La Balena-Isola - Prima Parte
Io, Charles Gray, ex-cittadino dell'Impero Leodoriano, e ormai figlio della Balena Isola, trovandomi adesso in età avanzata, voglio tramandare in questa pergamena tutte le mie memorie degne di essere ricordate. E se mai il mio messaggio raggiunga l'Impero di Leodor, ditegli, che lascio per sempre la terraferma per vivere nel mare!
A chiunque trovi il mio messaggio, chiuso in questo barattolo: sono un uomo, che la provvidenza ha destinato a compiere un viaggio unico. E prima di chiunque altro, voglio raccontarti la mia storia, prima che tu la senta raccontare da altre bocche, perché io ero famoso, conosciuto e in tutta Leodor. Ma io devo raccontare questa storia per primo, che appartiene a me soltanto.
Tutti conoscevano il nome di mio padre. Ero figlio di un capitano che aveva fatto la gloria dell'impero, un avventuriero. Tutti conoscono la sua vita avventurosa. Ma per me era un estraneo. Una persona cara e nobile, sì, ma estranea. Per il fatto che avrei dovuto sentirmelo vicino ogni volta che mi parlavano di lui, proprio per questo lo sentivo distante e inesistente. Eppure so che mi voleva bene. Mi scriveva, mandava messaggi e doni quando poteva. A me, mia madre e i miei fratelli Victor e Mary, rispettivamente di sei e quattro anni più grandi di me.
Sono cresciuto sotto la rigorosa disciplina di mia madre, le coccole più i rimproveri di Mary, e le botte di Victor. Ero un bambino sensibile, e sono cresciuto sviluppando un guscio di indifferenza per sopportare meglio la mia grigia vita quotidiana.
Non la definirei triste; solo... grigia.
Mia madre era severa, fredda, austera. Non ricevetti mai alcuna carezza da lei, né un complimento. Era un blocco di ghiaccio. Fatico a ricordare altri dettagli rilevanti di lei, oltre al suo modo sobrio, quasi da suora, di vestirsi, il suo viso inespressivo e la voce a volte tagliente come una condanna. E il fatto che pregava infallibilmente ogni sera, e costringeva noi tre a fare lo stesso.
Aveva sposato nostro padre solo perché le era stato imposto dai suoi genitori e lei aveva accettato la sua sorte, immagino con la stessa impassibilità con cui accettava le lettere di mio padre, che si scusava di non poter tornare.
Victor aveva preso da lei. Capelli bruni e occhi di ghiaccio, con una pelle bianca e sottile. Le mani invece erano del nonno materno: le dita che rivelano ossicini esili ma con una stretta di ferro, e nocche durissime. Le ho ricevute tante volte sulla testa. Per qualche ragione, Victor non poteva sopportarmi. Giravamo alla larga e se ci incrociavano scoprivo che mi aveva teso qualche crudele tranello, come quella volta che mi chiuse dentro l'armadio in soffitta. Lo temevo.
Mary sin da piccola dimostrò di essere una donna dalle idee decise e forti. Victor le tirò i capelli, mi ricordo. Capelli bruni con riflessi ramati. E Mary smise di passarsi il pettine e si voltò di scatto e colpì Victor sulla guancia. Un colpo orribile.
Io rimasi a bocca aperta. Il ghigno di Victor si trasformò in stupore. Mary gli puntò il pettine verso il petto e disse: "Se lo dici a mamma, allora le dirò che mi hai tirato i capelli. Hai capito?"
La faccia di Victor si contrasse in una smorfia mentre lui tornava al suo solito broncio ma punto dal dolore.
"Capito." La sua voce era pieno di veleno. Gli occhi erano diventati aghi di ghiaccio ma Mary non si scompose.
"Tu quella botta te la sei fatta cadendo sulle scale. Capito?"
"... sì."
"Charlie." Mi chiamò Mary, tornando pettinarsi come se niente fosse. "Se ti chiedono cosa è successo a Victor, tu dirai che si è fatto male cadendo."
Avevo allora pochi anni e stavo reggendo uno specchio da bambole davanti alla faccia di Mary. Balbettai un sì.
Lei teneva i suoi occhi scuri puntati nello specchio, concentrata sui suoi capelli bruni e morbidi. Victor storse il naso e se ne andò tenendosi una mano sulla guancia. Una bambina determinata che diventò una donna sposata altrettanto determinata.
Io, Charlie, ero l'ultimo. Avevo preso gli occhi bruni di mio padre e i capelli rossicci. Una somiglianza che molti mi hanno fatto notare, e che preferivo non facessero. Acuiva la sensazione di portarmi addosso la pelle di uno sconosciuto.
Ho una memoria che non mi ha mai deluso, e un talento per il disegno che nessuno mi ha mai incoraggiato ad approfondire. Ad eccezione di Matthew.
Matthew, mio buon amico. Ricordo le tue risate. Nulla poteva sconfiggere le tue risate. Con quelle, conquistavi tutto. Rimpiango amaramente il fatto che tu hai smesso di ridere. Sento come se fossi io la causa.
La causa?
Sono scomparso in mare, più di quarant'anni fa.
Dopo che mio padre era morto, ucciso in uno strano incidente, avevo raccolto tutti i suoi regali, i miei ricordi di lui. Spiccava una lettera con una fotografia. Una cupola bianca che brillava in un mare grigio, sostenuta da una chiazza scura sotto.
Mio padre stesso l'aveva scattata, e allegata alla sua lettera per il figlio.
Caro Charlie,
Quanti anni hai già compiuto? Mi dispiace di non essere un padre più di tanto presente nella tua vita. Ma non posso stare in due posti contemporaneamente.
Ho avvistato un animale meraviglioso, Charlie. La Balena-Isola. I nostri ricercatori non hanno ancora scoperto nulla di questo animale. Dicono che porti sulla testa una cupola e sotto questa cupola ci sono palme, animali, e forse anche indigeni. Ma non è mai stato catturato o visto da vicino. Ho scattato una foto, appena arriverò a Bhilang la farò sviluppare e mandare insieme a questa lettera con i miei saluti. Victor ti picchia ancora? Sei quasi un uomo, dovrei già chiamarti Charles... quando avrai la mia età, mi auguro che non farai i miei stessi errori... insegui i tuoi sogni! ci saranno momenti in cui dovrai scegliere tra i tuoi doveri e i tuoi sogni. E allora dovrai combattere, combattere te stesso per fare una scelta, e combattere anche il mondo intero per mantenere la tua scelta. Fai la tua scelta, senza tornare indietro e senza rimpianti.
Tuo padre
Emmanuel Gray.
L'aveva scritta per il mio quattordicesimo compleanno. Tempo fa. Adesso ero un uomo, e l'Impero si aspettava da me che ricoprissi il ruolo di mio padre in un viaggio di sufficiente importanza per il re James III di Leodor. Non avevo esperienza di mondo, e per questo accettai impulsivamente. Mi avrebbe accompagnato il capitano Smith, caro amico di mio padre e della mia famiglia. Molto più di un amico, da quando aveva sposato Mary.
Questi erano i pensieri che rimuginavo nella mia mente mentre chiudevo la valigia che avevo appoggiato sul letto e riempito di vestiti per il viaggio.
Ero pronto a partire.
Stavo attraversando la sala da pranzo quando la servetta di mia madre arrivò correndo. Sembrava isterica.
"Non vada, signore! Non vada! È pericoloso, vogliono-"
"Chi? Cosa vogliono?" Dissi, cercando di calmarla e prendendole il gomito. Era ammutolita di colpo e fissava qualcosa alle mie spalle perciò mi girai e vidi Victor, fermo sulla soglia del salotto. I suoi occhi più gelidi e taglienti del solito mi strinsero lo stomaco. Provai orrendi brividi sul collo e desiderai fuggire. Fissava la serva con uno sguardo che metteva paura. Sentii la voce di Smith dalla porta e indietreggiai verso l'ingresso.
La serva tremava violentemente, con i sudori freddi. Stavo male quasi quanto lei. Victor aveva un'aura terrificante. Ma su di lei aveva un effetto dilaniante.
Raggiunsi la porta e mi precipitai fuori. Smith, cercò di rimanere disinvolto e fece finta di non accorgersi del mio stato.
Cosa mi avrebbe detto la serva se non fosse stato per Victor?
Il mio viaggio non era destinato ad avere il successo che speravo.
Una tempesta. La nave sballottata dalle onde, inghiottita e sputata dal mare. Il vuoto che tentava di affogarci. Non potevo sentire o vedere, l'acqua era una frusta impietosa.
I miei occhi stavano rivivendo la scena al porto, quando avevo salutato Mary, ora una donna sposata e felice. Matthew, il solito scandaloso Matthew, che mi salutava con la luce negli occhi. E Sua Maestà in persona. Victor non era venuto. Il suo astio nei miei confronti era sempre uguale. Madre non perse la sua solita compostezza.
Mary aveva le lacrime agli occhi, e Matthew aveva un sorriso da spaccarsi le guance in due. Penso non volesse mostrarsi triste davanti a me.
"Continua a disegnare, Charles." Mormorò stringendomi la mano per un'ultima volta.
Era un ricordo felice e lontano, mentre il ghiaccio e le onde erano ovunque.
Sentii due mani afferrarmi per le spalle, la parola "scialuppa" gridata nel mio orecchio, poi una forte spinta. Caddi oltre il parapetto e dentro una scialuppa di salvataggio, urtando il legno duro. Dolorosissimo, e fu un miracolo se le mie ossa rimasero intatte, perché i lividi bruciavano come ghiaccio. Poi ancora un'altra spinta e volai fuoribordo.
Il ghiaccio dell'acqua si impadronì del mio corpo e smisi di respirare. Annaspavo, i lividi che mi aveva procurato quella caduta mi bruciavano. Non avevo idea di chi mi avesse spinto, ma adesso l'importante era non annegare, non cadere nell'abisso.
Poi la mia mano sfiorò una pelle ruvida, cetacea. Mi aggrappai a quella e lasciai che mi trascinasse con sé. Risaliamo in superficie, e tornai a respirare. Per quanto potevo; era più facile bere acqua salata e pioggia gelida che fare un solo respiro. Non potevo neanche chiamare o sentire, oltre il frastuono della tempesta.
Il mio salvatore aveva braccia umane, mi resi conto. Ma allora perché sentivo accanto a me la potente spinta di una coda da delfino e muscoli forgiati con il nuoto?
La pelle era troppo spessa per essere di un umano.
Non ci feci troppo caso in quel momento, flagellato com'era dal tempaccio, me ne resi conto solo più tardi, sommando tutti i miei ricordi. L'acqua, ancora sbattuta dalla forza della natura, adesso ribolliva e brulicava: altre creature si erano aggiunte. La corrente non era più fredda, sembrava emanare calore. Tutto questo lo notai di sfuggita mentre continuavo a bere acqua di mare e tossire. Mi scaraventarono su una riva dura e sputai altro sale e altra acqua. Credevo di non farcela, di morire, non era possibile che lo scampato pericolo fosse finito qui.
Poi braccia calde e umane. Trascinato sulla riva, insolitamente liscia, mi ritrovai all'asciutto. Ero salvo. Mi rizzai e tornai in me.
L'aria si era fatta di colpo umida e tiepida, mentre la pioggia cessò di perseguitarmi.
Mi guardai attorno.
Una cupola di scaglie trasluicidi e trasparenti mi copriva e incappava un'atmosfera accogliente. Ero adagiato su terriccio morbido e asciutto, solo un po' imbevuto dell'acqua che grondavo, e oscillava morbidamente, come per opera delle onde. Figure nere che riconobbi come palme. La tempesta infuriava ancora ma era tenuta a bada. Crollai disteso e lasciai che fossero gli indigeni a prendersi cura di me.
Mi risvegliai, sentendomi stremato e posseduto da un malessere generale. Mi sentii scuotere da un possente e ritmico rimbombo, proveniente da chissà dove.
La mia prima sensazione fu un calore diffuso che mi avvolgeva dal torace in giù. Mi scossi debolmente e scoprii che ero mezzo sepolto dal terriccio. Passato un primo momento di sollievo, persi ogni sensazione gradevole e piombai nella stanchezza.
Avevo la gola secca.
Fu allora che un indigeno mi passò un braccio robusto sotto le spalle e mi issò a sedere. Lo guardai e vidi un volto dagli zigomi alti, occhi neri, profondi e dal taglio felino, la pelle di un arancio abbronzato, mento e naso pronunciati ma privi di spigolosità. Era vestito solo di un gonnellino.
Mi porse una noce, più grossa del mio pugno. Bruna e liscia, dove una volta stava attaccato il nocciolo ora si trovava un foro minuscolo e occupato da una sostanza spugnosa.
La noce gorgogliò, e capii che conteneva un liquido al suo interno.
Guardai perplesso ed esausto l'indigeno.
Allora se la accostò alle labbra, riversò il capo all'indietro e bevve dal foro. Vidi il contenuto ricco e bianco gocciolargli dal mento.
Poi prese una seconda noce e me la offrì di nuovo. Stavolta l'accettai e bevvi. Un sapore dolce e carezzevole mi scivolò nello stomaco.
Tornò il rimbombo che mi aveva svegliato. Sembrava... un cuore.
Cominciavo finalmente a capire.
Così mi ritrovai sulla testa della Balena-Isola.
Gli indigeni, che scoprii in seguito si chiamavano Dtiemi, mi incoraggiarono a bere con frequenza il latte di quelle noci.
Erano le migliori, ma non capivo perché dopo diventavo vittima di febbre e dolori al capo. Era come se mi stesse per esplodere il cervello. In quei casi i Dtiemi mi accudivano con un'ospitalità insostituibile, che definirei affetto. Muti, silenziosi, ma efficaci. Ricevevo altri frutti e una buca nel terriccio in cui stavo rannicchiato, confortato da un Dtiemi esperto. Occasionalmente si riunivano attorno alla mia buca mormorando un canto senza parole. Era consolante avere questo tipo di attenzione e il mio cuore uscì da quella prova ritemprato.
I dolori diminuirono giorno per giorno ma subentrarono presto altri fastidi: sentivo delle voci, un coro sinfonico dentro la mia testa. E scoprii perché i Dtiemi non usano quasi mai la lingua. Le loro voci erano voci nella mente. La loro lingua era tutta nelle loro teste.
La mia testa diventò una sala piena di voci, suoni, ricordi ed emozioni. I Dtiemi condividono tutto. E non solo loro.
Gli animali con cui coabitano -con cui coabitiamo- possiedono lo stesso dono.
Le scimmiette e pipistrelli che abitano sulle palme, e gli animali marini. Delfini, orche, e uomini-delfini.
Era stato uno di quest'ultimi a salvarmi.
Col tempo imparai anche a distinguere le voci delle piante, più un'ultima voce, profonda, materna e costante. Era la voce della Balena-Isola.
Vi dirò di più sulla struttura della Balena-Isola: è una balena, molto più grande di qualsiasi altra, e possiede davvero un guscio semisferico sopra la testa come dicono. È formata da una struttura piena di aperture chiuse da scaglie trasparenti che la balena apre a piacere. Il suo cranio ospita in una conca gigante il terriccio che nutre le piante. Ma c'è ne una che cresce spontaneamente e fa parte della balena. È la palma produttrice di quelle noci che ho detto. Dalla corteccia bianca e un'unica foglia ombrelliforme. Attraverso queste la balena si nutre, e nutre anche noi. Il suo contenuto nutre una parte semisconosciuta ed insignificante della nostra materia grigia e contribuisce a svilupparla. È questo che ci rende tutti in grado di comunicare con i pensieri.
È questo che ci rende tutti suoi figli.
Sopra la testa abitiamo noi uomini, scimmie e pipistrelli frugivori.
Quando la Balena-Isola nuota nel mare è sempre circondata da uno stuolo di cetacei, tutti quelli che hanno assaggiato il suo latte. Delfini, focene, narvali e beluga. Più un'orca assassina, ma non si è mai avventato su uno di noi. Ha bevuto il latte ed è diventata come noi figlio della Balena-Isola.
I Dtiemi si vestono con rudimentali gonnellini e tuniche. Ci sono una ventina di abitanti, e io conosco ogni individuo, ogni uomo, ogni donna, ogni anziano e ogni bambino. Ho imparato a riconoscere le scimmiette tra di loro, i nomi e le famiglie degli uomini-delfini, persino i frutti preferiti dei singoli pipistrelli. Riconosco le zanne dei narvali e le loro cicatrici.
Gli uomini-delfini hanno collo, spalle e braccia umane ma ricoperte di pelle spessa e liscia, proprio come i delfini. Il nuoto costante li ha resi robusti e si servono di rudimentali attrezzi di osso per cacciare i pesci. La loro testa ricorda quello delle focene. Non hanno il naso: presentano invece un opercolo respiratorio sulla sommità della testa glabra. I denti sono conici e aguzzi, mentre i loro occhi neri e piccoli. Vivono con noi almeno quattro famiglie di questi esemplari.
Ogni tanto qualche stormo migratore vola dentro le finestrelle aperte della cupola, e resta con noi qualche giorno.
Le scaglie ogni tanto schioccano per avvertirci: la balena sta per immergersi. Quando è sicura che siamo tutti al nostro posto, chiude le scaglie soddisfatta. E si immerge.
Il terreno si inclina paurosamente e tutto si fa più buio. Perlomeno l'aria non manca, ci sono agli alberi.
Vediamo la barriera dell'acqua chiudersi sopra il cielo e i nostri fratelli marini librarsi attorno a noi.
La balena non si inabissa mai troppo, preferisce restare vicino a quelli che non possono sopportare una discesa troppo profonda.
Posso dire di essere il primo Leodoriano ad essersi inabissato sotto il mare in questo modo.
I Dtiemi per dormire scavano buche profonde per terra. Si accoccolano lì, in posizione fetale, fratellini con i fratellini, marito con la moglie, madre con i figli. Ho visto le scimmiette e i pipistrelli fare altrettanto, rinunciando ai rami e accoccolandosi tutti insieme in una buca. Questo perché è una posizione più vicina alla balena, dove si sente il suo cuore che batte. Ed è un battito che dissipa ansie e dubbi, e il sonno cala rapidamente sulle palpebre. E si fanno sogni che in nessun altro posto sogneresti.
Ho vissuto un anno, aggrappato ai miei vestiti, convinto che fossero il mio unico appiglio al mondo civilizzato. Ho vissuto un anno, contando sul tornare a casa, a Leodor. Mary e Matthew dovevano essere preoccupati per me. Sapevano che ero vivo? Stavano bene?
Le risate del mio unico amico e i sorrisi di mia sorella mi facevano galleggiare sopra un mare di nostalgia. Poi subentravano gli occhi accusatori di Victor, la presenza estraniante di mio padre. Il rigore dell'Impero Leodoriano si opponeva alla rilassatezza dell'isola... la Balena-Isola.
Cercavo la solitudine. Gli indigeni si preoccupavano per me, ma io volevo restare solo.
Seduto, fissando il mare, cercando di ignorare il brulichìo degli altri figli della balena.
Quella tristezza... come feci a farmela passare?
Fu grazie a lei. La Balena-Isola. La mia madre che allora mi rifiutavo di riconoscere.
Anche se ero solo, non lo ero mai completamente. Era nella mia testa, una presenza costante ma per niente invasiva. Mi stava vicino, mi pensava.
Ero il più nuovo dei suoi figli e non mi avrebbe mai abbandonato.
Non mi mai rivolsi a lei né lei si rivolse a me.
Stavamo solo in silenzio. Ma fu comunque di grande conforto.
Passarono i mesi e mi rassegnai. I miei vestiti erano stracci ormai, e li avvolsi in due foglie gialle cadute da una palma prima di sotterrare il tutto, come un tesoro. Da lì, cominciai a vestirmi come i Dtiemi, rinunciando alla civiltà.
E adesso, non toglierei mai questi poveri panni per reindossare abiti che si addicono ai sudditi Leodoriani. Non per tutto l'oro del mondo. Sono felice adesso.
Era passato un anno. E assisstii a uno spettacolo unico.
La tranquillità che caratterizzava la voce della Balena-Isola era di colpo sostituita da un'irrequietezza che contagiò tutti.
Anche io lo sentii: per me era una cosa nuova, ma non per gli altri figli suoi.
Li sentivo emozionati, impazienti.
I giovani si scambiavano occhiate ogni giorno più frequenti, gli anziani sembravano ringalluzziti.
Mi accorsi solo allora che non c'erano bambini tra i Dtiemi. Solo ragazzi e ragazze che avevano compiuto da poco i dodici anni.
I fiori sbocciarono e riempirono l'aria di profumi dolci, maturi e intensi.
Le scimmiette si inseguivano tra gli alberi e mi sembravano vivaci in maniera quasi innaturale.
Le voci nella testa adesso fremevano, vibravano e rabbrividivano.
C'era un aria di desiderio, di tensione palpabile.
La Balena-Isola si era messa a navigare con alacre impegno e seguendo una corrente calda, raggiunse la meta. Eravamo tutti lì, in attesa.
Non mi piaceva pensare che cosa aspettavamo. Ero diffidente e ostile, persino quando la balena intonò una canzone.
Un'altra voce distante rispose dal mare, e portava con sé una polifonia di voci più piccole. La mia diffidenza si fece sottile.
All'orizzonte apparve una seconda maestosa Balena-Isola. La sua cupola brillava nel tramonto. Veniva verso di noi, maestoso, portando con sé profumi intensi. E ne arrivarono altri. Il cielo sembrava più distante man mano che le cupole delle Balene-Isole si avvicinavano.
Sussultai quando Lerè, una ragazza Dtiemi, mi prese per mano. Volevo scrollare via quella stretta emozionata, ma non ne ebbi il coraggio dopo che l'ebbi guardata negli occhi.
E il canto della Balena-Isola divenne il canto di molte balene, l'unione di tutte le voci dei figli. Una canzone che mi sciolse il cuore. Solo allora sparsi una lacrima che mi rigò le guance non rasate, e ricambiai la stretta di Lerè. E la mia voce si unì le altre.
Le nostre voci ascendevano, e così quel sentimento nel cuore. Era impossibile resistere. Si impossessò di noi e noi ci lasciammo trascinare. Era come bere da una coppa di felicità, di gioia. Giravamo tutti in un turbine, senza pensare, senza fermare, volevamo seguire quella gioia fino a rimanere senza fiato. Il polline inebriava l'aria, il mare era schiuma che sciabordava tra i dorsi dei figli della balena. Avevo caldo alla testa, caldo su tutto il corpo, e anche le nostri menti unite scintillavano, scottavano come fuoco. La passione che ci spingeva come falene verso le lampade accese. Il petto che temevo mi scoppiasse di gioia. Ho provato sentimenti talmente forti, talmente indicibili, che mai mi sono sentito più vivo. Avevo trovato il paradiso terrestre.
Venne la notte e mentre dormivano abbracciati nelle buche, il cuore della Balena-Isola batteva con dolcezza. Di tutte le Balene-Isole, lei era la più vecchia. E sentivo quanto ne era orgogliosa, orgogliosa per aver vissuto a lungo, abbastanza per vedere la propria specie prosperare. Chiusi gli occhi sapendo che nel riaprirli, prima di ogni altra cosa, avrei visto il visto pacificamente addormentato di Lerè.
All'alba, li salutammo attraverso i nostri cuori pesanti. Loro fecero altrettanto.
La Balena-Isola si incontra una volta ogni dodici anni con i suoi simili per procreare. È l'unica occasione in cui si riuniscono in gruppo. Sentivamo il suo cuore gonfio di ricordi, ricordi del suo compagno scomparso.
I giorni passarono e non accade nulla.
Come se non fosse mai successo. Solo, quando io e Lerè incrociavamo gli sguardi, mi sorrideva con aria di complicità. Smisi di passare tempo da solo. Mi unii alla loro comunità, volta alla volta, imparando a cacciare i pesci e lasciandomi prendere in giro dai ragazzi. La mia diffidenza era in gran parte superata. Ma rimaneva un distacco tra me e gli altri.
Poi vennero altri pensieri di cui occuparci.
Le menti di cui tener presente erano raddoppiate. Le scimmie adesso accarezzavano i loro piccoli fragili e vidi un pipistrello portare nel marsupio un musetto vispo e nuovo.
Le anziane della tribù si adoperavano per aiutare le donne a mettere alla luce i loro figli e sopportare la gravidanza. Non solo donne Dtiemi; erano lì anche per le focene, i delfini e i beluga.
Ricordo un episodio, in cui mi fermai a galleggiare nel mare. Avevamo concluso una pesca fruttuosa ma non avevo fame. Dopo aver appoggiato a terra la rete da pesca, decisi di nuotare per togliermi i pensieri dalla testa.
Mi ritrovai accanto all'orca, soprannominato Cauto per il suo atteggiamento sempre in allerta. Nuotava proprio sotto di me. Emerse al mio fianco per riprendere un fiato d'aria e contemporaneamente una donna-delfino ci passò accanto cullando il suo bambino e allattando. Il nostro gruppo si era allargato, chissà perché mi stupivo ogni volta.
In quel momento sentii una forte affinità con Cauto. Guardando gli altri sorridere e accudire i piccoli, ci sentivamo fuori posto.
Non hai una famiglia? chiesi.
Tacque. Ma mi aveva sentito, e io sentivo la sua tristezza allargarsi come una chiazza d'olio.
Poi un barlume di luce. Si era accesa la curiosità di Cauto verso di me.
Nemmeno io ce l'ho... risposi.
Cauto sembrò perplesso. Nella sua mente affiorò un ricordo sfocato ma che riconobbi subito: la mia mente che brillava accanto a quella vispa e accesa di Lerè. Di nuovo la sua curiosità. Aspettava con vivo interesse una mia risposta.
Restammo tutti e due in silenzio, sentendo il macigno sul mio cuore. Per la prima volta mi resi conto che la notte dei dodici anni mi aveva cambiato. Mi ero rifiutato di ammetterlo. Il macigno cominciò a sgretolarsi e capii che tornare a casa era un sogno che mi ero stancato d'inseguire. Dovevo trovarmi un posto qui, come mi suggeriva il cuore. Mary, Matthew, tutti gli altri erano il passato che mi incapacitava. Dovevo abbandonarlo e abbracciare il presente.
Mi riscossi e spinsi verso l'isola, come sonnambulo, lasciandomi la mente del mio nuovo amico alle spalle. Non ringraziai Cauto. Non ce ne fu bisogno.
Sull'isola, cercai Lerè. Quando la trovai, la raggiunsi e restammo tutti e due in piedi, immobili, fronteggiandoci. Mi guardò con apprensione. Avevo bisogno di qualcosa?
Dovevo farlo. Inutile rimandare. Per un anno, avevo respinto ogni contatto non necessario; avevo troppa paura del presente.
Ma ero cambiato.
Mentre restavo imbambolato, cercando di dire qualcosa, mi accorsi che tutti ci guardavano. Non con gli occhi, con la mente. Lerè aspettava che rispondessi.
Allora feci un passo avanti e l'abbracciai. Stavolta non era un impulso dettato dall'emozione, ma un gesto di consapevolezza, frutto di una scelta travagliata. Non volevo più tornare indietro, volevo andare avanti. Per questo, mi serviva il suo aiuto. Ricambiò la mia stretta e allora sentii una scintilla di vita che non avevo notato Lerè portasse in grembo.
Quando mesi dopo, vidi il bambino in braccio a Lerè, notai i suoi radi ciuffi dorati. Distrattamente sfiorai una ciocca dei miei color carota, e mi promisi, sarei stato per suo figlio un padre amorevole e disposto a tutto, come il mio non aveva avuto tempo di essere per me.
Vent'anni passarono senza eventi al di fuori del normale. Ero diventato uno di loro, non ero mai stato diverso o estraneo. Dormivo con i Dtiemi, nuotavo con gli uomini-delfino. Mi nutrivo delle stesse cose che si nutrivano tutti, cioè pesce e i frutti della Balena-Isola.
Garun diventava forte e robusto, e io ero un padre orgoglioso.
I suoi capelli si sono scuriti col tempo ma mantengono sempre un riflesso rame che nessun altro Dtiemi possiede.
Più che un figlio, è il migliore amico che ho.
Vent'anni, e ormai aveva smesso di farmi domande. Perché avevo la pelle più chiara, i capelli diversi. Non sapevo mai come rispondergli.
"Papà, perché solo tu hai i capelli chiari?" Mi domandò una volta, un po' prima che lui e i suoi coetanei compissero undici anni. Mi raggelai. La sua infanzia felice era talmente diversa dalla mia che non sapevo come dirglielo. Non volevo parlargli del mio passato, non perché fosse triste (non la considero triste, tutto sommato) ma perché temevo di turbarlo.
"Duner e gli altri dicono che tu vieni da un'altra casa, che non sei nato qui."
Duner era il primo Dtiemi che avevo incontrato. Garun aveva colto le sfumature nelle conversazioni telepatiche di noi adulti, scoprendo così che suo padre era diverso. Accettato e incluso lo ero sempre, ma avevo un passato che nessun altro aveva.
Gli trasmisi il mio disagio ma anche il mio affetto, così che capisse che io non volevo dirglielo, che non era il momento. Ma quando sarebbe arrivato, gli avrei detto tutto.
Capì, e rimase in silenzio a fissare il mare. Ma potevo percepire miriadi di interrogativi che gli frullavano in testa.
Non gli dissi mai niente.
Poi arrivò quel giorno cruciale.
Continua...
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