EPILOGO

Demon

Erano passati dieci anni da quel giorno, eppure ogni dettaglio di quella mattina rimaneva inciso nella mia mente come un marchio di fuoco. Ogni giorno, quando l'alba si faceva spazio tra le torri del castello e il primo raggio di sole accarezzava le mura di pietra, mi incamminavo verso la chiesa dove Franny riposava. Era lì, nel piccolo cimitero annesso al castello, circondata da antiche statue di santi e angeli che sembravano vegliare sulla sua anima. La lapide era semplice, come avrebbe voluto lei: solo il suo nome, Francesca di Hyperborea, e un narciso scolpito, il suo fiore preferito.

Mi accovacciavo ogni mattina davanti a quella tomba, posando una mano sulla fredda pietra, cercando di sentire un qualche calore, un residuo di lei. "Mi manchi", mormoravo ogni volta, anche se sapevo che quelle parole non sarebbero mai arrivate a lei. Elisabeth, la mia imperatrice, colei che adesso dormiva accanto a me ogni notte, era l’unica donna che potevo chiamare moglie. Ci eravamo sposati lo stesso giorno in cui la vita era stata strappata a Franny, un atto che non avrei mai potuto perdonarmi. Nonostante tutto, la mia mente tornava costantemente a lei, al suo viso, al suo sorriso, ai suoi occhi pieni di vita e di ribellione.

Il castello era silenzioso. Ogni suono sembrava svanire, assorbito dalle pietre grigie e fredde. La mia vita era divenuta una gabbia dorata, eppure mi aggiravo tra i corridoi come un fantasma. Non ero più l’uomo che Franny aveva amato, ammesso che mi avesse mai veramente amato. La corona d’oro sulla mia testa pesava più di quanto avessi mai immaginato, e non c’era un solo momento in cui non sentissi il suo peso. Elisabeth mi osservava, giorno dopo giorno, sapendo che il mio cuore non le sarebbe mai appartenuto completamente. Eppure, mi desiderava. Il suo amore per me era un’ossessione, una fiamma che bruciava anche dopo tutti quegli anni.

Rimasi in ginocchio davanti alla tomba, mentre il vento portava con sé il profumo dei narcisi piantati tutt’intorno. "Mi dispiace", sussurrai, chiudendo gli occhi e lasciando che un singolo ricordo mi travolgesse: il suo sorriso mentre correva attraverso i giardini del castello, il suono della sua risata che risuonava nell'aria come una melodia. Quelle erano le cose che mi tenevano sveglio la notte, il rimpianto che mi divorava l’anima.

Poi c’era nostro figlio. Henry, il bambino che lei aveva messo al mondo e che io avevo abbandonato. Ormai aveva dodici anni e viveva nel castello, ma non era mai stato il mio bambino. Era stato cresciuto da Elisabeth, che lo aveva trasformato in un principe perfetto, lontano da me, lontano da tutto ciò che aveva a che fare con la sua vera madre. Ogni volta che lo guardavo, vedevo un riflesso di Franny nei suoi occhi, un'ombra del suo sorriso. Eppure, non potevo avvicinarmi a lui, non potevo dirgli la verità. Non ero degno di essere chiamato padre.

Mi alzai lentamente, sentendo il freddo insinuarsi nelle ossa. Il cielo sopra di me si stava tingendo di un pallido rosa, e il vento sussurrava tra gli alberi, come se volesse portare via con sé il dolore. "Non smetterò mai di amarti", dissi, lasciando cadere un singolo narciso sulla lapide. Poi mi voltai, lasciando la chiesa e tornando nel mondo che avevo scelto, il mondo che mi aveva strappato via l'unica cosa che avrei mai veramente amato.

Mi avviai verso la scuderia, il luogo dove avevamo sempre tenuto i cavalli, quelli stessi cavalli che avevano assistito alle nostre fughe, alle nostre battaglie, e a ogni momento di felicità e dolore. Ogni passo che facevo risuonava nel silenzio di quel luogo ormai vuoto, come se la terra stessa sapesse che stavo compiendo il mio ultimo viaggio. Scelsi il mio cavallo preferito, il più fedele, quello che mi aveva accompagnato in tante avventure con Franny, e senza pensarci due volte montai in sella.

Lasciai il castello senza voltarmi indietro, lasciando tutto ciò che era stato parte della mia vita. La strada verso la foresta era quella che avevo percorso tante volte, e ogni albero, ogni pietra mi ricordava qualcosa di lei. La pioggia iniziò a cadere leggera, come lacrime dal cielo, e il mondo sembrava tingersi di un grigio che rifletteva la mia anima. Cavalcai senza fermarmi, senza esitare, fino a raggiungere quel luogo, il luogo dove tutto era finito per lei.

Quando arrivai, vidi l’albero. Era lì, imponente e maestoso, le sue radici ben salde nella terra, come a rappresentare la forza e la determinazione di Francesca. Mi fermai davanti a esso e smontai dal cavallo. Rimasi in piedi per qualche istante, osservandolo in silenzio, poi presi la corda che avevo portato con me e la srotolai lentamente. Ogni movimento era preciso, deciso, come se fosse l’unica cosa che sapessi fare.

Legai un’estremità della corda al ramo più basso dell’albero, assicurandomi che fosse ben saldo. L’altra estremità la misi attorno al mio collo, sentendo il freddo del tessuto sfiorare la mia pelle. Mi guardai attorno per l’ultima volta, respirando profondamente l’odore della pioggia e della terra bagnata. Era un profumo che mi ricordava lei, ogni momento passato insieme, ogni sguardo, ogni bacio rubato.

Pensai a mio figlio, Henry. Era cresciuto senza di me, ed era meglio così. Era forte, proprio come sua madre. Sapevo che avrebbe continuato a vivere, a combattere, a trovare la sua strada. "Perdonami, piccolo", sussurrai, mentre le lacrime iniziavano a scendere lungo il mio viso. "Spero che un giorno tu possa capire."

Strinsi la corda attorno al collo, chiusi gli occhi e lasciai andare tutto. Per un istante sentii il vuoto, il peso della mia decisione, e poi… il silenzio. Era finita. L’oscurità mi avvolse, portandomi via, e in quell’ultimo momento, sentii la presenza di Francesca accanto a me. La sua voce, il suo tocco, come se fosse venuta a prendermi, a guidarmi verso quel luogo dove avremmo finalmente potuto essere insieme.

E lì, sotto quell’albero, trovai la mia pace.

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