3 - Miss Marble (Parte I)

Isola di Oslay.


«Smettila di piangere, Pixie. Fai la brava bambina, avanti. Così, vedi? Non è difficile. Stringi la mano... No! Non così forte, ma con delicatezza. Oh, Pixie, così... così è perfetto. Sì, adesso muovila così, va bene? Brava, piccola, continua... E smettila di piangere. Ricordi? Tu sei la fatina e io il cavaliere.»

Si svegliò di soprassalto, poche ore dopo essere rimasta sola, madida di sudore nonostante il clima piacevole della stanza. Si passò la mano sulla fronte e la sensazione dell'umidità appiccicosa le causò un conato di vomito che non riuscì a trattenere. Inaugurò il bagno dietro al paravento, inginocchiata di fronte a una tazza di ceramica a vomitare muffin e rancore, unico credo che l'aveva tenuta viva fino a quel momento.

«Miss Marble?»

Due colpi secchi contro la porta di legno della camera la costrinsero a riafferrare la realtà. La vita di rado concede il tempo necessario a elaborare i problemi con la dovuta attenzione, e fin troppo spesso impone di reagire in maniera rapida per allinearsi alla frenesia del mondo moderno. Ecco perché rinnegare, fingere di stare bene, sorridere e continuare a camminare parevano essere il mantra di ogni persona in difficoltà. Come se ostentare felicità fosse l'unica carta necessaria alla sopravvivenza.

Una volta, Margot le aveva detto che una singola mela marcia può guastare un intero canestro di frutta. Da allora, Ivette aveva compreso che la gente non vuole problemi, anche quando finge di interessarsi ai tuoi. Difficilmente chi tende una mano dentro il marciume altrui ha voglia di annegarci. Molto meglio fingere e sorridere.

«Ivette Marble?» ripeté la voce.
«Sì, arrivo, un attimo.»
Aprì l'acqua del lavandino e prima di aprire la porta lavò via dalla faccia i cattivi pensieri e le voci del passato.

«E per ultimo, questo è il refettorio in cui consumerai i tuoi pasti assieme al resto dei colleghi.»

Suor Christine si fermò a tirare un sospiro all'ombra di un vecchio albero di cui Ivy non conosceva il nome. Il brusio delle vespe l'avrebbe inquietata in altre occasioni, ma il solo trovare sollievo dalla calura di quella giornata sembrava essere un compromesso più che accettabile anche per sfidare ogni tipo di insetto.

«Se hai domande da fare, non peritarti.» Christine annaspò, intenta a provare a darsi sollievo sventolando la mano grassoccia davanti al viso. «Sono qua per questo. Ti affiancherò nella prima settimana, dopo di che verrai affidata al personale laico che, prima che tu me lo chieda, non è al corrente della motivazione che ti ha portata qua da noi.»

«Grazie» mormorò interdetta. Non riusciva a capire se fosse stata una cortesia nei suoi confronti, o se rientrasse in una sorta di spirito di autoconservazione.
«Oh, non ringraziare me. L'idea è stata della Madre Superiora. Ha ritenuto che fosse opportuno non allarmare il personale laico con qualcosa ormai appartenente al passato.»

Era stato spirito di autoconservazione, come da copione. Anche le loro santità si nutrivano di ipocrisia, a quanto poteva constatare.

«Giusto?» la incalzò Suor Christine.
La guardò con aria speranzosa e l'espressione tipica di chi non ha voglia di occuparsi dei guai altrui e Ivy annuì.
«Certo. È una bella occasione, sarebbe stupido non sfruttarla.»

La suora, però, scoppiò a ridere, costretta a chiudere gli occhi per colpa delle gocce di sudore che le cadevano copiose sulle ciglia imbiancate dall'età. «Ah, puoi fregare le altre, ragazzina, ma non me!» la rimbeccò. «Non è una bella occasione, alla tua età. È una condanna. O almeno, è così che dovresti vederla. Sai, le cose cambiano spesso col "senno di poi". Peccato che arrivi sempre troppo tardi perché si possa apprezzare davvero le sfide che abbiamo affrontato.»

Fu sorprendente provare empatia per qualcuno dopo tanto tempo. Christine era davvero particolare e non solo perché l'alito le puzzava di alcol nonostante i voti le impedissero di cedere al peccato di gola, ma anche perché pareva essere stata l'unica a cogliere e accettare il pensiero di Ivy.

«Chiudi la bocca, ragazzina. Sono una suora, non una stupida» la rimbeccò. «Dunque, hai domande da farmi? Oh, per l'Altissimo! Andiamo all'ombra del chiostro, però, te ne prego. Sto boccheggiando!»
Sedute sotto un tetto di viti selvatiche – e di fronte a un bicchiere gigante di limonata e ghiaccio che la suora aveva trafugato dal refettorio – Ivy colse l'invito di Christine.
«Ha parlato di personale laico, giusto?»
«Chi?» chiese la suora, interdetta.
«L-lei...»
«Lei chi? La Madre Superiora?»
«N-no! Lei!» Ivy indicò la suora, riscaldata da un'ondata piacevole di ilarità improvvisa.
«Oh, dici me?» Christine si batté la mano contro al petto prosperoso e, subito dopo, scosse il capo. «Dammi del tu, bambina.»
«Okay» acconsentì Ivy. «Hai detto che c'è del personale laico. Questo significa che voi suore non svolgete i lavori del convento da sole?»

«Esatto» confermò Christine. «Un tempo era così, ma eravamo anche molto più numerose. Poi, a poco a poco, le mura del Convento si sono svuotate e per noi è divenuto sempre più faticoso mantenere la sacralità di questo posto. Ecco come alla Chiesa venne l'idea di renderlo accessibile ai turisti e, per farlo, fummo costrette ad assumere del personale laico. Alcune zone non sono state più consacrate, così da non mancare di rispetto a Nostro Signore, mentre altre invece rimangono luogo di culto.»

«Come la Cattedrale?»
«Esatto. La Cattedrale e anche la zona oltre quel cancello di ferro battuto che si trova in fondo al giardino, lo vedi?»
Ivy annuì. Poco oltre l'albero sotto al quale si erano rifugiate non troppi minuti prima, si trovava una grossa cancellata scura, oltre cui si poteva scorgere un secondo complesso di pietra.
«Ecco, là ci sono i nostri alloggi, la biblioteca e tutto ciò di cui abbiamo bisogno per la nostra vita ecclesiastica. Pensa che fino a pochi anni fa c'era chi ancora osservava la clausura, là dentro.»
«Ho letto da qualche parte che è sempre stato un Convento di clausura, o sbaglio?» Lo aveva visto sull'opuscolo di "Alfred", in macchina.
«La tua camera è una delle celle usate un tempo, sì. A dire il vero, ogni stanza che affaccia su quel corridoio è stata ricavata dalla zona di clausura.»
«Oh.» Le labbra di Ivy si socchiusero fino a formare una bella "o" tanto infantile, quanto sincera. «È per questo che dormo con la testa contro un vecchio altare?»

Christine ridacchiò. Se Ivette aveva considerato il fatto soddisfacentemente blasfemo, la suora lo trovò addirittura divertente.

«L'unico conforto che possiamo avere è quello di sapere che niente è più consacrato là dentro da tempo immemore. Anche se presumo per te non sia un problema. La Madre Superiora mi ha detto che non sei di fede Cattolica.»
«Sono atea» specificò Ivy. «Ma ho visto abbastanza film di paura da sentirmi a disagio.» Le strizzò l'occhio e Christine rise.
«Avanti, abbiamo oziato abbastanza! È ora che ti porti dalla Madre superiora per l'assegnazione dei tuoi compiti e poi sarai libera.»
«Libera?»

Era una parola che le faceva paura, perché prometteva un qualcosa a cui Ivy aveva sempre ambito senza mai davvero poterlo raggiungere.

«Di girovagare per il Convento fino a domenica, quantomeno. Inizierai a lavorare da lunedì.» Christine le rivolse un sorriso compassionevole, qualcosa di molto caritatevole e altrettanto poco religioso. Per un attimo forse esitò all'idea di offrirle davvero supporto ma, alla fine, come chiunque altro si alzò in piedi e preferì istruirla su come avrebbe dovuto vivere, piuttosto che offrirsi di comprendere le sue necessità. «Mi dispiace, Ivette. Ricorda solo che non sei sola. Puoi non credere in Lui, ma il Suo amore veglierà sempre su te.»

Le labbra di Ivy si tesero in un sorriso sarcastico che, in qualche modo, ferì Christine. Le dispiacque, in un certo verso. Alla fine, quella suora era stata quanto di più sincero e onesto avesse incontrato negli ultimi tempi e tolta l'ipocrisia della fede di cui si vestiva e di cui beneficiava – e che si guardava bene dall'onorare come avrebbe dovuto – le pareva essere una brava persona.

«Scusami, Christine. Non volevo essere scortese. Mi è solo difficile crederci, tutto qua.»
La suora acconsentì. Le rivolse un sorriso materno e si avviò a passo stanco per il chiostro interno senza aspettare che Ivy la seguisse. «È faticoso camminare quando si porta sulle spalle dei carichi tanto pesanti, piccola mia. Dovrai scegliere, prima o poi.»
«Che cosa?»
«Se lasciarli a terra e proseguire il cammino dimenticandoli, o se portarli per sempre con te, abituandoti al loro peso.»
«Dici che rinnegare il passato sia l'unica via per un futuro felice?»

«No, assolutamente.» Christine si fermò e, sotto il sole cocente, lanciò un'occhiata seria alla ragazza. A un tratto, la giovialità della suora scomparve, inghiottita da un cipiglio pensieroso. «Non devi mai dimenticare, Ivette. Ricordare è importante, sempre, ma delle volte dobbiamo comprendere che determinate situazioni non dipendono dalla nostra volontà e che qualsiasi cosa faremo, non potremo mai cambiarle.»

«E dipendono dalla volontà del Signore, immagino.»
«No» mormorò la suora, «da quella del suo figlio prediletto.»

Ivy la guardò di sottecchi. L'aria colma dell'odore dei fiori le pizzicava le narici, evocandole nella mente il ricordo spiacevole del cimitero in cui, dodici anni prima, avevano sepolto quel bambino di cui aveva ormai dimenticato il nome.

"Vieni, Pixie, dammi la mano. Sai, sono molto triste. A casa mi aiuterai a tornare felice?"

Venne assalita da un senso di nausea, accompagnato dalla sensazione opprimente di qualcosa che le premeva contro al petto, proprio sotto lo sterno. Una puntura dolorosa che si incuneava dritta verso il cuore e lo faceva correre all'impazzata.

«Chi, chi sarebbe? L'uomo?» boccheggiò.
Christine la osservò a lungo e poi riprese a camminare. «No, Ivette Marble. Tu sai di chi parlo. Chiunque abbia quel dolore nello sguardo lo sa.»

Sì. Lo sapeva. Forse, lo sapeva più di chiunque altro.

[Continua nella Parte II...]

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