Sensi


Genere: introspettivo
Parole: 805
Pov: Manuel



Il buio.

È sempre stato il buio.

Quello che ti accompagna da mesi, ormai.

Quando non vieni soffocato da esso, ti senti quasi sicuro in quel buio. Ti sei adagiato.

E non sono solo le tapparelle abbassate, non lo sono mai state. Se il buio ti sta divorando è anche colpa loro.

Hai smesso di tirarle su il giorno in cui ti sei accorto di non renderti conto del tempo che c'era fuori.

Tiri su le tapparelle, fai entrare la luce e poi? Poi cosa resta? Se non quello che non sei riuscito a vedere nonostante il volto rivolto costantemente verso la finestra. Non ti rendi conto del tempo che scorre, non vedi il sole, la pioggia, non vedi se c'è vento.

Guardi in quella direzione eppure non vedi.

Così come non vedi davvero il resto che c'è intorno a te.

Chiudi gli occhi e inspiri, ottieni lo stesso risultato.

Chiudi gli occhi e osservi il vuoto, lo stesso vuoto degli ultimi mesi.

Cos'è rimasto di ciò che eri? Non lo sai, te lo chiedi ma non sai darti una risposta.

Ti guardi in giro e capisci che l'unica cosa rimasta è una chitarra.

Una chitarra impolverata, lasciata in un angolo.

Sai già che eviterai la seduta anche quel giorno. Non sei pronto ad uscire, così come non sei pronto a parlare con qualcuno.

Ti irrita parlare e ti irritano gli altri quando ti parlano. Ti odi per questo. Odi tutto questo con ogni parte di te eppure non riesci a far nulla. Sei inerme davanti a ciò.

Non senti nulla, non l'hai mai sentito davvero almeno fino a quel momento.

Un pianto.

E non è il tuo. Non senti il rumore delle tue lacrime da tempo, le senti solo scendere quelle rare volte che tornano. Ormai il dolore ha divorato anche quelle.

È quel pianto che ti fa tornare a sentire, perché inizi ad irritarti allo stesso modo in cui ti succede con le parole. Riesci anche a capire che è il pianto di un bambino, quasi neonato, ne sei sicuro. Non presenta singhiozzi e semplicemente quel pianto disperato di ogni bambino che ha bisogno di dormire. Quel tipo di pianto te lo ricordi bene. Non è passato molto dall'ultima volta che l'hai sentito. Ti ricordi anche quello che facevi.

Prendevi la chitarra e suonavi.

Suonavi finché quel pianto non si calmava, perché sapevi che succedeva con quel suono.

Decidi di farlo anche in quel momento.

Quel pianto sta uccidendo il tuo silenzio e tu non lo puoi sopportare.

Prendi la chitarra e inizi a suonare, sperando funzioni.

Lo fai ogni volta che ricapita, non tieni più il conto di quante volte hai suonato per far calmare quel bambino. Non hai la percezione dello scorrere del tempo, non riusciresti a capire che il suonare per quel motivo sta diventando l'unica cosa che durante le giornate riesce a cambiare.

Non te ne rendi conto davvero finché non suonano alla porta.

Ma tu non apri.

Non apri mai se non aspetti qualcuno. Ti limiti a guardare dallo spioncino e a vedere una testa riccia che si guarda in giro. Richiudi velocemente lo spioncino e torni sul divano non curante del fatto che la persona dall'altra parte della porta potrebbe essersene accorto. Lo lasci suonare di nuovo, consapevole del fatto che prima o poi smetterà e se ne andrà anche lui. Come hanno fatto sempre tutti.

Scopri che non è così. Torna a suonare al campanello il giorno dopo, quando hai appena finito di suonare per calmare quel bambino che anche oggi si è addormentato con il rumore della tua chitarra.

Non aprirai nemmeno oggi e lo sai. Non fai nemmeno lo sforzo di non farti sentire per far sì che l'altro pensi che tu non ci sia.

Stessa cosa il giorno dopo e quello dopo ancora. Non capisci perché il riccio continui a suonarti. Non lo conosci né tanto meno vuoi farlo, ma, prima o poi, dovrai capire cosa vuole.

Per quello gli apri all'ennesimo trillo del campanello.

È la prima volta che la luce torna nel tuo appartamento. Una luce troppo forte, per quel che ti riguarda.

Strizzi gli occhi cercando di tenerla più lontano possibile per non farti fare male, ma è in quel momento che il riccio inizia a parlare «Ciao, sono Simone. Il tuo nuovo vicino. Scusa se ti disturbo spesso in questi giorni, ma la mia nipotina si tranquillizza quando ti sente suonare e volevo ringraziarti. Tutto qui».

Credi di non aver mai sentito tutte quelle parole dette d'un fiato. Ti è tutto più chiaro, in quel momento. Lo vedi sorridere e fare per andarsene quando quasi ti senti in dovere di dire «Mi chiamo Manuel» e la senti, di nuovo, per la prima volta dopo tempo, la tua voce.

La luce continua ad entrare finché non richiudi la porta e non decidi di alzare leggermente la tapparella per continuare a sentire la tua voce.

Fai rumore, fai entrare la luce.

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