Il Podcast (Parte II)
La stanza di Jasen aveva ben poco in comune con l'alloggio che era toccato a lei. Prima di tutto, aveva un vero e proprio bagno in una stanza chiusa da una porta di tutto rispetto, anziché un paravento. In più, mancava di ogni dettaglio grottesco, e al contempo blasfemo, della sua cella. Come l'altare, per essere specifici. Anche le pareti non erano fatte di pietra nuda ma erano state rivestite di stucco e successivamente dipinte di un color pesca molto accogliente, spezzato solo da un'ampia finestra che affacciava sui camminatoi delle mura.
«Hai addirittura le tende?»
Quella, per Ivy, fu la goccia che fece traboccare il vaso.
«Cosa?» Jasen la guardò con aria perplessa. Di tutte le domande che si era aspettato una volta chiusa la porta, quella doveva di sicuro essere l'ultima. «Sì, sai, di solito le usano per impedire alla luce di filtrare attraverso le finestre» la canzonò.
«Che spiritoso.» Lo fulminò con lo sguardo, prima di tornare ad analizzare la stanza. La valigia era aperta di fronte all'armadio ancora vuoto e sopra la piccola scrivania – sì, c'era anche quella – a ridosso della finestra incriminata, una distesa disordinata di fogli e appunti fungeva da tappetino per mouse e computer. «Se salta fuori che hai anche la doccia, sarà dura mandarmi via. Sappilo.»
Jasen sollevò un sopracciglio prima di abbandonare l'ingresso e dirigersi verso la porta del bagno, giusto per spalancarla di fronte allo sguardo furibondo di Ivette.
«Ce la facciamo insieme?» La guardò famelico per qualche istante, prima di scrollare le spalle come per levarsi di dosso i cattivi pensieri. Dovette costargli un po' di fatica, tanto che alla fine distolse l'attenzione da lei, schiacciato da un pensiero che gli aggrottò le sopracciglia. «Magari prima ti offro un caffè, ti va?»
«Ansia da prestazione?» ridacchiò Ivy prima di annuire alla domanda. «Okay, ora che abbiamo stabilito che i lavoratori del monastero sono in pratica degli schiavi, vuoi dirmi perché siamo qua? Intendo sul serio.»
Una volta richiusa la porta del bagno, fu il momento di fare gli onori di casa, per Jasen. Armeggiare con la macchinetta del caffè sul mobile bar di fianco alla scrivania sembrò ridargli un po' di quiete, così come la resa apparente di Ivy.
«Zucchero?» chiese in un soffio mentre l'aroma del caffè si spigionava nell'aria.
«No. Lo prendo amaro, grazie.»
Era strano l'atteggiamento di Jasen. La spavalderia, la malizia, i doppi sensi, tutto quanto era stato inghiottito da un'ombra scura che gli era calata sul viso di punto in bianco. Da ché le aveva dato le spalle, schiacciato da chissà quale pensiero improvviso, l'aria della stanza era cambiata. C'era un alone di disagio improvviso a dividerli, e Ivette dubitava che si trattasse davvero di una qualche ansia da prestazione da parte di Jasen. Era bello, sfacciato e dalla battuta pronta. Tutte caratteristiche che, di solito, fanno parte del corredo genetico dell'uomo sicuro di sé. Doveva essere un altro il motivo che l'aveva allontanato. Forse, si era reso conto che lei non era il suo tipo e non voleva più scoparsela. Cosa che, in tutta onestà, a lei sarebbe anche andata bene.
Dopotutto, Jasen era il tipico uomo "troppo". Troppo bello, troppo sfacciato, troppo perfetto, troppo gentile. Insomma, troppo.
Apparteneva a quella categoria di persone che Ivy ammirava ma con cui si sentiva sempre a disagio, come se dovesse considerarsi inferiore.
«Ehi, tutto okay?»
Jasen la richiamò alla realtà, con la tazza di caffè fumante stretta tra le mani. Gliela offrì con un sorriso mesto, poco sentito, e uno sguardo indagatorio che per un attimo parve scavarle sin dentro l'anima.
«Sì, certo» arrancò.
Troppo...
«Ti sei impensierita tutto a un tratto, non è da te.»
«Che ne sai che cosa è da me? Non mi conosci, Jasen.» Si pentì di essere stata così crudele nel momento stesso in cui ebbe pronunciato il suo nome. Serrò le labbra e abbassò lo sguardo sulla bevanda scura, con la speranza che il vapore potesse nasconderla. «M-mi dispiace» borbottò. «Divento una stronza quando sono a disagio.»
Trattenne il respiro, in attesa dello sclero di Jasen e dell'attimo in cui l'avrebbe cacciata dalla stanza, magari assieme a un reclamo alla Madre Superiora.
«Colpa mia, ti chiedo scusa.»
Ivy alzò di scatto il viso, con gli occhi verdi sgranati in quelli dell'uomo che la fronteggiava superandola in altezza di quasi due spanne. Le aveva sul serio chiesto scusa? Perché se era accaduto davvero, non aveva la più pallida idea di come avrebbe dovuto rispondergli. Di solito, era lei quella in errore. Sempre. Indipendentemente da dove si trovasse in realtà la ragione.
«No.» Scosse la testa con forza e i ciuffi ribelli le danzarono a fianco del viso. «Non hai fatto niente, davvero. Ho esagerato, mi dispiace. Te l'ho detto, divento una stronza quando mi sento a disagio. Non è colpa tua. Alla fin fine tu stai cercando solo di... Di...» Corrugò di scatto la fronte. La tazza le tremò tra le mani e il viso parve andarle a fuoco, colorandosi di una tonalità fin troppo simile a quella dei capelli. «Di fare cosa?» chiese con un filo di voce.
Jasen ridacchiò. «Sai che sei maledettamente adorabile quando ti imbarazzi?» Sollevò la mano, così da sfiorarle il profilo con i polpastrelli, in una carezza appena accennata. Socchiuse le palpebre e anche la sua voce si abbassò di tono a quello che divenne un sussurro grattato. «Decisamente troppo» mormorò più a se stesso, che non a lei. Esitò con le dita prima di ritrarle con uno sforzo visibile. «Che ne dici di accomodarti?» Le indicò il letto. «Così ti spiego tutto quanto. E per essere sicuri che riesca a farcela» sospirò, allontanandosi di un passo da lei con una riluttanza tanto forte da farla sembrare addirittura dolorosa, «io mi metterò a sedere qua sopra» concluse con un gemito prima di afferrare la vecchia sedia di legno posta di fronte alla scrivania. «Ti va bene?»
Ivy sorrise. Annuì senza dire niente e si accomodò sul bordo del letto ritrovandosi ad arrossire di nuovo quando le molle cigolarono sotto al suo peso.
Anche Jasen si girò a guardarla, richiamato dal suono, con uno sguardo sofferente. «Dopo, se non sarai scappata a gambe levate, giuro che farò in modo di dare a quelle molle un ottimo motivo per cigolare molto a lungo...»
(Continua...)
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