Francesca
Respiravo a fatica, i polmoni sembravano incapaci di riempirsi d’aria come avrebbero dovuto. Mi sentivo soffocare, non tanto per la mancanza d’ossigeno, ma per il peso del peccato che avevo commesso. Un peccato enorme, inaccettabile. Un peccato nella casa del Signore, il luogo dove avrei dovuto cercare redenzione, non tentazione. Ma in quel momento, mentre tutto accadeva, non mi importava. Avevo agito d’istinto, seguendo un desiderio che bruciava sotto la pelle, un desiderio che mi aveva trascinato giù, nel baratro del peccato con Demon.
Ero nella mia stanza ora, cercando di raccogliere i frammenti di me stessa. Mi avvicinai al mio letto e lo sguardo mi cadde sul dipinto di mia madre, posato con cura sul comodino. I suoi occhi sembravano guardarmi, giudicanti eppure pieni di quella compassione che ricordavo appena. Non era la mia vera madre che mi guardava, ma una rappresentazione di lei, eppure mi sentii piccola, quasi una bambina di nuovo. Mamma, mi chiesi in silenzio, cosa avresti fatto tu al mio posto?
Scossi la testa, cercando di liberarmi di quei pensieri. Non potevo cambiare ciò che era accaduto, e il rimorso non mi avrebbe aiutata. Il mio sguardo si spostò sull'arco appeso al muro. Quell’arco era un simbolo, non solo della mia abilità, ma anche delle aspettative di mio padre. Non volevo usarlo, non più. Ogni volta che lo toccavo sentivo il peso delle aspettative, dei sogni infranti, della vita che non avevo scelto di vivere. Ma la mia volontà non importava, non quando si trattava del volere di mio padre, l'imperatore Henry.
Mancava meno di una settimana ai Miles, il torneo che avrebbe messo alla prova ogni guerriero e ogni cacciatore degno di questo nome. Tutti si aspettavano che io partecipassi, che portassi onore alla nostra casata, che dimostrassi al mondo che la figlia dell'imperatore non era solo un ornamento di corte, ma una vera arciera. E per un attimo, mi sentii entusiasta all’idea di partecipare. Immaginai l’adrenalina, il fremito della competizione, il trionfo di centrare un bersaglio impossibile sotto lo sguardo di tutti.
Ma poi, come un’ombra che scivola silenziosa in una stanza luminosa, arrivò il pensiero di Demon. Lui sarebbe stato lì, a guardarmi. A giudicare ogni mio movimento, a ricordarmi con ogni sguardo ciò che avevamo condiviso. E non potevo fare a meno di chiedermi cosa pensasse di me ora, dopo tutto quello che era successo. Mi tormentava la consapevolezza che lui, in qualche modo, possedesse una parte di me che nessun altro aveva mai toccato. Una parte oscura, ribelle, che si ribellava alle regole e ai dettami di corte.
Mi alzai dal letto e camminai fino all’arco. Le dita sfiorarono la superficie levigata del legno, tracciando le linee delle incisioni che avevo fatto io stessa durante gli anni di allenamento. Ogni graffio, ogni intaglio, raccontava una storia. Una storia di impegno, di sacrificio, ma anche di ribellione. Il mio arco era stato il mio compagno, la mia arma, il simbolo della mia libertà, ma ora mi sembrava solo un peso. Un peso che dovevo portare per compiacere gli altri, per dimostrare qualcosa che non sapevo nemmeno più se fosse vero.
Ero divisa tra due mondi, tra ciò che mi era stato insegnato a essere e ciò che stavo scoprendo di essere davvero. Una principessa arciera che cercava di compiacere suo padre e un’amante segreta che aveva peccato nella casa del Signore. Due identità che si scontravano, e io non sapevo quale delle due sarebbe prevalsa.
Rimasi lì, in piedi, davanti all'arco, con il dipinto di mia madre che mi guardava e il peso del peccato ancora fresco nella mente. Una parte di me voleva urlare, correre via, scappare da tutto ciò che mi era stato imposto. Ma non potevo. Non ero solo Francesca, la figlia ribelle. Ero Franny, l’arciera di cristallo, e la mia vita era stata già decisa ancor prima che nascessi.
Mi accasciai sul pavimento, le ginocchia contro il petto e gli occhi fissi sul soffitto. I miei pensieri erano un turbinio caotico, un miscuglio di emozioni che non riuscivo a separare. La paura di deludere, il rimorso per aver peccato, l’eccitazione per la competizione imminente e il desiderio sordo e incessante che continuava a chiamare il nome di Demon.
Ero persa nei miei pensieri, seppi una cosa con certezza: il torneo sarebbe stato solo l’inizio. L’inizio di qualcosa di più grande, di una battaglia non solo contro gli altri, ma anche contro me stessa. E sapevo che, alla fine, avrei dovuto scegliere chi volevo davvero essere. Ma quella scelta, per quanto mi sforzassi, non sembrava mai essere veramente mia.
Non avevo la forza di allenarmi. Mi sentivo svuotata, come se ogni energia fosse stata prosciugata dalle emozioni che mi tormentavano. Non volevo impugnare l’arco né sfidare me stessa in prove di abilità; volevo solo fare una cosa: leggere il diario di mia madre. Quel diario era stato di Elisabeth, ma lei me lo aveva dato, dicendo che tra noi due, ero io quella che più assomigliava a nostra madre, sia fisicamente che caratterialmente. La verità era che non la conoscevo davvero. Mia madre era morta poco dopo avermi dato alla luce, lasciandomi solo qualche storia raccontata da altri, qualche ricordo sfocato che non era mai veramente mio. Elisabeth invece, sosteneva di sognarla, di sentirla ancora vicina, come un’ombra gentile che vegliava su di lei.
Sfogliando quelle pagine consumate dal tempo, mi domandavo cosa ci fosse di vero nei racconti che avevo sentito. Mio padre l’aveva tradita continuamente, e io non riuscivo a credere che il loro fosse stato un amore vero. No, non riuscivo a credere nell’amore in generale. Sembrava una favola inventata per i cuori deboli, una bugia che la gente si raccontava per dare senso al caos delle loro vite. Per me, l'unico amore degno di fede era quello per Dio. Solo la fede era certa, eterna, qualcosa a cui aggrapparsi quando tutto il resto falliva.
Mi alzai dal letto, indossando l’abito che avevo scelto per andare in chiesa. Un semplice vestito di lana, lungo fino ai piedi, con le maniche strette e il velo che mi copriva la testa, pronto per incontrare Dio e confessare i miei peccati. Presi il mio rosario, quello stesso che avevo stretto tra le mani la notte del mio peccato con Demon, ora posato dentro un portagioie come se il legno potesse assorbire e purificare quella colpa.
Mio padre stava ancora male, sempre a letto, debilitato dall’ulcera. Ogni giorno pregavo per lui, per la sua guarigione. Pregavo anche per me stessa, per il perdono dei miei peccati, sperando che la mia ribellione non avesse causato ulteriore dolore a chi amavo. Uscii dalla stanza, pronta per la chiesa, e lungo il corridoio incontrai Elisabeth.
Elisabeth era vestita con un abito medievale dai toni delicati, rosa e bianco, che le conferivano un’aura di purezza. Il corpetto era stretto e perfettamente aderente, con ricami in filo d’argento che riflettevano la luce come se avessero vita propria. La gonna era ampia, con strati di tessuto che le davano un portamento elegante e maestoso. Il velo bianco le cadeva dolcemente sulle spalle, incorniciando il viso in un modo che la faceva sembrare quasi eterea.
«Buongiorno, sorella,» mi salutò con la sua solita voce calma e misurata. «Stai andando in chiesa?»
«Sì,» risposi, cercando di mantenere il tono neutro mentre iniziavo a camminare accanto a lei. Mi sentivo a disagio, come se ogni mio passo risuonasse troppo forte nel silenzio del corridoio.
Elisabeth mi osservò per un momento, come se stesse cercando qualcosa nei miei occhi. Poi, con un tono più basso, disse: «So quello che hai fatto, Franny. Non ne abbiamo parlato, ma io lo so.»
Le sue parole mi colpirono come un colpo improvviso, fermandomi sui miei passi. Il cuore mi balzò in gola, e mi sentii come se fossi stata scoperta nel momento più vulnerabile. Non sapevo cosa rispondere. Rimasi in silenzio, la mente che correva veloce mentre cercavo di capire quanto sapeva realmente e come avesse fatto a scoprirlo. Guardai Elisabeth, cercando un segno, un indizio nei suoi occhi, ma lei mantenne il suo solito sguardo enigmatico, difficile da decifrare.
Era impossibile nascondersi da lei. Elisabeth aveva sempre avuto una sorta di intuizione, una capacità di vedere oltre le apparenze, e mi domandai quanto avesse davvero visto, quanto avesse capito di ciò che era successo tra me e Demon. Il peso del suo giudizio, che non aveva ancora espresso a parole, mi opprimeva come un’ombra scura.
Le sue parole risuonavano nella mia mente mentre ci avviavamo insieme verso la chiesa. Ogni passo che facevo era come un cammino verso il patibolo, un'inevitabile resa dei conti con i miei errori. Avevo bisogno di pregare, di trovare un modo per redimermi, ma con Elisabeth al mio fianco, sentivo che anche quel momento sacro mi veniva strappato via, lasciandomi solo con la cruda realtà dei miei peccati.
Mi fermai, trattenendo il respiro. Elisabeth aveva appena pronunciato quelle parole, e il mondo sembrò fermarsi per un istante. «Hai fatto sesso con Demon,» disse, la voce tagliente come una lama. Il suo sguardo era fisso su di me, penetrante, come se stesse cercando di scavare dentro la mia anima per trovare ogni segreto che stavo cercando di nascondere.
Esitai solo per un momento, ma bastò per farle capire che era vero. Abbassai lo sguardo, incapace di sostenere il suo. «Sì, l’ho fatto,» risposi infine, con un filo di voce. Non c'era punto nel negare; la verità era già fuori. «Come lo sai?»
«Richard,» disse Elisabeth con freddezza. Il nome mi colpì come un pugno. Richard, il consigliere privato di nostro padre, l'uomo che ci aveva sorprese nella chiesa quella notte. Il cuore mi martellava nel petto mentre cercavo di capire quanto avesse detto a Elisabeth, cosa avesse visto, cosa avesse insinuato. Ma prima che potessi dire altro, lei mi interruppe: «Non puoi portarmi via anche lui.»
Rimasi a bocca aperta, incredula. Non potevo credere alle sue parole. Elisabeth era innamorata di Demon? Lei, la mia sorella maggiore, sempre così controllata, così distante, priva di passioni, esattamente come me. Era una rivelazione che mi colpì più forte di quanto avrei mai potuto immaginare.
«Sei stata sempre la preferita di papà,» continuò, la voce spezzata da un’ombra di risentimento che non avevo mai colto prima. Era vero. Ero sempre stata io la preferita di nostro padre, quella che seguiva i suoi ordini senza domande, quella che non aveva mai sfidato la sua autorità, mentre Elisabeth aveva sempre dovuto lottare per un briciolo di attenzione. Forse avevo sempre saputo di questa rivalità silenziosa tra noi, ma non l'avevo mai davvero compresa. Fino a quel momento.
«Sì, e quindi?» risposi, cercando di mantenere il controllo, anche se la mia voce tremava leggermente. «Abbiamo solo fatto sesso, niente di più. Non lo amo, e nemmeno tu lo ami, Elisabeth. Non è niente.»
Ma lei non sembrava affatto convinta. «Io lo amo, Franny. Tu non puoi portarmi via anche lui.» La sua voce si incrinò appena, lasciando trasparire una vulnerabilità che mi sorprese. Era una dichiarazione nuda e cruda, e improvvisamente tutto ebbe un altro significato.
Le sue parole mi lasciarono senza fiato. «Prenditelo,» dissi quasi con rabbia, ma sentivo il dolore sordo nelle mie parole. «Non lo voglio. Non mi piace.» Volevo credere a quelle parole, ma suonarono vuote, prive di peso. Elisabeth mi guardò come se avessi appena pronunciato una blasfemia. Era come se il semplice atto di dire che non mi importava rendesse la situazione ancora più complicata, più irrisolvibile.
«Non sei nessuno per potermi dire cosa fare,» dissi. Mi afferrò per il braccio, stringendolo con forza. «Certo che posso. Sarò la tua futura imperatrice e sono la tua reggente.»
Le sue parole erano come una sfida, un promemoria del suo potere su di me. Ci fissammo negli occhi, entrambe consapevoli del filo sottile che ci separava dalla lotta aperta.
Elisabeth mi fissava con un’intensità che mi fece gelare il sangue. «E se domani fossi incinta di lui?» disse con una calma che tradiva la rabbia repressa, come un veleno che scivola piano, ma sicuro, nelle vene. Le sue parole erano un colpo al petto. No, non potevo restare incinta di Demon. Sarebbe stata la mia rovina, la fine di tutto ciò che conoscevo e amavo. Non solo per me, ma anche per lui. Sentii un’ondata di terrore salirmi lungo la schiena. Non poteva accadere, non doveva.
«Vi taglieranno la testa,» continuò, con un ghigno crudele che le deformava il viso. «Sarà mio padre a ordinarlo.» Quelle parole mi scossero. Suo padre? Era anche mio padre! Come poteva parlare così, come se io non fossi niente, come se fossi solo un ostacolo sulla sua strada.
Mi liberai dalla sua stretta, strappando via il braccio con un movimento brusco. «È anche mio padre,» risposi con voce ferma, cercando di mantenere il controllo anche se dentro di me tutto stava crollando. «E prima di tagliare la testa a me, dovrebbe tagliare la testa alla sua amante, Fiona.»
Elisabeth sembrò impallidire a quelle parole, ma la sua espressione si fece ancora più dura. «Se mai rimanessi incinta, io ti metterò in sposa con un uomo orribile e anziano, capito, Francesca?» Sorrisi, un sorriso che non arrivò agli occhi, amaro e carico di sfida. Non mi sarei mai piegata a lei, a quella sua assurda sete di controllo. Ma lei non finì lì. Mi afferrò per le spalle, scuotendomi avanti e indietro come se cercasse di scrollarmi di dosso le sue insicurezze e la sua rabbia.
«Francesca, non c’è niente da ridere! Hai preso da mia madre!» Urlai, sentendo la furia crescere dentro di me. «Era anche mia madre, Elisabeth!» gridai con tutto il fiato che avevo in corpo, ma le mie parole sembravano non raggiungerla. Era come se fossimo intrappolate in un ciclo di dolore e risentimento, entrambe vittime della stessa storia, ma incapaci di vedere oltre le nostre ferite.
Elisabeth strinse i denti, gli occhi pieni di lacrime trattenute e di parole non dette. «Tu hai ucciso la mia mamma! Sei nata tu e tutto è cambiato!» Le sue accuse erano come spade che si infilzavano nella mia carne, ma non mi tirai indietro. Ogni parola era un colpo, una verità distorta dalla sua rabbia e dal suo dolore. «Sei una puttana! Hai fatto sesso con Demon!» La sua voce si spezzò mentre le sue mani si stringevano sempre di più sulle mie spalle.
Il colpo partì senza che me ne rendessi conto. Uno schiaffo secco, che echeggiò nel corridoio come un tuono improvviso. Elisabeth si bloccò, sorpresa tanto quanto me. La sua guancia iniziò a colorarsi di rosso, e un istante di silenzio cadde tra noi. Era come se il tempo si fosse fermato, cristallizzando quell’attimo in cui entrambe ci rendemmo conto che qualcosa si era rotto definitivamente.
Rimasi lì, con il respiro affannato, il cuore che batteva come un tamburo impazzito. Le lacrime minacciavano di sgorgare, ma le ricacciai indietro con forza. Elisabeth si portò una mano alla guancia, lo sguardo ferito ma pieno di una rabbia che non aveva trovato sfogo. Mi guardò, e in quel momento vidi tutta la sua frustrazione, il suo dolore, e la sua solitudine. Era un riflesso del mio stesso tormento, eppure eravamo incapaci di condividere quel fardello.
«Non osare mai più toccarmi,» sibilai, la voce spezzata, ma con un filo di orgoglio che mi teneva ancora in piedi. «Io non sono tua, non sono di nessuno.» Feci un passo indietro, allontanandomi da lei, mentre sentivo le sue parole bruciarmi addosso come fuoco. Era un dolore che conoscevo, ma non volevo più lasciarlo definire chi ero.
Elisabeth mi fissò con una freddezza che non le avevo mai visto prima. I suoi occhi erano pieni di una determinazione feroce, di un potere che sembrava voler schiacciare tutto ciò che si trovava sul suo cammino. «Non sei mia, allora obbedirai ai miei ordini,» sibilò, con un tono che mi fece gelare il sangue nelle vene. «Perché se non lo farai, ti taglierò la testa. A te e a Demon. Perché se non sarà mio, non sarà di nessuno. Né tuo, né mio.»
Ogni parola era una sentenza, una promessa di distruzione che non lasciava spazio a fraintendimenti. Voleva dire ogni cosa che aveva appena pronunciato. Mi tremarono le mani, ma non lasciai che vedesse il mio cedimento. Sapevo che le sue minacce non erano vane; sapevo che, se avesse voluto, avrebbe potuto farlo. Era la reggente, la futura imperatrice, e quel potere le dava la sicurezza di potermi distruggere senza battere ciglio. Mi guardò con disprezzo e si voltò, allontanandosi da me con passi decisi, senza voltarsi indietro neanche una volta.
La osservai mentre si allontanava, il suo vestito ondeggiante che sembrava fendere l’aria come una lama affilata. La sua figura si allontanò sempre di più, fino a diventare un'ombra contro le alte mura di pietra. Mi girai anch'io, trattenendo il respiro per non lasciare che la paura mi sopraffacesse. Le sue parole continuavano a rimbombarmi nella testa: «Se non sarà mio, non sarà di nessuno.»
Mi avviai lungo il corridoio in direzione della chiesa, le mani ancora tremanti e la mente in subbuglio. Ogni passo era un tormento, ogni suono intorno a me sembrava amplificare il tumulto che avevo dentro. Le torce appese alle pareti proiettavano ombre danzanti, come se anche le fiamme stessero sussurrando le minacce di Elisabeth. Mi sentivo oppressa, quasi soffocata da un peso che non riuscivo a sollevare.
Quando raggiunsi le porte della chiesa, le spinsi con un gesto deciso, ma dentro di me ero un vortice di emozioni contrastanti. L’odore di incenso riempì le mie narici mentre varcavo la soglia, e l’atmosfera sacra del luogo mi avvolse immediatamente. Le alte navate sembravano scrutarmi dall'alto, testimoni silenziosi dei miei peccati e delle mie paure. Mi avvicinai lentamente al confessionale, le gambe pesanti come piombo.
Entrai e chiusi la porta dietro di me, lasciando fuori il mondo e i suoi giudizi. Mi inginocchiai sul freddo legno, e le dita si strinsero attorno al rosario che portavo sempre con me, le perle che scivolavano tra le mie dita come una preghiera silenziosa. Sentii il respiro affannato, il cuore che batteva forte nel petto.
«Padre, ho peccato,» sussurrai con un filo di voce, il volto rivolto verso il piccolo reticolo che ci separava. Non riuscivo a vedere il prete, ma potevo sentire la sua presenza dall’altro lato. «Ho peccato contro il Signore, ho peccato contro la mia famiglia, e contro me stessa.»
Il silenzio nella chiesa era assoluto, interrotto solo dal mio respiro spezzato. Le parole che avevo pronunciato pesavano come macigni, ma sentivo il bisogno di liberarmi di quel peso, di confessare tutto.
«La mia anima è macchiata dal peccato, e il mio cuore è tormentato,» continuai, cercando di mantenere la voce ferma mentre lottavo contro le lacrime. «Ho fatto ciò che non avrei mai dovuto fare. Ho ceduto alla carne e ho tradito tutto ciò che è sacro.» Pensai a Demon, al momento in cui avevamo varcato il confine dell’imperdonabile, e un’ondata di vergogna mi travolse.
«Chiedo perdono,»dissi infine, con la voce che si spezzava. «Chiedo perdono per aver amato dove non avrei dovuto, per aver desiderato ciò che non mi appartiene. Chiedo perdono perché ho perso me stessa.»
Aspettai una risposta, un segno di redenzione, ma il silenzio era assordante. Mi sentivo esposta, nuda davanti al giudizio divino. Le parole di Elisabeth tornavano a tormentarmi, la minaccia di un destino che non potevo permettere di realizzarsi. Mi aggrappai al rosario, pregando con tutta me stessa di trovare una via d'uscita, una speranza di redenzione per i miei peccati.
Alzai lo sguardo verso la croce appesa davanti a me, gli occhi pieni di lacrime. Sapevo che il perdono sarebbe stato difficile da ottenere, che le conseguenze delle mie azioni mi avrebbero perseguitato.
Il prete iniziò a parlare dall'altra parte della grata, ma la voce che sentii non era quella che mi aspettavo. Non era il prete, era Demon. La mia mente fece un salto, e il mio cuore iniziò a battere più forte nel petto. Mi alzai di scatto, il respiro irregolare. «Demon,» dissi incredula, spingendo la portiera del confessionale per aprirla.
Lui si trovava lì, davanti a me, indossando un abito nero che lo rendeva ancora più misterioso, quasi minaccioso. I suoi occhi scintillavano di una luce che non riuscivo a decifrare, un misto di provocazione e di qualcosa di più oscuro. Aveva un sorrisetto sulle labbra, uno di quelli che usava quando sapeva di avere il controllo, e che mi faceva venire i brividi lungo la schiena.
«Elisabeth lo sa,» dissi con voce spezzata, cercando di mantenere una parvenza di compostezza. Non sapevo cosa aspettarmi da lui, se comprensione o scherno. Demon si limitò a scrollare le spalle, come se la cosa non lo toccasse minimamente. «Lo so,» rispose, la voce un sussurro basso che vibrava nell'aria tra di noi.
Fece un passo avanti, il suo sguardo che non si staccava dal mio. Con un gesto lento e deliberato, mi sollevò il velo che indossavo per la chiesa, lasciandolo cadere delicatamente dietro di me. Il suo tocco era caldo, quasi bruciante contro la mia pelle. Mi sfiorò la guancia con la punta delle dita, un gesto tenero che contrastava con la tensione che si respirava tra di noi. Mi trovai a trattenere il respiro, incapace di muovermi, intrappolata tra la voglia di avvicinarmi e la paura di ciò che significava.
Demon si avvicinò ancora di più, e senza una parola, le sue labbra si posero sulle mie in un bacio profondo e avvolgente. Le nostre lingue si incontrarono, danzando in un'intimità che sapeva di proibito, eppure mi sembrava impossibile resistergli. Mi sentivo travolta, catturata in una rete di desiderio da cui non volevo liberarmi. Le sue mani scivolarono lungo il mio corpo, come se stessero memorizzando ogni curva, ogni singolo respiro che prendevo.
Quando si spostò verso il mio collo, i suoi baci diventarono più insistenti, mordicchiando la pelle sensibile in modo che mi fece quasi sussultare. «Demon, no,» dissi in un sussurro disperato, cercando di spingerlo via con la poca forza di volontà che mi era rimasta. «Non qui, ti prego...» Le parole erano mezze soffocate tra i sospiri che non riuscivo a trattenere, i sensi in subbuglio sotto i suoi tocchi esperti.
Lui si fermò per un istante, guardandomi negli occhi con quell'intensità che sembrava volermi penetrare l'anima. «Perché no, principessa?» sussurrò con una nota di divertimento nella voce, il suo sorriso un mix di malizia e desiderio. «Qui è il posto perfetto. Nessuno ci troverà, nessuno oserà disturbare la tua confessione.» Il modo in cui parlava, con quella sicurezza spavalda, mi faceva ribollire il sangue. Era un gioco per lui, un modo per mettere alla prova i miei limiti, spingermi oltre il punto di rottura.
Sentivo la sua presenza avvolgermi come un mantello, la tensione tra di noi che diventava sempre più palpabile. Ogni movimento, ogni sguardo, era un'ulteriore provocazione, un invito a lasciarmi andare, a cedere ancora una volta. Voleva che fossi io a decidere, a fare il primo passo, ma sapevo che appena lo avessi fatto, lui non avrebbe esitato a trascinarmi nel nostro peccato.
«Demon,» sussurrai ancora, la voce tremante mentre cercavo di rimanere lucida. «Questo è un gioco per te, ma per me... per me è molto di più.» Cercai di allontanarmi, di creare distanza, ma le sue mani mi bloccarono i fianchi, impedendomi di muovermi.
«Francesca,» disse con un tono che sembrava una sfida. «Non pensi che a questo punto sia troppo tardi per fermarsi?» I suoi occhi erano fissi sui miei, e per un istante il mondo sembrò scomparire intorno a noi. Non c'era più la chiesa, non c'era più il peccato, c'eravamo solo noi, sospesi in un momento che sembrava eterno.
Sapevo che stavo giocando con il fuoco, eppure non potevo fare a meno di sentirmi attratta da quella fiamma. E mentre le sue labbra tornavano a cercare le mie, capii che, nonostante tutto, non ero pronta a spegnere quel fuoco.
***
Il giorno successivo era arrivato in fretta, portando con sé l'ombra dei Melios. Domani sarebbe stato un giorno cruciale, uno di quelli che segnano il destino, e io non potevo fare a meno di sentire un nodo di ansia stringermi lo stomaco. Nonostante fosse ancora presto, avevo deciso di prendere il mio cavallo Furios, un maestoso stallone nero, e concedermi una passeggiata per schiarirmi le idee. Mi serviva la calma della cavalcata, il vento che mi sferzava il viso, la libertà di quei momenti rubati alla realtà.
Demon mi seguiva a cavallo, come una presenza costante e rassicurante alle mie spalle. Avevamo passato la notte insieme, e non importava cosa dicesse mia sorella Elisabeth. Sapevo che tra me e Demon c'era qualcosa che andava oltre le parole, oltre le minacce di mia sorella. lo non sarei mai riuscita ad avere figli, lo sapevo nel profondo, e questo mi dava un senso di libertà nel nostro legame.
Mentre cavalcavo, Demon mi chiamò: «Rallenta, principessa!» La sua voce era un misto di preoccupazione e affetto, quel tono che aveva solo quando era realmente coinvolto. Mi voltai per guardarlo, un sorriso che mi sfuggì dalle labbra, ma in quell'istante un rumore sordo squarciò l'aria. Un colpo secco, uno sparo. Furios si agitò sotto di me, le sue narici si dilatarono, gli occhi sgranati dal terrore.
Eravamo ancora all'interno delle mura del castello, un luogo che avevo sempre considerato sicuro, impenetrabile. Eppure, non appena mi tornai a girare, un secondo sparo riecheggiò, più vicino, più minaccioso. Stavolta il colpo colpi Furios, e lo stallone, in preda al dolore, si alzò sugli zoccoli posteriori, impennandosi con violenza. Non riuscivo a mantenere l'equilibrio, e in un attimo tutto divenne confuso.
Caddi a terra, l'impatto fu duro, il respiro mi si mozzò mentre il mondo sembrava rallentare attorno a me. Sentii il peso del mio corpo che collassava al suolo, ma c'era qualcos'altro. Qualcosa di caldo e vischioso che scorreva sotto di me. Il mio sguardo si abbassò, e la vista del sangue mi gelò. Era dappertutto, una macchia scura che si espandeva sotto le mie gambe, contaminando l'erba verde del cortile.
Demon era già accanto a me, il viso stravolto dalla preoccupazione. Le sue mani mi afferrarono, cercando di sollevarmi con delicatezza, ma il dolore che mi attraversò fu straziante. Sentii un lamento sfuggirmi dalle labbra, la vista offuscata dalle lacrime. Non capivo se il sangue fosse il mio o del mio cavallo, ma il terrore mi serrava il cuore come una morsa.
«Demon...» sussurrai, mentre la consapevolezza della mia vulnerabilità mi travolgeva. Lui si chinò su di me, la sua espressione decisa, i suoi occhi che cercavano di confortarmi nonostante la paura che si leggeva chiara sul suo volto. «Resta con me, Francesca,» disse, la sua voce un comando tanto quanto una supplica.
Cercai di respirare, di concentrarmi su di lui e non sul dolore lancinante che mi attraversava il corpo.
Demon mi afferrò con fermezza, le sue braccia avvolgendomi in una stretta decisa e protettiva. Mi sollevò con una facilità che quasi contrastava con la gravità della situazione. Sentivo il suo respiro rapido e affannato mentre mi portava via dal terreno insanguinato, il suo viso teso, gli occhi fissi davanti a sé come se la determinazione potesse sostituire la paura.
«Demon...» sussurrai con voce tremante, il dolore si irradiava in ogni fibra del mio corpo. Il mondo attorno a me cominciava a sfumare, i colori si mischiavano, le voci diventavano eco lontane. «Chiama il medico... ho paura...» Ogni parola era un sussurro affannato, mentre cercavo di aggrapparmi alla sua presenza, come se solo lui potesse ancorarmi alla realtà.
Lui mi guardò, il suo sguardo carico di preoccupazione, e disse con un tono che voleva essere rassicurante ma tradiva un'ombra di terrore: «Non preoccuparti, Franny, non ti lascio.» La sua voce era un filo di speranza, un pegno di protezione assoluta. Ma io non riuscivo a calmarmi. Ogni respiro era un’agonia, ogni battito del cuore un promemoria del dolore che sentivo, del sangue che continuava a scorrere, lento ma inesorabile.
Mentre Demon correva verso il castello, ogni passo sembrava rimbombare nelle mie orecchie come un tamburo, il rumore dei suoi stivali contro le pietre riecheggiava come colpi secchi che mi facevano sussultare. Sentivo il calore del suo corpo contro il mio, la sicurezza delle sue braccia che mi stringevano forte, come se potesse proteggermi da qualsiasi cosa, persino da me stessa.
Ma la mia vista iniziava a oscurarsi. Il dolore diventava ovattato, distante, come se stessi sprofondando in un abisso senza fine. Le palpebre mi si fecero pesanti, e il mondo attorno a me divenne sempre più sfocato. Cercai di rimanere sveglia, di aggrapparmi al suono della voce di Demon, alla sensazione delle sue mani che mi tenevano stretta, ma era come cercare di trattenere l'acqua tra le dita.
«Demon...» ripetei debolmente, ma questa volta la mia voce era solo un sussurro flebile, quasi inesistente. I contorni del suo viso sfumarono davanti a me, mentre l'oscurità mi avvolgeva lentamente, come un manto nero che mi copriva senza pietà. Il mio corpo diventava sempre più leggero, il dolore si dissolveva in un torpore profondo.
Sentii un ultimo sussurro, un'ultima promessa di Demon che mi giurava che tutto sarebbe andato bene. Ma io non riuscivo più a rispondere, non riuscivo più a sentire, a vedere, a essere presente. Il mondo attorno a me svanì completamente, e mi abbandonai all'oscurità, incapace di combattere ancora.
Svenni tra le braccia di Demon, affidandomi completamente a lui, sperando che le sue parole potessero avverarsi, che davvero tutto sarebbe andato bene. Era l’ultima cosa che desideravo, l’ultima preghiera che sussurrai nel mio cuore prima che il buio mi portasse via, lontano da ogni pensiero, da ogni paura, e da ogni dolore.
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