INVITATION

Demon

Oggi finalmente sarebbe stato il giorno in cui avrei ripreso ad allenare Franny. Dopo due giorni di inattività forzata, durante i quali tutto era rimasto sospeso, ero ben consapevole che avremmo dovuto recuperare il tempo perduto, e questo significava che il mio soggiorno alla corte si sarebbe prolungato più di quanto avessi inizialmente previsto. Non vedevo l'ora di tornare alla mia vita, lontano dai complessi intrighi del palazzo, dove la mia libertà e il mio controllo non erano messi in discussione da nessuno.

Ma, nonostante questo desiderio di fuga, c'era qualcosa, o meglio qualcuno, che mi tratteneva. La presenza di Fiona. Lei, con il suo fascino ammaliante e la sua intelligenza tagliente, aveva saputo insinuarsi nei miei pensieri, confondendo il mio raziocinio e mescolandolo a un'attrazione pericolosa. In quel momento, la sentivo appoggiata contro il mio petto, il suo calore e la sua delicatezza mi trattenevano lì, sospeso tra il dovere e il piacere.

Dopo la notte che avevamo passato insieme, mi guardò con un sorriso che non riusciva a nascondere del tutto l’ombra della preoccupazione. «L'imperatore non saprà niente, credimi,» disse con voce dolce ma decisa, quasi come se volesse rassicurare più se stessa che me.

La guardai, le mie dita che si muovevano automaticamente tra i suoi capelli, avvolti in morbide onde bionde che contrastavano con la freddezza che solitamente mostrava davanti agli altri. «E se lo scopre?» risposi, mantenendo il tono neutro, anche se sapevo che la preoccupazione stava cominciando a serpeggiare anche dentro di me. Non era solo il mio destino in gioco, ma anche il suo.

Fiona sospirò, allontanandosi leggermente da me per poter incrociare il mio sguardo. Nei suoi occhi leggevo una determinazione che avevo imparato a rispettare, ma che in quel momento mi faceva sentire inquieto. «Se lo scopre, troverò il modo di sistemare le cose,» affermò con una sicurezza che non poteva che impressionarmi. «Non è la prima volta che mi trovo in una situazione complicata, Demon. Conosco i rischi e so come gestirli.»

Quelle parole, invece di rassicurarmi, mi fecero riflettere. Fiona era astuta, sì, ma la corte era un nido di vipere, e l’imperatore non era un uomo da prendere alla leggera. Tuttavia, decisi di non insistere. Fiona era adulta, sapeva cosa faceva, e la sua decisione era presa. «Spero tu abbia ragione,» dissi infine, accarezzandole una guancia. «Ma stai attenta.»

Lei annuì lentamente, poi si chinò per baciarmi, un bacio dolce ma carico di tensione, come un sigillo su un patto silenzioso che entrambi sapevamo avrebbe potuto costarci caro.

Lei mi guardò con un misto di dolcezza e dispiacere quando le dissi che dovevo andare. «Devi proprio andare?» sussurrò con quella voce carezzevole che conoscevo così bene. Mi avvicinai, e con un gesto affettuoso sfiorai il suo naso col mio, un gesto quasi infantile, ma carico di intimità. «Questa sera sarò tutto tuo,» le promisi con un tono che voleva essere rassicurante.

Fiona sospirò, e in quello sbuffo c’era un’intera gamma di emozioni. «Questa sera sarò con l'imperatore,» disse con una nota di rassegnazione nella voce. Spostai la sua mano dal mio petto, sentendo la tensione che montava in me. Non riuscivo a capire come potesse andare a letto con quel vecchio, il solo pensiero mi disgustava. Lei, così giovane, bella, e piena di vita, accanto a quell'uomo ormai logorato dal tempo e dal potere.

«Certo,» dissi, cercando di mantenere la voce neutra. «Allora domani?»

Lei fece una smorfia e si aggiustò il vestito, tentando di coprire di più il petto con un gesto automatico che tradiva un leggero imbarazzo. «Oggi ci sarà il giostra,» rispose, riferendosi al torneo di cavalli e lance che l'imperatore amava tanto. «E anche domani. Lui si stressa sempre su di me, sia che vinca, sia che perda. E se vince, vuole festeggiare…»

Mi lasciò a metà di quella frase, ma il significato era chiaro. La sola idea mi faceva rabbrividire. «Bello l’oggetto da usare,» commentai, con un sarcasmo che non potei trattenere. Lei si strinse ancora di più nel suo abito, cercando di celare l'imbarazzo. Si alzò dal letto e con un sorriso forzato aggiunse, «Sì, ma mi fa sempre dei regalini.»

La osservai mentre si muoveva nella stanza, sistemando le pieghe del vestito, evitando di incrociare il mio sguardo. C’era una tristezza in lei che non riuscivo a ignorare, ma sapevo che era troppo orgogliosa per ammetterlo. Mi chinai, raccogliendo i miei vestiti, e mi vestii in silenzio. Una volta pronto, mi avvicinai a lei e la baciai. Le mie labbra sfiorarono le sue con una dolcezza che contrastava con la frustrazione che sentivo dentro. «Speriamo che muoia presto,» sussurrai contro le sue labbra, lasciando che il mio desiderio oscuro si facesse strada.

Lei sorrise, un sorriso amaro, quasi complice, e mi baciò di nuovo. Quel bacio era carico di promesse non dette, di una connessione che andava oltre il semplice desiderio fisico. Sapevamo entrambi che stavamo giocando con il fuoco, ma nessuno di noi era disposto a fermarsi. Mi allontanai da lei con riluttanza, sapendo che il nostro tempo insieme, per ora, era finito.

Mentre mi vestivo e prendevo la mia attrezzatura da arciere, il pensiero di ciò che stavo facendo con Fiona mi attraversò la mente. Era una situazione pericolosa, una che avrebbe potuto costarci la vita se l'imperatore lo avesse scoperto. E non era solo una minaccia vuota: se fossimo stati scoperti come amanti, saremmo stati entrambi condannati. Le sorrisi con un misto di sfida e complicità. «Ci vediamo più tardi, in giro,» le dissi, mentre lei rispondeva con un cenno e un sorriso che nascondeva la tensione della nostra relazione proibita.

Fiona aveva sempre avuto un talento particolare per evitare sospetti. Usava un nascondiglio vicino al castello, un angolo segreto dove poteva sparire alla vista di tutti. Era astuta, sapeva come muoversi in un mondo pieno di intrighi e pericoli. Io, d'altro canto, mi sentivo intrappolato tra il desiderio e il dovere. Sapevo che avrei dovuto essere più prudente, ma la sua presenza mi consumava, e quella tensione, quel rischio, rendevano tutto più eccitante.

Ora, però, dovevo concentrarmi su un altro compito: allenare Francesca, la principessa viziata. Aveva tutto ciò che poteva desiderare, e questo la rendeva arrogante e difficile da gestire. Ricordai come, il giorno prima, le avevo detto che l'avrei messa in ginocchio un giorno, ma non per pregare. Non era solo una minaccia, era una promessa velata di un dominio che volevo esercitare su di lei. C'era qualcosa in Francesca che mi attirava, una sfida che mi spingeva a volerla sottomettere, nonostante il mio disprezzo per tutto ciò che rappresentava.

Francesca era ricca, privilegiata, abituata ad avere il mondo ai suoi piedi. Per lei, il potere era naturale, ma per me, era una conquista. Mi piaceva, sì, ma c'era un rifiuto profondo dentro di me per quello che lei incarnava: l'arroganza dell'aristocrazia, l'indifferenza verso chi doveva lottare per ogni singolo pezzo della propria vita. Mi dicevo che non dovevo lasciarmi andare, che lei non era come Fiona, non era una passione segreta da coltivare nel buio.

Dovevo mantenere la mia mente lucida, non farmi distrarre né da Fiona né da Francesca.

Camminavo accanto a mia madre sotto il sole cocente, il sudore le scendeva dalla fronte mentre continuava a lavorare senza sosta. Dopo la morte di mio padre, aveva dovuto assumersi tutte le responsabilità, e lavorava sempre, senza mai lamentarsi. Mio padre era morto l'anno scorso, consumato dalla "malattia del sudore", una malattia che portava via chiunque in un batter d'occhio. Dopo di lui, era rimasta solo mia madre a prendersi cura di noi due.

Lei aveva i capelli rossi, una cascata di fuoco che scendeva lungo le sue spalle, e per questo molti la guardavano con sospetto. Alcuni mormoravano che fosse una strega, che doveva essere bruciata come tale. Ma per me, mia madre era la donna più brava del mondo, la persona più coraggiosa e forte che avessi mai conosciuto. Non importava cosa dicessero gli altri; io sapevo chi era veramente.

Vivevamo in una piccola campagna, non troppo lontana dalla città. Era una vita semplice, ma faticosa. Allevavamo galline e vendevamo uova e polli alle famiglie nobili. Non era molto, ma bastava per sopravvivere. Mio padre mi aveva lasciato solo una cosa prima di morire: il suo arco. Ricordo ancora quando me lo consegnò, con le mani tremanti ma lo sguardo fiero. Avevo solo quattro anni, ma già allora mi insegnò come usarlo. Con il tempo, quell'arco divenne la mia vita, il mio modo di evadere da una realtà difficile e crudele.

Ora, a dieci anni, ero diventato uno dei migliori arcieri della regione. Il mio talento era innegabile, e mi sentivo pronto a dimostrare al mondo ciò che sapevo fare. Potevo partecipare alle gare.

Ma lei non voleva. Mi impediva di partecipare, temendo per la mia sicurezza. Mi diceva che le gare per strada erano pericolose, che avrei potuto farmi male o, peggio ancora, attirare l'attenzione sbagliata su di noi. Ma io volevo farlo. Desideravo ardentemente dimostrare il mio valore, far vedere a tutti che non ero solo il figlio di una donna povera, che c'era di più in me.

La voce di mia madre mi chiamò, interrompendo i miei pensieri. «Demon, vieni qui ad aiutarmi.» La sua voce era gentile ma ferma, una combinazione che conoscevo fin troppo bene. «Arrivo, madre,» risposi, correndo verso di lei.

Mia madre stava piegata su un nido di galline, raccogliendo con cura le uova e deponendole nel paniere di vimini che usavamo ogni giorno. Le uova, di un bianco immacolato, erano il nostro sostentamento, la moneta con cui compravamo il poco che ci serviva per vivere. Le sue mani, segnate dal lavoro duro, si muovevano con delicatezza, come se ogni uovo fosse un tesoro. La osservai per un momento, ammirando la sua forza e la sua determinazione.

«Domani arriverà il carro a prendere le uova e i polli,» disse, senza alzare lo sguardo. «Va bene, madre,» risposi, prendendo il paniere ormai colmo e aiutandola a portarlo verso la piccola cucina di casa nostra.

Lei si chiamava Catharina Leroy, un nome che portava con sé la storia di un'altra terra, lontana da qui. Mio padre, Martin Flèche, era un uomo orgoglioso e forte, originario della Francia. Era arrivato in Hyperborea con l’intenzione di costruirsi una nuova vita, e aveva trovato mia madre anche lei odiginadia dalla francia, che divenne il suo tutto. Dopo la sua morte, era rimasta solo lei a tenerci insieme, a lottare ogni giorno per me e mia sorella e per sé stessa.

Quando l'uomo che veniva a prendere le uova e i polli arrivava, mia madre indossava sempre un foulard. Era un gesto semplice ma carico di significato: con quel foulard copriva i suoi capelli rossi, una difesa contro i sospetti e le dicerie della gente. Quei capelli, che io amavo tanto, erano per lei una maledizione, un segno che la rendeva diversa e che avrebbe potuto costarle la vita. Fortunatamente, nessuno nel vicinato aveva mai detto nulla, nessuno aveva osato farle del male. Ma sapevo che lei viveva ogni giorno con la paura di essere scoperta, di essere giudicata per qualcosa su cui non aveva alcun controllo.

Guardavo mia madre mentre sistemava le ultime uova nel paniere. Non potevo fare a meno di pensare a quanto fosse ingiusto tutto questo. Lei, che era la persona più buona e gentile che conoscessi, doveva nascondersi, vivere nell'ombra solo per il colore dei suoi capelli.

Camminando lungo il corridoio, i miei pensieri tornarono al presente quando incontrai Elisabeth. Indossava un magnifico abito di seta color marrone scuro, abbellito da un elaborato corpetto che metteva in risalto la sua figura slanciata. Le maniche dell'abito erano ampie e decorate con ricami dorati che correvano lungo i bordi, creando un contrasto elegante con il tessuto scuro. Sotto l'abito principale, un sottogonna di seta color avorio si mostrava ad ogni suo passo, aggiungendo un tocco di raffinatezza. Sul capo, portava una cuffia abbinata, adornata da un velo che le cadeva morbido sulle spalle, incorniciando il suo viso radioso.

Elisabeth mi salutò con un sorriso, i suoi occhi brillavano di una luce invitante. «Monsieur Flèche,» disse con tono dolce, inclinando leggermente il capo. Mi inchinai profondamente, mostrando il rispetto dovuto alla futura imperatrice. «Altezza,» risposi con deferenza, il cuore che mi batteva un po' più forte al suo cospetto.

Lei continuò a sorridere, i suoi occhi non lasciavano i miei. «Domani sera ci sarà una festa in maschera,» annunciò con un'aria di aspettativa, «e vorrei che venisse alla festa con me.» La sua richiesta mi colse di sorpresa. Una festa in maschera, un'occasione di intrigo e divertimento, e io dovevo essere il suo accompagnatore. Esitai un istante, consapevole del peso dell'invito. Andare al ballo con la futura imperatrice significava molto più che una semplice serata di divertimento.

Dissi con rispetto: «Altezza, sarebbe un onore.»

In quel momento, vidi avvicinarsi Francesca. Elisabeth, senza perdere un colpo, le rivolse un rapido sguardo prima di tornare a me. «Allora,» disse, con un sorriso che prometteva mille segreti, «verrete con me?»

Francesca si avvicinava, i suoi occhi curiosi su di noi. Elisabeth mi fissava ancora, aspettando la mia risposta definitiva.

Mi inchinai leggermente e dissi: «Altezza,» salutandola con rispetto. «Cosa sta succedendo? Possiamo iniziare l'allenamento?» chiese con una nota di impazienza nella voce. Mi raddrizzai, distogliendo lo sguardo da Elisabeth per concentrarmi su Francesca.

«Sì, certo, altezza,» risposi con un cenno del capo. Poi, guardando di nuovo Elisabeth, aggiunsi: «Lei può andare, altezza.» Francesca, con la testa alta e senza dire altro, si voltò e cominciò a camminare verso l'uscita, pronta per l'allenamento.

Una volta che Francesca fu a una certa distanza, mi girai nuovamente verso Elisabeth, che mi fissava con una scintilla di determinazione nei suoi occhi. «Altezza,» iniziai con voce calma, cercando le parole giuste, «credo che non verrò alla festa.»

Elisabeth fece un passo avanti, la sua espressione si addolcì mentre mi guardava. «Ma vi prego, signor Flèche,» sussurrò, il suo tono era quasi supplichevole. «Io vorrei che lei venisse con me... Vi prego.» Il suo sguardo si fece implorante, mostrando una vulnerabilità che raramente le avevo visto esprimere.

Il mio cuore esitò un momento, combattuto tra il dovere verso Francesca e il desiderio di accontentare Elisabeth. Sapevo bene quanto fosse rischioso rifiutare un invito del genere, ma l'idea di mescolarmi con la corte in una situazione così pubblica, mentre ero sotto gli occhi di tutti, mi metteva a disagio.

Esitai, le parole bloccate in gola, mentre Elisabeth mi guardava con quegli occhi che chiedevano una risposta positiva, sperando di convincermi con la sua dolce insistenza.

Pensai per un attimo a quanto fosse strano che la futura imperatrice, una delle donne più potenti del regno, potesse volere proprio me come accompagnatore al ballo. Avrebbe potuto avere chiunque al suo fianco, qualsiasi uomo della corte avrebbe accettato senza esitazione. Eppure, qui era, davanti a me.

Elisabeth abbassò leggermente lo sguardo, poi mi guardò di nuovo con occhi pieni di speranza. «Ho detto a tutti di no per venire alla festa con voi,» confessò, la sua voce velata da una nota di disperazione. «Vi prego.»

La sua mano si alzò e si posò delicatamente sulla mia spalla. Il tocco era leggero, quasi impercettibile, ma trasmetteva un'intensità che mi fece esitare per un attimo. Sentivo il calore della sua pelle attraverso il tessuto della mia camicia, e per un istante, l’idea di cedere alla sua richiesta mi sfiorò la mente.

Ma il dovere, o forse una certa resistenza interiore, si fece strada. Mi irrigidii, consapevole delle conseguenze di accettare un tale invito. Non ero un uomo di corte, e l'idea di essere sotto i riflettori in quella maniera non mi piaceva. E poi, c'era Francesca. Mi ero impegnato ad addestrarla e non potevo permettermi distrazioni, non ora.

«Altezza,» iniziai con voce ferma, rimuovendo delicatamente la sua mano dalla mia spalla, «non verrò al ballo con voi.»

Il silenzio che seguì fu palpabile. Potevo quasi sentire il suo cuore battere più velocemente, forse per l'umiliazione, o forse per la sorpresa di essere rifiutata. Ma non ci fu rabbia nei suoi occhi, solo un velo di tristezza che non ero abituato a vedere sul suo viso.

Mi voltai lentamente, con la determinazione di non guardare indietro, e iniziai a camminare lungo il corridoio, lasciando Elisabeth lì da sola. Potevo sentire il peso del suo sguardo su di me mentre mi allontanavo, ma non mi fermai. C'era un lavoro da fare, e i sentimenti personali, per quanto potenti, non avrebbero dovuto interferire.

Mentre mi allontanavo, mi chiesi se avessi fatto la scelta giusta, ma non mi permisi di indulgere troppo in quei pensieri. Francesca mi stava aspettando, e il mio compito era chiaro.

Entrammo nella nostra casa, una piccola costruzione in pietra che odorava sempre di fumo di legna e di pane appena sfornato. Il soffitto basso era sorretto da travi robuste, annerite dal tempo, e i muri di pietra erano spessi, dando un senso di sicurezza e stabilità. C'erano poche finestre, tutte piccole, attraverso le quali filtrava appena la luce del giorno, creando un'atmosfera calda e raccolta.

Il cuore della casa era la cucina, una stanza con pavimento in pietra grezza e un grande camino, sempre acceso, che riscaldava l'intera abitazione. Al centro della stanza c'era un tavolo di legno massiccio, robusto e vecchio, consumato dagli anni e dai pasti condivisi. Accanto al camino c'erano delle panche, alcune coperte con vecchie coperte di lana per renderle più comode. Alle pareti, mensole piene di pentole, stoviglie in legno, e qualche vaso di terracotta.

Mia madre posò il paniere sul tavolo con un gesto abitudinario e si tolse il velo che copriva i suoi capelli rossi, ormai scompigliati e sudati dal lavoro della giornata. Osservai per un momento la sua espressione stanca, segnata da una vita di sacrifici e rinunce.

«Demon,» mi disse con una voce bassa, quasi come se non volesse disturbare il silenzio che riempiva la casa, «noi non diventeremo mai ricchi.»

Era una frase che mi diceva spesso, quasi come un mantra. Forse per prepararmi alla dura realtà della nostra vita, per farmi accettare la nostra condizione senza farmi cullare da illusioni di grandezza. Ma non potevo fare a meno di sognare. Sentivo che qualcosa dentro di me mi spingeva a sperare in un futuro diverso. Guardai l'arco, appoggiato contro il muro accanto alla porta, e per un attimo pensai che forse, grazie a quel dono di mio padre, avrei potuto avere fortuna.

Mia madre, vedendomi assorto nei miei pensieri, si avvicinò e mi accarezzò la guancia, come faceva quando ero più piccolo. «Non devi preoccuparti, Demon,» disse con un lieve sorriso che non riusciva a nascondere la preoccupazione nei suoi occhi. «Faremo del nostro meglio, come abbiamo sempre fatto.»

Annuii, sapendo che avrebbe fatto qualsiasi cosa per proteggermi, anche sacrificando se stessa. Eppure, dentro di me, cresceva il desiderio di cambiare il nostro destino, di dimostrare che non tutto era scritto, che avrei potuto trovare un modo per farci uscire da quella miseria.

«Sì, madre,» risposi infine, la voce appena sopra un sussurro, mentre prendevo le uova dal paniere per sistemarle sullo scaffale vicino al camino. Ma nella mia mente, l'idea di poter cambiare la nostra vita non mi abbandonava. Forse, un giorno, con la mia abilità con l'arco, avrei potuto fare qualcosa di più per noi.

Mentre sistemavo le uova sullo scaffale, mia madre mi osservava in silenzio. Sentivo il peso del suo sguardo, non di rimprovero, ma di preoccupazione. Era come se potesse leggere i miei pensieri, intuendo i miei sogni e le mie ambizioni, e forse anche le mie paure.

«Demon,» disse infine, con una voce carica di una saggezza che solo l’esperienza può dare. Mi girai a guardarla, vedendo nei suoi occhi il riflesso di tutto ciò che aveva passato, tutte le difficoltà che aveva affrontato da sola dopo la morte di mio padre. «Non farti mai influenzare dai ricchi,» continuò. «Loro vorranno te solo come uno dei loro schiavi. Ti tratteranno con gentilezza finché servirai ai loro scopi, ma alla fine sarai sempre uno strumento per loro, mai un uguale.»

Il tono della sua voce era deciso, ma anche velato di amarezza. Mia madre aveva visto troppo della crudeltà del mondo per non essere diffidente. Aveva dovuto lottare contro la povertà, contro le accuse ingiuste che la sua chioma rossa le attirava, e aveva imparato a non fidarsi delle promesse facili.

«Capisco, madre,» risposi, abbassando lo sguardo per un momento, ma nel mio cuore sentivo che il mio desiderio di fare qualcosa di più, di essere qualcosa di più, non sarebbe svanito facilmente. Eppure, avevo rispetto per la sua saggezza, e sapevo che c'era del vero in ciò che diceva. Avrei dovuto essere cauto, guardingo, se mai avessi cercato di avvicinarmi a quel mondo.

Mi avvicinai a Francesca, che già si stava allenando nel cortile. Il suo arco era ben saldo nelle sue mani, e la sua postura era impeccabile, esattamente come le avevo insegnato. Ogni movimento era fluido, sicuro, e la freccia volava dritta verso il bersaglio. Sorrisi, osservando i suoi progressi.

«State migliorando, altezza,» le dissi, con un accenno di orgoglio nella voce.

Francesca mi guardò, il viso illuminato da un sorriso soddisfatto. «Certo, ero già brava, maestro,» rispose con un pizzico di presunzione, ma non potei fare a meno di ammirare la sua sicurezza. Sapevo che in parte quel merito era mio, che l'avevo guidata e formata con pazienza.

Abbassò l'arco e si avvicinò a me, la sua espressione cambiata, più seria. «Demon,» iniziò, e c'era una nota di vulnerabilità nella sua voce che non le avevo mai sentito prima, «vorrei che veniste al ballo con me. Non ho nessuno di cui poter fidarmi in questo castello, e voi... non siete un nobile. Vi prego, volete venire al ballo con me?»

Le sue parole mi colpirono profondamente. Avevo rifiutato Elisabeth perché non volevo farmi coinvolgere nel loro mondo di lussi e intrighi. Non volevo diventare un altro dei loro burattini, usato e poi gettato via quando non servivo più. Mia madre aveva ragione: i ricchi avevano il potere di corrompere, di farti credere di poter essere uno di loro, solo per poi sfruttarti. E Elisabeth, con il suo titolo e il suo fascino, rappresentava tutto ciò che cercavo di evitare.

Ma Francesca era diversa. C'era in lei una sincerità che non trovavo in sua sorella, una fragilità che mi disarmava. Forse non era solo una questione di potere o di status per lei; forse cercava qualcuno che potesse proteggerla, qualcuno che non fosse legato a quei giochi di corte che tanto disprezzavo. E per qualche motivo, mi fidavo di lei, più di quanto avrei mai ammesso.

Le sorrisi, lasciando che le mie difese si abbassassero un poco. «Certo, Franny,» dissi, la mia voce più morbida, «verrò con voi al ballo.»

Un lampo di sollievo attraversò il suo viso, seguito da un sorriso di gratitudine che riscaldò il mio cuore. In quel momento, decisi che, qualunque cosa fosse successa, avrei fatto tutto il possibile per proteggerla, anche se significava entrare in quel mondo che tanto disprezzavo.

Così, con un leggero cenno del capo, ci preparammo per l'allenamento, ma la mia mente era già proiettata alla sera del ballo, e a ciò che avrebbe potuto significare per entrambi. In fondo, forse c'era ancora un modo per restare fedele a me stesso, pur rispondendo al richiamo di qualcosa di più grande, qualcosa che non avevo mai immaginato di trovare a corte.

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