6 - Una visita inaspettata.

Cherry




Mio padre ha avuto bisogno di un po' di tempo per realizzare ciò che avevo confessato. È stato chiuso nel suo studio per qualche ora, con il silenzio a regnare sovrano. Prima di alzarsi dal tavolo si è scusato, scuotendo la testa. Sono rimasta ferma per tutto il resto della serata, aspettando una sua possibile reazione, una sua entrata in camera mia. Avrei accettato tutto: lo sguardo deluso, triste, amareggiato. Tutto. Sarei riuscita a sopportarlo comunque. Avrei pagato qualsiasi prezzo per avere mio padre accanto.

Adesso, però, le lacrime scivolano via veloci dai miei occhi, rigando le guance pallide. Non è venuto a dirmi nulla. Ho sentito, qualche ora fa, i suoi passi pesanti che salivano per le scale di legno, scricchiolavano sotto al suo peso. Rimbombavano grazie al silenzio che aleggiava in casa. Sono riuscita persino a sentire l'interruttore della luce della sua camera scattare, segno che l'aveva spenta. Subito dopo, il tonfo di una porta che sbatte. Nient'altro. Si è chiuso in camera sua e non è venuto da me. Non mi aspettavo nulla, non avevo grandi aspettative. Dopotutto, quale padre potrebbe sorvolare sul fatto che la propria e unica figlia gli abbia potuto mentire su una cosa così complicata? Neanche il più amorevole e comprensivo del mondo ci riuscirebbe così, come se fosse semplice quanto schioccare le dita. Per questo non glie ne faccio una colpa per non essere più riuscito a guardarmi in viso, per non essere riuscito a parlarmi.

Fossi nella sua stessa situazione, non ci riuscirei neanch'io. Mi lascerei da sola a patire le pene dell'inferno, senza nessun sostegno, senza nessuna compassione. Forse è quello che mi merito, dopotutto. Nonostante io mi sforzi per trovare una soluzione, per tentare di ricordare qualche dettaglio in più, la mia mente sembra non voler collaborare. Non riesco a ripercorrere nel dettaglio il susseguirsi delle vicende di quella sera.

Mi stringo nella coperta, tirandola fin sopra al mento. Fuori ha cominciato a piovere, il ticchettio della pioggia che si infrange contro il parapetto riesce a rilassarmi. Socchiudo gli occhi, beandomi di quel rumore lieve. Non avrei bisogno di nient'altro, se non di ricordare. So che oramai è impossibile e che, anche se riuscissi a ricordare qualcosa, sarebbe troppo tardi.

Per Jonathan non c'è più nulla da fare. Anche se potessi fornire qualche dettaglio in più ai detective in merito al suo caso, non potrebbe tornare qui. Non tornerebbe comunque a uscire con i suoi amici, ad andare alle feste, non tornerebbe più a divertirsi come faceva prima. Sarebbe comunque morto. Una fitta di dolore mi assale lo stomaco nel pensare queste cose, ma è la realtà. Non lo rivedrò più, qualsiasi cosa accada. E se lo rivedessi, in qualche modo, magari quando morirò anch'io... Mi odierebbe a morte.

Spalanco gli occhi di scatto quando un tuono interrompe la pace che si era creata dentro di me, facendomi sobbalzare sul letto. Porto una mano sul petto, all'altezza del cuore, lasciando ancora scorrere silenziose le lacrime via dai miei occhi. Lancio una veloce occhiata fuori dalla finestra, il cielo è nero, sfumato solamente da innumerevoli nuvole grigiastre.

I lampioni dalla luce gialla soffusa illuminano lievemente la via di casa mia. Non c'è altro. Questa atmosfera rappresenta nel dettaglio quello che è in questo momento la mia anima. Scura, buia, vuota.

Vorrei poter essere un'altra persona per affrontare questa situazione in un altro modo. Magari, avessi avuto un po' più di coraggio e di buonsenso, a quest'ora i detective sarebbero a conoscenza di qualche misero e minimo dettaglio in più. Sospiro frustrata, alzandomi malamente dal letto per raggiungere il comodino. Apro svogliatamente il cassetto di legno, estraendone una piccola bustina trasparente. La guardo per qualche istante: è da tantissimo tempo che la tengo nascosta qui dentro. Non ho più sentito il bisogno di usarla, fino ad oggi. Allungo la mano per prendere le cartine e un piccolo grinder di metallo che Jonathan mi ha regalato qualche mese fa. Era suo.

Mi sposto velocemente sulla scrivania, adagiando tutto sulla superficie senza pensarci troppo. A cosa servono i pensieri, i rimorsi, in fondo? Solamente a confonderti le idee. A metterti altra merda sopra, come se quella che deve sopportare ognuno di noi ogni giorno non fosse abbastanza. Apro il grinder, non riuscendo a trattenere un sorriso nel vedere in rilievo la raffigurazione di una foglia di Marijuana inebriata di ogni colore. Era appassionato di questi oggetti, ne aveva una collezione incomparabile. Mettendo a tacere i pensieri, inserisco tra i dentini metallici qualche piccola infiorescenza, chiudendo successivamente con il piccolo coperchio e iniziando a produrre giri circolari. In pochi istanti, mi ritrovo a girare tra le dita la cartina, colma di tabacco e Marijuana. La chiudo, leccandone debolmente la colla.

Lascio tutto lì, sulla scrivania e in bella vista, fregandomene. Entrasse mai mio padre, anche se sono sicura del contrario, non mi importerebbe nulla di nasconderle. Per una volta, voglio sentirmi libera. Voglio che questo dolore asfissiante svanisca, per sempre. Con la canna tra le labbra e l'accendino ben stretto nella mano, mi posiziono sul divanetto creato da dei vecchi bancali sotto la finestra. La spalanco, venendo pervasa improvvisamente dal vento freddo e dall'odore inconfondibile di pioggia. Mi ritrovo a guardare il cielo buio mentre accendo la canna, come se volessi dedicarla a lui, dirgli che mi dispiace. Che mi dispiace di non essere stata in grado di fare nulla, che mi dispiace di non poter ricordare quello che gli è accaduto. Lascio uscire il fumo denso dalle mie labbra che si disperde in qualche secondo, scivolando via e venendo assorbito dall'aria gelida, così come la mia anima, sparisce. Rimango lì anche quando finisco di fumare, addormentandomi sul divano con il viso rivolto verso il cielo.



Apro gli occhi quando il sole è già alto nel cielo, ma non sono i raggi di luce che filtrano dalle persiane a svegliarmi, bensì un vociare sommesso e leggero proveniente dal corridoio, come se ci fosse qualcuno appostato davanti alla porta di camera mia. Sbatto le palpebre per abituarmi nuovamente alla luce prima di uscire svogliatamente dalle coperte. Il mal di testa mi impedisce persino di riconoscere le voci che sento e di assegnarle a un volto. Infilo velocemente una felpa per coprirmi le braccia dall'aria fredda che mi investe non appena esco dalle coperte. Alzo i capelli in una coda disfatta prima di spalancare la porta. Ciò che mi ritrovo davanti scatena in me tantissime emozioni diverse e contrastanti. Mio padre, ancora coperto dalla sua immancabile vestaglia azzurrina, sorride beato mentre tiene un sigaro cubano saldo tra i denti e stringe la mano sulla spalla di mio fratello. Aron mostra un sorriso perfetto quando i suoi occhi si posano su di me, ancora sconvolta dalla sua presenza.

È andato via qualche anno fa per proseguire gli studi in una prestigiosa Università spagnola, da quel momento non lo abbiamo più visto se non in video chiamata. Arriccio il naso, appoggiandomi allo stipite della porta. La sua presenza ha sempre causato scompiglio nella nostra famiglia, nel vicinato, ovunque. Perché è tornato proprio adesso e, soprattutto, perché è tornato senza avvertire nessuno? Deduco che neanche mio padre sapesse della sua decisione, dato lo stupore che si può intravedere sul suo viso riposato.

«Ciao, sorellina» annuncia tranquillamente, allungando le braccia verso di me.

Con un sorriso poco convinto mi lascio stringere sul suo petto, cercando di non tossire per il profumo intenso che si è spruzzato addosso. Ha sempre fatto di tutto per attirare l'attenzione, e il mettersi chili di One Million addosso ne è una prova. Incrocio gli occhi di mio padre, pieni di ammirazione e stupore nel rivedere i propri figli abbracciati come se nulla fosse. Tento di sembrare il più naturale possibile quando Aron si stacca da me per estrarre una sigaretta dalla tasca della giacca di pelle.

«Sei cresciuta, uhm? Non ti ricordavo così bella» ridacchia divertito, facendo scuotere la testa a mio padre.

Rimango con la bocca spalancata per qualche secondo. Ultimamente sono diventata più forte, questo è vero, ma l'effetto che lui ha su di me mi destabilizza. Ha sempre fatto di tutto, quando ero più piccola, per farmi sentire inferiore. Probabilmente il suo rancore verso di me è dettato dal fatto che suo padre abbia tradito sua madre con un'altra donna – mia madre. Sorrido comunque, decidendo di sorvolare sulle sue parole. Compio uno strano inchino in segno di ringraziamento.

«Quando sei tornato?» La domanda esce spontanea dalle mie labbra, senza troppi giri di parole.

Aron spalanca gli occhi, preso alla sprovvista. Mio padre invece annuisce, volendo anche lui sapere da quando suo figlio maggiore è tornato in città senza avvertire nessuno. Prendo la sigaretta dalle mani del mio fratellastro, portandomela direttamente alle labbra sotto al suo sguardo allibito. Vorrei dirgli che sono cambiate parecchie cose da quando lui è partito, ma sarebbero parole buttate al vento. Aron non mi ha mai ascoltata veramente. Ha semplicemente sentito le mie parole, senza mai prenderle sul serio.

Probabilmente non ha mai avuto una grande stima per me. Fin da piccoli ha sempre sentito il bisogno di essere migliore di me: voleva andare meglio a scuola, voleva risultare più maturo agli occhi di mio padre, voleva eccellere in tutto, nonostante io lo guardassi con occhi pieni di ammirazione e non di sfida. È solamente di quattro anni più grande di me, ma io lo guardavo come si guarda un esempio da seguire. Era grande, intelligente, intraprendente. Cercavo sempre di instaurare un rapporto più forte di quello che avevamo. Lui, invece, ha sempre cercato di tenersi alla larga da me. Pochissime volte abbiamo avuto una discussione normale come accade tra due fratelli.
Adesso, che me lo ritrovo davanti, mi sento estremamente confusa. Cosa ci fa qui, proprio in questo periodo di merda? Che sia solo una coincidenza?

«Come mai non hai avvertito nessuno del tuo arrivo?» domando ancora quando noto la sua titubanza nel rispondermi.

Mi sorride in modo stranamente gentile, appoggiando una mano sulla spalla di mio padre e una sulla mia.
«Volevo semplicemente farvi una sorpresa» annuncia tranquillamente, guardandomi con occhio storto mentre faccio il primo tiro dalla sigaretta precedentemente rubata a lui.

Mio padre annuisce comprensivo mentre io, d'altra parte, arriccio il naso. Qualcosa non mi convince nei suoi occhi scuri. Sembra ci sia qualcosa di nascosto nelle sue iridi, dietro a quel suo sorriso gentile. Prendo la sigaretta tra le dita e glie la porgo con un veloce movimento che lo sorprende.
Nonostante questo, se la porta subito alle labbra. Aspira il fumo senza guardare più negli occhi nessuno prima di sospirare in modo apparentemente nervoso.
«Comunque, sono qui da qualche settimana. Sono stato a casa di un amico poco distante da qui, fino a oggi. Ho anche sentito di quel povero ragazzo, uhm... Jonathan?» domanda angosciato, scuotendo la testa.
Lo sguardo di mio padre si catapulta su di me, che rimango immobile alle parole di mio fratello. L'uomo annuisce solamente, salvandomi da una possibile crisi isterica, ma non nasconde nessuno dei suoi sguardi preoccupati che mi riserva.

«Che brutta fine...» mormora solamente, senza alzare lo sguardo.
«Be', pranziamo tutti insieme?» annuncia subito dopo e con finta allegria, prendendo a braccetto mio padre e trascinandolo al piano inferiore, senza più degnarmi di uno sguardo.
Rimango lì, immobile, a chiedermi ancora se il suo arrivo è solo una semplice coincidenza.


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