GETTING MARRIED

Demon

Mi svegliai nel mio letto, la sensazione familiare del legno freddo sotto le dita. Aprii gli occhi e guardai la finestra poco distante. Oggi pioveva. La pioggia tamburellava contro il vetro, creando un ritmo lento e costante che sembrava accompagnare ogni mio pensiero. Mi alzai con riluttanza, lasciando il calore delle coperte per immergermi nel freddo mattutino.

Indossai un paio di pantaloni in fretta, come se quella semplice azione potesse scacciare i pensieri che mi tormentavano. I passi mi condussero in cucina, un luogo che mi sembrava così vuoto da quando Francesca se n'era andata. Misi una mano sul volto, cercando di massaggiare via la stanchezza che mi opprimeva gli occhi.

Ogni angolo della casa portava ancora il suo profumo, un ricordo sbiadito del tempo in cui tutto era diverso. Mi avvicinai al tavolo e mi fermai un attimo, fissando la sedia vuota davanti a me. Era lì che si sedeva quando sorrideva, quando parlavamo di sogni e promesse mai mantenute. E adesso, quell'immagine sembrava così distante, così irraggiungibile.

Presi una brocca d'acqua e riempii un bicchiere, bevendolo in un solo sorso come se potesse placare la sete di qualcosa che non sapevo definire. Ma la verità era che niente poteva davvero riempire quel vuoto. Mi appoggiai al lavandino, lo sguardo rivolto fuori dalla finestra. La pioggia cadeva ancora, insistente, come se volesse lavare via ogni traccia del passato.

E in quel momento, come un'onda travolgente, il pensiero di Francesca mi colpì. Lei con il nostro bambino. Nostro figlio. Avevo sperato che mi scrivesse, che mi cercasse, ma il silenzio tra noi si era fatto sempre più assordante.

Corsi una mano tra i capelli, frustrato. «Che diavolo sto facendo?» mi chiesi, la voce roca di emozione. L'immagine di lei, di quel bambino che non avevo mai avuto l'opportunità di conoscere, mi tormentava.

Sentii un battito alla porta, e per un momento il mio cuore sussultò. Sperai che fosse Cleopatra, sperai che fosse arrivata una lettera da Francesca, un segno, un piccolo brandello del suo pensiero. Da mesi aspettavo, come un prigioniero che contasse i giorni nell'oscurità, nutrendo l'illusione che, prima o poi, mi avrebbe cercato. Forse aveva saputo di me e di Cleo. Forse, finalmente, era pronta ad affrontare ciò che avevamo lasciato incompiuto.

Mi diressi verso la porta e l'aprii, sperando di vedere quel viso familiare, ma rimasi deluso. Erano dei consiglieri, uomini del palazzo, con i loro volti impenetrabili e le uniformi pesanti che gocciolavano per la pioggia. Il più anziano avanzò di un passo e, prima che potessi dire una parola, disse con voce formale: «Demon Flèche, l'Imperatore vi convoca. Dovete venire con noi al palazzo.»

Rimasi in silenzio per un attimo, cercando di decifrare il loro tono. «Cosa volete da me?» domandai, serrando la mascella per mantenere il controllo. Qualcosa non andava, potevo sentirlo nelle viscere. Erano mesi che non mi cercavano, che non avevo alcun contatto con quell'universo che avevo abbandonato per inseguire un sogno infranto.

Uno dei consiglieri mi guardò negli occhi, senza un briciolo di esitazione o compassione. «Andate a prepararvi, e non fate domande,» disse con una voce tagliente, come se il tempo stesso fosse un nemico che stavamo combattendo.

Le sue parole erano un colpo dritto allo stomaco, ma non avevo altra scelta. C'era un istante in cui avrei voluto ribellarmi, gridare contro di loro, esigere risposte. Ma sapevo che non avrebbe fatto altro che rallentare quello che ormai era inevitabile. Annuii, accettando la realtà che mi si stringeva attorno come una catena. Mi voltai, dirigendomi verso la mia stanza.

Mi vestii in fretta, quasi in modo meccanico, cercando di soffocare i pensieri che continuavano a martellarmi in testa. Il mio cuore batteva all'impazzata, come se sapesse che qualcosa di irreparabile stava per accadere. Non volevo dare loro il potere di vedere quanto fossi agitato, quanto il nome di Hanry e di Elisabeth mi perseguitassero ancora, come spettri che non mi lasciavano mai in pace.

Afferrando le chiavi del mio cavallo, mi voltai verso la porta. «Prenderò il mio cavallo,» dichiarai con fermezza, la voce più dura di quanto mi aspettassi. Era un piccolo atto di ribellione, un tentativo di mantenere almeno un briciolo di controllo in quella situazione che mi stava scivolando dalle mani.

Ma uno dei consiglieri si mosse con la velocità e la precisione di un serpente. Mi bloccò, la sua mano fredda e ferma sul mio polso, come se volesse ricordarmi chi era davvero al comando. «Abbiamo noi un cavallo per voi,»disse, con una calma glaciale che mi fece rabbrividire. «Non si preoccupi. Seguiteci.»

Cercai di liberarmi dalla sua presa, ma la sua forza era sorprendente, e il suo sguardo era gelido, privo di qualsiasi traccia di empatia o comprensione. Per un attimo, il desiderio di ribellarmi bruciò dentro di me come un fuoco, ma lo spinsi via. Non era il momento per gesti impulsivi. Non ancora.

«Molto bene,» mormorai, lasciando che le chiavi cadessero dalle mie dita, mentre seguivo i consiglieri fuori dalla mia casa.

La pioggia era ancora incessante quando uscii all'aperto. Le gocce scendevano pesanti, quasi come lacrime, e mi inzuppavano immediatamente. Non mi preoccupai di coprirmi, né di proteggermi dal freddo. Non avrebbe fatto alcuna differenza. Salimmo su un cavallo nero, possente, un animale che sembrava costruito per il potere e la velocità, e non per la delicatezza di un viaggio tranquillo.

I consiglieri si mossero silenziosamente accanto a me, come ombre, e sapevo che non avrebbero pronunciato una parola fino a quando non saremmo arrivati al palazzo. Ogni passo del cavallo sembrava riecheggiare nella mia mente, martellando quel senso di ineluttabilità che non riuscivo a scacciare. Ogni tanto, il volto di Francesca appariva tra i miei pensieri. Cosa le stava accadendo in quel momento? Come aveva potuto lasciarmi trascinare così lontano da lei, da Hanry, dal bambino che avrebbe dovuto essere anche mio?

I cancelli del palazzo apparvero all'orizzonte, giganteschi e minacciosi come un segnale d'avvertimento. Il mio respiro si fece più rapido, e cercai di calmarmi, di ricordare chi ero e perché ero lì. Per Francesca. Per il mio bambino. Non importava quanto fossero potenti, non mi avrebbero strappato anche questo.

Quando arrivammo all'ingresso, uno dei consiglieri smontò e si avvicinò a me. «Vi preghiamo di seguirci,» disse, come se avessi davvero una scelta.

Scavalcai la sella del cavallo e avanzai accanto a loro, sentendo ogni passo come se stessi camminando i corridoi del castello.

Il consigliere aprì la massiccia porta della sala del trono, il legno scricchiolante fece eco nel corridoio vuoto, quasi come se un fantasma fosse stato liberato. «Entrate,» disse, la sua voce tagliente come una lama affilata, e senza ulteriori esitazioni feci un passo avanti. La porta si chiuse dietro di me con un tonfo definitivo, come un sigillo che mi tagliava fuori dal resto del mondo.

Davanti a me c'era Elisabeth, avvolta in un sontuoso abito rosso che sembrava fatto di fuoco liquido. Ogni passo che fece risuonò nella stanza vuota, il tessuto strusciando contro il marmo freddo come il sussurro di un serpente. I suoi occhi erano fissi su di me, pieni di un potere che mi fece gelare il sangue.

«Ciao, Demon,» mi salutò con una voce morbida, quasi gentile, ma c'era qualcosa di tagliente sotto quella dolcezza, qualcosa che prometteva dolore. Mi inchinai automaticamente, la testa china, cercando di nascondere il disprezzo che ribolliva in me. «Altezza,» mormorai, mantenendo la voce ferma anche se ogni fibra del mio essere desiderava ribellarsi.

Lei sorrise, un sorriso privo di calore, poi si alzò dal trono, avanzando lentamente verso di me. Potevo sentire il suo profumo riempire l'aria, un miscuglio di spezie e sangue. Ogni passo era come un battito di tamburo, lento e inesorabile, e sapevo che mi stava studiando, cercando di capire quanto potesse spingersi oltre.

«Sapete,» iniziò, la sua voce bassa e calcolatrice, «che mio padre ha un'ulcera a causa della giostra?» Si fermò davanti a me, talmente vicina che potevo vedere ogni dettaglio del suo volto, la perfezione fredda e implacabile che la rendeva così diversa da Francesca. Leccò le labbra, un gesto volutamente sensuale, come se volesse dimostrarmi il potere che aveva su di me. "Sarò io a reggere il trono ora, e tra pochi giorni sarò anche la futura imperatrice."

Non risposi, ma non riuscii a nascondere l'ondata di disgusto che mi attraversò. Lei lo percepì, naturalmente, perché Elisabeth percepiva sempre tutto. Un ghigno attraversò il suo viso e lei distolse lo sguardo, fissando il pavimento. «Il medico dice che non vivrà a lungo,» sussurrò, e per un momento, per un istante fugace, sembrò davvero dispiaciuta.

«E cosa volete da me?» chiesi, la mia voce più dura di quanto avessi voluto, stanco dei giochi, delle manipolazioni. Sapevo che Elisabeth non faceva nulla senza un motivo.

Lei alzò gli occhi verso di me, un bagliore predatorio danzava nelle sue iridi. «Voglio che ci sposiamo,» dichiarò, come se fosse la cosa più semplice del mondo. «Io ti obbedisco, Demon, ma tu devi farlo perché io sono la tua imperatrice.»

La sua dichiarazione cadde pesante tra noi, come un macigno. Restai in silenzio, il respiro che mi si bloccava in gola. Non sapevo se provare rabbia, paura o rassegnazione. «Elisabeth,» cominciai lentamente, «sai bene che non posso amarti, né obbedire a un impero costruito sulle tue menzogne.»

Lei sorrise di nuovo, e stavolta c'era un'ombra di tristezza dietro quel sorriso. «Non ti chiedo di amarmi, Demon,» mormorò, facendo un passo ancora più vicino, il calore del suo corpo sfiorava il mio. «Ti chiedo solo di stare al mio fianco,»

Non volevo sposarla. Non potevo sposarla. Questa consapevolezza mi colpì come un pugno allo stomaco mentre la guardavo, la mia mente in tumulto, piena dei ricordi di Francesca e di ciò che avevamo condiviso. Eppure, anche mentre il senso di colpa mi stritolava, non potevo ignorare l'amara verità che si insinuava in ogni fibra del mio corpo: l'avevo già tradita, nel modo peggiore possibile.

Cleopatra. La sua pelle morbida sotto le mie dita, il calore del suo corpo contro il mio, i suoi gemiti soffocati dalla mia bocca. Francesca non avrebbe mai dovuto saperlo, eppure quella colpa mi aveva divorato lentamente, un morso alla volta, lasciandomi vuoto e privo di speranza. In quel momento, davanti a Elisabeth, tutto ciò che riuscivo a sentire era la stessa sensazione opprimente che mi aveva seguito dal momento in cui avevo ceduto a quella tentazione proibita.

Sospirai, una mano tremante che si passava tra i capelli, come se in quel gesto stanco potessi trovare un po' di sollievo dalla morsa che mi stringeva il petto. Franny non avrebbe voluto che fossi qui. Non avrebbe mai voluto che mi legassi a un'altra donna, specialmente non a una come Elisabeth. Eppure c'era qualcosa in lei, nella sua determinazione, nel modo in cui i suoi occhi scintillavano di potere e di sfida, che rendeva impossibile dirle di no.

«Vi sposerò,» dissi infine, le parole che mi lasciavano le labbra come veleno, acide e dolorose. Le sue labbra si incurvarono in un sorriso di trionfo, e per un istante avvertii la nausea ribollire nello stomaco. Ma non avevo finito. Non potevo permetterle di credere di avermi completamente in pugno. «Ma,» aggiunsi, con la voce più ferma che riuscissi a raccogliere, «andrò a letto con chi voglio. Sempre. Quando voglio.»

Elisabeth si fermò, il suo sorriso sbiadito, e per un attimo vidi la scintilla di qualcosa di pericoloso nei suoi occhi, qualcosa che mi fece capire che stavo giocando un gioco estremamente rischioso. «Pensi davvero che io ti permetterò di avere altre donne nel mio palazzo?» chiese con un sussurro velenoso, avvicinandosi ancora di più, fino a che la sua bocca sfiorò il lobo del mio orecchio. Il suo respiro caldo e umido mi fece rabbrividire.

«Non si tratta di ciò che tu mi permetti,» risposi, serrando la mascella per impedire alla voce di tremare. «Si tratta di ciò che io voglio. E ciò che voglio è la mia libertà.»

Lei rise, un suono basso, quasi incredulo, ma c'era un'ombra di rispetto in quel suono, come se avesse finalmente trovato in me una sfida degna del suo potere. «Sai, Demon,» mormorò, facendosi ancora più vicina, fino a che il suo petto sfiorò il mio, «potresti essere l'unico uomo abbastanza folle da farmi desiderare la mia stessa distruzione.»

Ero in trappola. Lo sapevo. Lo sentivo nelle ossa, nella stretta che Elisabeth aveva su di me, nella promessa implicita che ogni mia scelta, ogni mio errore, avrebbe avuto un costo. Un costo che non avrei potuto permettermi di pagare. Ma per Francesca, per Hanry, avrei continuato a giocare questo gioco pericoloso.

«Ricordati solo una cosa,» dissi, guardandola dritta negli occhi, la mia voce fredda come il ghiaccio. «Non ti appartengo. E non lo farò mai.»

Elisabeth si irrigidì, il suo volto che si contorse in un'espressione di rabbia pura. «Mi fai questo? Mi umili in questo modo, davanti ai miei consiglieri, davanti alla mia corte?!» La sua voce si alzò, spezzando il silenzio della sala del trono, ogni parola come una frustata contro la mia pelle.

«Elisabeth...» cercai di dire, ma lei non mi lasciò finire, avanzando verso di me con una furia che non avevo mai visto prima. I suoi occhi scintillavano di odio, quel fuoco freddo e spietato che la rendeva tanto pericolosa.

«Quando morirà mio padre,» sibilò, avvicinandosi a tal punto che potevo sentire il suo respiro sul mio viso, «morirà anche la tua piccola Franny. Quella puttana che credi di amare tanto.»

Sentii il gelo attraversarmi la schiena, un brivido che mi immobilizzò sul posto. Francesca. Lei sapeva. Elisabeth sapeva tutto, aveva sempre saputo tutto. Ogni segreto, ogni debolezza, ogni volta che mi ero perso nei pensieri della mia Francesca, nelle notti passate a pensare a lei. E ora mi stava minacciando con la sua vita, usandola come una pedina nel suo gioco perverso.

«No,» riuscii a dire, la mia voce roca, quasi un sussurro. «Non puoi farlo.»

Lei rise, un suono crudele, freddo come l'acciaio. «Oh, ma posso, Demon. E lo farò. Non dimenticare mai chi comanda qui. Non dimenticare mai chi ha il potere.»

In quel momento, qualcosa dentro di me si spezzò. Tutta la rabbia, la frustrazione, il senso di colpa per ciò che avevo fatto a Francesca, si riversò come un fiume in piena. La guardai, e per la prima volta da quando avevo messo piede in quel palazzo, non mi importò più delle conseguenze, non mi importò più di ciò che Elisabeth avrebbe potuto farmi.

«Sì,» dissi, con una calma che non sentivo affatto. «Sì, Elisabeth. Ti sposerò.»

Per un attimo, il silenzio si allungò tra noi come un filo sottile, e vidi la soddisfazione riempire i suoi occhi. Ma non era una vittoria completa. Lo sapeva. Sapeva che non l'avrebbe mai avuta veramente, sapeva che, anche se avessi messo l'anello al suo dito, il mio cuore sarebbe sempre stato altrove.

«Fai in modo di ricordare questo momento, Demon,» sussurrò, accarezzando il mio viso con la punta delle dita, come se stesse tracciando un disegno invisibile sulla mia pelle. «Perché è il momento in cui mi hai consegnato la tua anima.»

La sua mano si posò sulla mia guancia, un tocco gelido e terribile, e poi si allontanò, tornando al trono, lasciandomi lì, in piedi, come un fantasma senza corpo.

Elisabeth si girò lentamente verso di me, un sorriso crudele curvandole le labbra mentre il silenzio si addensava attorno a noi come una cappa soffocante. «Francesca» ripeté, il nome uscendo dalle sue labbra come un veleno. «Finalmente insieme, la prima e la seconda. Non pensi sia poetico?»

Francesca si dimenò, tentando invano di liberarsi dalla presa dei due uomini che la trattenevano. I suoi occhi, pieni di rabbia e paura, si fissarono su di me, e in quell'istante, tutto il mio mondo sembrò crollare. «Demon...» sussurrò, la sua voce rotta, quasi implorante.

«Silenzio!» ruggì Elisabeth, avanzando con passi lenti e calcolati. Ogni suo movimento era un messaggio, un segno del suo potere, della sua dominanza in quella stanza. Si fermò a pochi passi da Francesca, scrutandola come se fosse un insetto, una creatura insignificante da schiacciare sotto il suo stivale.

«Sapevi che sarebbe finita così, vero?» disse, la voce bassa e tagliente. «Sapevi che il tuo piccolo sogno d'amore con Demon non sarebbe mai durato. Sei sempre stata una sostituta, una pedina. E ora... sei semplicemente un sacrificio.»

Francesca alzò la testa con forza, il suo sguardo non vacillava. C'era una scintilla nei suoi occhi, un riflesso di quel coraggio che amavo in lei. «Elisabeth,» disse con tono freddo e controllato.

Francesca si girò lentamente verso di me, con uno sguardo smarrito e confuso, come se cercasse una via d'uscita in un labirinto di parole crudeli e lame affilate. La sua voce tremava, ma c'era ancora quella nota di sfida, quel fuoco che non poteva spegnersi così facilmente. «Vuoi davvero uccidere tua sorella?» domandò, con una calma forzata.

Elisabeth sorrise, e quel sorriso fu come la lama di un coltello: sottile, tagliente, affilato. «Certo che lo voglio,» disse, come se stesse parlando di qualcosa di banale, di ordinario. «Sei solo una stupida, fragile imitazione della nostra madre. Sempre così bipolare, così debole.»

Quelle parole sembrarono colpire Francesca come un pugno nello stomaco. «Non osare parlare di lei,» mormorò, ma Elisabeth le bloccò il mento con una mano, costringendola a guardarla negli occhi.

«Oh, ma lo farò,» sussurrò Elisabeth, avvicinandosi così tanto che le loro labbra quasi si sfioravano. «Lei era una strega. Sempre persa nelle sue follie, nelle sue pozioni. E tu, mia cara sorella, stai seguendo la sua stessa strada.» Poi si voltò verso di me, come per sottolineare la sua dichiarazione. «Dì a Demon, Franny... digli delle piccole pillole rotonde che Cleopatra ti ha dato. Ti hanno fatto sentire meglio, vero? Ti hanno tolto il dolore, la confusione... e ora sei qui, come lei. Persa, spezzata, inutile.»

Francesca chiuse gli occhi, tentando di trattenere le lacrime. Era come se ogni parola di Elisabeth fosse un veleno che si diffondeva lentamente nel suo corpo, paralizzandola. Dopo un lungo momento, li riaprì, e vi brillò una determinazione feroce, un desiderio di resistere fino alla fine.

«Il bambino... è sano?» chiese, cambiando discorso con un tale controllo che persino Elisabeth sembrò rimanere sorpresa per un istante.

Elisabeth rise. Un suono freddo, senza calore. «Il bambino?» fece eco, come se fosse un concetto ridicolo. «Oh, sì, è sano. Ed è l'unica cosa buona che tu abbia mai fatto. L'unico motivo per cui sei ancora viva, sorella.»

Il silenzio cadde sulla stanza, come un lenzuolo pesante. Francesca si voltò verso di me, i suoi occhi imploranti. C'era così tanto non detto in quello sguardo: il dolore, la paura, l'amore che ci aveva unito, la speranza che avevo spezzato. Mi paralizzai, incapace di muovermi, di parlare.

«Ti prego,» mormorò, così piano che solo io potevo sentirla. «Salva lui, se non puoi salvare me.»

Elisabeth si voltò di nuovo, la sua pazienza evidentemente esaurita. «Portatela via,» ordinò alle guardie, il tono glaciale e distaccato, come se stesse parlando di un oggetto inanimato.

«Rinchiudetela nella torre. E portateci anche Cleopatra, la sua serva,» ordinò, come se stesse semplicemente spostando dei pezzi su una scacchiera.

Francesca urlò, un suono così carico di disperazione e rabbia che mi fece gelare il sangue nelle vene. «Elisabeth! Non puoi farlo!» Si dibatteva contro la stretta delle guardie, i suoi occhi fissi su di me, pieni di un'accusa silenziosa, una richiesta di aiuto che non avevo il coraggio di soddisfare.

Non riuscivo a muovermi, paralizzato dalla realtà che mi stava crollando addosso. Ogni fibra del mio essere voleva reagire, fermare quella follia, ma sapevo che qualunque passo avessi fatto avrebbe portato soltanto a un destino ancora peggiore per lei. «Francesca...», sussurrai, ma le parole si persero nell'aria, deboli, insignificanti.

Elisabeth mi guardò, un sorriso crudele che si allargava sulle sue labbra mentre osservava la mia impotenza. «Vedi, Demon? Ecco come si controlla il potere. Non è questione di amore o di pietà. È questione di forza, di chi ha la volontà di fare ciò che è necessario.»

Francesca fu trascinata via, i suoi piedi che scivolavano sul pavimento, e per un momento il suo sguardo si incrociò con il mio un'ultima volta. Nei suoi occhi c'era una miscela di paura e rassegnazione, un'ombra del dolore che l'aveva perseguitata per tutto questo tempo.

Elisabeth si avvicinò, il suo sorriso era tanto dolce quanto velenoso. «Non potrai abbandonare il castello, Demon,» disse con voce melodiosa, mentre si avvicinava a me, il suo sguardo penetrante e provocante. «Domani ci sposiamo. E puoi scoparti tutte le puttane di questa corte, non mi importa. Io voglio soltanto te.»

Le sue parole mi colpirono come un colpo allo stomaco, ma non avevo altra scelta. «Perché lo fai?» chiesi, cercando di mantenere la calma, nonostante l'ira e la frustrazione che mi ribollivano dentro. «Perché non lasci semplicemente Franny in pace?»

La sua espressione si fece più seria, e la luce che brillava nei suoi occhi si fece più intensa. «Perché tu sei mio,» continuò, avvicinandosi ancor di più. «E il tuo bambino sarà portato qui domani. Sarà lui il nostro erede. Non mi faccio vedere da nove mesi, e posso dire che il bambino di Franny è morto.»

La sua affermazione mi strinse il cuore. «Non puoi fare questo,» protestai, ma dentro di me sapevo che era in grado di qualunque cosa. «Hanry è innocente in tutto questo.»

«Esattamente,» rispose, una smorfia di soddisfazione disegnata sulle labbra. «E questo lo rende perfetto. Nessuno dovrà sapere che è il figlio di un'altra donna. Sarà il nostro bambino, e non ci sarà nulla che Franny possa dire o fare per fermare ciò che ho pianificato.»

Rimasi in silenzio, il mio cuore che batteva all'impazzata. Volevo protestare, ribellarmi, ma le parole mi si bloccavano in gola. «Tu... stai giocando con la vita di Hanry,» dissi finalmente, la voce un sussurro. «Non è un gioco, Elisabeth.»

«Oh, ma è esattamente questo,» ribatté lei, alzando un sopracciglio. «È il gioco della vita e della morte, e io sono l'imperatrice. Dovresti imparare a seguirne le regole.»

La sua freddezza mi fece rabbrividire. Non era più la ragazza che avevo conosciuto. Era diventata un mostro, e in quel momento capii quanto fosse profondo il suo desiderio di potere e controllo.

«Francesca,» sussurrai, cercando di mantenere la voce bassa e ferma, ma il mio cuore pulsava così forte da sentire il battito nelle tempie. «Quando morirai?»

Elisabeth si voltò verso di me, il suo sguardo penetrante e calmo. «Morirà nella piazza sotto la torre di Iperborea,» rispose, la sua voce un sussurro che mi gelò il sangue. «Morirà sabato alle nove di mattina.»

Le parole le uscirono dalle labbra come una sentenza, e la realtà della situazione mi colpì come un pugno allo stomaco. Non riuscivo a credere a ciò che stavo ascoltando. Francesca, la mia Francesca, che aveva già sofferto così tanto, ora era condannata a una morte così pubblica e brutale.

«Non puoi farlo,» protestai, le parole che scivolavano fuori dalla mia bocca come un balbettio. «Non puoi condannarla in questo modo.»

«Oh, ma posso,» rispose Elisabeth, con un sorriso che non raggiunse mai i suoi occhi. «E lo farò. È il modo in cui si fa qui. Si eliminano le minacce prima che diventino pericoli. Tu, caro Demon, dovresti saperlo.»

Sussultai, cercando di mettere insieme i pezzi della mia mente. «Francesca è la madre di mio figlio,» dissi, cercando di farle capire che ciò che stava facendo non era giusto. «Non è una minaccia. È solo una donna che ama.»

Elisabeth si girò, un ghigno maligno stampato sul viso mentre si avvicinava alla porta. «Ama,» disse, accentuando la parola come se stesse pronunziando un incantesimo oscuro. «Amare? Oh, Demon, non sai quanto sia ridicolo.» La sua risata risuonò nella sala del trono, un eco inquietante che sembrava far vibrare le pareti.

«Ama?» ripeté, alzando la voce in un crescendo di disprezzo. «Lei non ama nessuno! È solo una narcisista! Si merita di morire!»

Le parole le uscirono con veemenza, come se ogni lettera fosse un colpo inferto al cuore della mia anima. Non riuscivo a credere a ciò che stavo ascoltando. La furia che emanava da Elisabeth era palpabile, un turbine di odio che si abbatteva su di me. Mi passò accanto senza nemmeno guardarmi, e la porta si chiuse con un tonfo sordo dietro di lei, lasciandomi solo nel silenzio opprimente della sala del trono.

Rimasi immobile, il cuore che batteva forte nel petto, mentre le sue parole rimbombavano nella mia mente. "Una narcisista... si merita di morire..." Quelle frasi mi colpirono come frecce avvelenate, facendomi sentire impotente e angosciato.

Mi lasciai cadere su una delle poltrone ornate, la testa tra le mani. La mia mente correva, cercando di mettere insieme i pezzi di un piano. Dovevo trovare un modo per proteggere Francesca, ma come avrei potuto farlo contro una donna così potente e astuta?

L'idea di perdere Francesca mi attanagliava, come una fune che si stringeva sempre di più attorno al mio collo. Il suo sorriso, i suoi occhi pieni di vita, tutto ciò che rappresentava era a rischio, e la consapevolezza di ciò mi faceva sentire ancora più vulnerabile.

Bạn đang đọc truyện trên: AzTruyen.Top