirò. Ti prometto che, qualunque cosa accada, il nostro bambino conoscerà il suo vero padre, l’uomo forte e coraggioso che mi ha insegnato a lottare e a non arrendermi mai.

Mi fa male pensare che non potrai mai vederlo crescere, che non potrai mai tenerlo tra le tue braccia come desideravi. Ma ogni giorno, con ogni battito del mio cuore, io gli parlerò di te, gli racconterò di come mi hai salvato, di come hai riempito la mia vita di luce anche nei momenti più oscuri.

Spero un giorno di poter riabbracciarti, ma se questo non sarà possibile, sappi che sarai sempre con me, in ogni respiro, in ogni battito del mio cuore. Tu sei e sarai sempre il mio arciere di cristallo.

Con tutto l'amore che posso darti da lontano,

La tua arciera di cristallo,
Francesca

Mi voltai, il cuore che iniziava a battere più velocemente al suono della voce di Salvador dall'altra parte della porta. Mi sistemai rapidamente il vestito, lisciando le pieghe del tessuto, come se in quel gesto potessi cancellare la sensazione opprimente che avevo dentro di me. Mi allontanai dal tavolo da scrittura che occupava il lato della stanza  dove avevo appena finito la lettera, cercando di assumere un'aria composta, nobile, degna del titolo che portavo, anche se in realtà mi sentivo tutto fuorché una principessa.

La piuma d’oca con cui avevo scritto era ancora lì, sul tavolo, accanto al calamaio. Una piccola macchia d’inchiostro si era formata sul bordo del foglio, un segno della fretta con cui avevo cercato di esprimere i miei pensieri, i miei sentimenti. Avrei voluto scrivere di più, raccontare a Demon ogni dettaglio, ogni angoscia, ma non avevo tempo. Non lo avevo mai. Ripensai a tutte le lettere nascoste sotto il materasso: erano il mio unico segreto, l'unica cosa che apparteneva veramente a me.

«Vostra Altezza, siete pronta?» chiese di nuovo Salvador, con una nota di impazienza nella voce.

Presi un respiro profondo, cercando di reprimere il senso di nausea che si faceva strada nel mio stomaco. Non potevo permettermi di essere debole. Non ora. «Sì, un momento,» risposi, alzando la voce quanto bastava perché mi sentisse attraverso la porta di legno pesante.

Mi avvicinai lentamente alla porta, poggiando la mano sulla maniglia. La freddezza del metallo contro la mia pelle mi fece rabbrividire, riportandomi alla realtà, alla mia nuova realtà in cui Demon era un ricordo, e Salvador era il mio futuro. Aprii la porta e mi ritrovai davanti a lui, impeccabile come sempre. Indossava un abito blu scuro, semplice ma elegante, il contrasto perfetto con i suoi occhi color smeraldo che mi scrutavano con un misto di aspettativa e curiosità.

«Seete splendida,» mormorò, avvicinandosi leggermente. Per un istante, fui tentata di allontanarmi, ma poi ricordai il mio ruolo, la mia parte in questa farsa che era diventata la mia vita. Abbozzai un sorriso, uno di quelli che avevo imparato a indossare come una maschera, e annuii.

«Grazie, Vostra Altezza,» dissi, la voce appena un sussurro.

«Salvador,» mi corresse. «Siamo quasi sposati. Penso che possiamo abbandonare un po' di formalità, non credi?»

Non risposi, lasciando che il silenzio si stendesse tra di noi. Sapevo che avrebbe voluto sentire di più, una promessa forse, un segno che stavo accettando la nostra unione. Ma non potevo dargli ciò che voleva. Non potevo mentire a me stessa così.

Ci avviammo insieme lungo il corridoio, i suoi passi lenti e sicuri, mentre io mi sforzavo di non lasciar trasparire il mio nervosismo. Ogni volta che qualcuno passava accanto a noi, un servitore, una dama di compagnia, abbassava lo sguardo, quasi con riverenza, come se non fossi più la ragazza ribelle che amava cavalcare e tirare con l'arco, ma una principessa sottomessa al suo destino.

Mentre attraversavamo i grandi portoni del castello e ci avvicinavamo ai giardini, la luce del sole mi colpì, e per un momento dovetti chiudere gli occhi. Mi sembrava di essere stata inghiottita dall'oscurità per così tanto tempo che la luce era quasi accecante. Salvador mi prese la mano e mi guidò, come se fosse la cosa più naturale del mondo. Sentii la sua presa, ferma ma gentile, e mi chiesi cosa avesse davvero visto in me. Se solo avesse saputo quanto ero spezzata, quanto poco di me gli sarebbe mai appartenuto.

Arrivammo infine al luogo del picnic, un angolo nascosto dei giardini, circondato da alti cespugli di rose in fiore. Una coperta di velluto era stesa a terra, e un cesto riccamente decorato era stato posato al centro. Tutto era così perfetto, così curato, come se fosse stato preparato per una scena di un romanzo d'amore, ma io mi sentivo come un'estranea, un’intrusa in quella perfezione.

«Ho pensato che ti avrebbe fatto piacere un po' di tranquillità,» disse Salvador, sedendosi e invitandomi a fare lo stesso. «Deve essere difficile per te... prepararti a tutto questo.»

Non potevo fare a meno di guardarlo, cercando di trovare qualcosa nei suoi occhi che mi dicesse che c'era altro, che non era solo un uomo in cerca di una moglie per un matrimonio politico. Ma tutto ciò che vidi fu gentilezza, forse persino un'ombra di comprensione.

Mi sedetti lentamente, aggiustandomi il vestito attorno a me, cercando di sembrare a mio agio anche se ogni fibra del mio essere era tesa. «Grazie,» dissi infine, cercando di trovare le parole giuste. «Apprezzo il tuo gesto.»

«Vorrei conoscerti, Francesca,» disse all’improvviso. «Non la principessa, non la futura moglie del principe di El Dorado. Solo... te.»

Quelle parole mi colpirono come un pugno. Desideravo così tanto credere a ciò che diceva, desideravo che ci fosse qualcuno che volesse conoscere la vera me, quella nascosta sotto strati di aspettative e doveri. Ma sapevo che era impossibile. La mia vera identità, la mia vera anima, apparteneva a Demon, all’arciere di cristallo che non avrei mai potuto dimenticare.

«Non so se posso darti ciò che cerchi,» confessai, senza guardarlo negli occhi. «Non sono sicura di chi sono ormai.»

«Lo scopriremo insieme,» disse, prendendomi la mano. Per un istante, il suo tocco fu quasi confortante, ma subito la realtà tornò a schiacciarmi, ricordandomi che quella non era la vita che avevo scelto, non era l'amore che avrei voluto.

Dopo un momento di silenzio, lui aggiunse, «Devo parlarti di una cosa importante.»

«Quale cosa importante?» chiesi, il cuore in tumulto.

«Io… non posso avere figli. Sono sterile

Mi voltai lentamente verso di lui, il cuore improvvisamente si fece pesante nel petto, come se fosse stato colpito da una freccia invisibile. Le sue parole sembravano risuonare nella stanza come un’eco distante, e per un attimo non riuscivo a respirare. Salvador stava lì, a pochi passi da me, ma sembrava così lontano, come se un abisso si fosse aperto tra di noi in quell’istante.

«Sterile?» ripetei sottovoce, come se la parola fosse qualcosa di estraneo, qualcosa che non riuscivo a comprendere del tutto. Cercai di mantenere il controllo, di non mostrare il tumulto che provavo dentro di me. Le mie mani erano fredde, e sentivo la pelle d'oca che mi percorreva le braccia.

Lui annuì, i suoi occhi verdi sembravano più scuri, carichi di un dolore che non avevo mai visto prima. «Sì, Francesca. Ho scoperto molti anni fa, dopo una malattia che ho avuto da bambino. L’ho sempre saputo, ma non ho mai trovato il coraggio di dirtelo. Il nostro matrimonio... non potrà mai darci un erede.»

Rimasi in silenzio, le parole mi si erano incollate in gola. Ero sorpresa, confusa, e soprattutto, spaventata. Avevo sempre immaginato il matrimonio come un’alleanza, un’unione destinata a creare una nuova famiglia. E ora, tutto ciò sembrava dissolversi come fumo. Non potevo dirgli la verità, non potevo confessare il mio segreto, il bambino che portavo in grembo, che era già una parte di me e di Demon.

Abbassai lo sguardo, fissando il pavimento di pietra sotto i miei piedi. Ogni singola pietra sembrava più reale, più concreta, rispetto a quella rivelazione che mi aveva appena sconvolta. Mi sentivo come se stessi per cadere, come se il mondo stesse scivolando via da sotto di me. Poi, con un respiro tremante, raccolsi la forza per guardarlo negli occhi.

«Capisco...» mormorai, anche se in realtà non capivo nulla. «Mi dispiace che tu abbia dovuto portare questo peso da solo, tutto questo tempo.» Era un peso che ora condividevamo, anche se in modi così diversi. La mia mente tornò a Demon, al bambino che stava crescendo dentro di me, e alla promessa che gli avevo fatto nella lettera.

Salvador si avvicinò, la sua mano sfiorò la mia guancia con una dolcezza che non avevo mai visto in lui prima. «Non devi preoccuparti,» disse con voce calma. «Siamo ancora giovani, e possiamo trovare un modo per essere felici insieme. Forse il destino ha scelto un percorso diverso per noi, ma questo non significa che dobbiamo essere infelici.»

Quelle parole erano un balsamo sulle ferite del mio cuore, ma sapevo che erano solo un’illusione. Sapevo che il mio cuore apparteneva a qualcun altro, a un amore proibito che non potevo mai confessare. Mi allontanai leggermente dal suo tocco, come se fosse troppo caldo, troppo vicino, troppo reale. «Forse hai ragione,» risposi con un sorriso forzato, mentre il mio cuore batteva più forte, sussurrando il nome di Demon, ancora e ancora, come un’eco incessante.

Ci fu un lungo silenzio tra noi, e nella mia mente continuava a riecheggiare quella parola: "sterile". Era un segreto che avrebbe cambiato tutto, un segreto che mi dava una possibilità, una piccola speranza che il mio bambino potesse crescere in questo mondo senza essere scoperto. Eppure, sentivo il peso della menzogna, la colpa che stava iniziando a crescere dentro di me, come un veleno.

Salvador mi prese la mano, e la sua stretta era ferma, rassicurante. «Andrà tutto bene, Francesca. Ti prometto che farò di tutto per renderti felice.»

Annuì, anche se dentro di me sapevo che la felicità era un lusso che non potevo permettermi. «Sì, certo...» risposi debolmente, mentre il peso del nostro futuro si posava sulle mie spalle, soffocando ogni speranza di essere libera.

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