28 - Senza alcuna paura.

Cherry





Guardo l'ora per l'ennesima volta; 18 settembre – 02:17. Sono passati pochi minuti da quando Jonathan è andato al bancone e io non so come passare il tempo per aspettarlo. Questa festa è dannatamente affollata, fin troppo per i miei gusti. Decido di alzarmi per andare a prendere una boccata d'aria perché, ormai, sono più che sicura che Jonathan ci metterà ancora più tempo del previsto a tornare. Scuoto la testa con un piccolo sorriso; è un ragazzo così socievole e amichevole che, quando inizia a parlare, nessuno più riesce a fermarlo. Con ancora un piccolo accenno di sorriso, trovo posto nel retro della casa, su una datata panchina in legno completamente circondata da fiori colorati di ogni tipo. Se non ci fosse la musica sparata a tutto volume nelle casse, il silenzio di questo posto farebbe da padrone in questa meravigliosa notte. Certo, non vivrei mai da sola in questa casa circondata solamente da boschi e, probabilmente, cinghiali e lupi. Non so che fegato ha Collin Brown, il padrone di casa e festeggiato di questa sera, a vivere qui. Sbuffo spazientita.

«Scusami, posso sedermi qui?»

Sobbalzo in modo poco elegante non appena una voce, fin troppo vicina, sopraggiunge alle mie orecchie. Mi volto di scatto, ritrovando davanti a me un ragazzo sconosciuto e vestito completamente di nero. Una bandana gialla è l'unico indumento colorato che indossa. Non riesco a distinguerlo del tutto, data la scarsa luce che raggiunge questo posto, ma riesco a vedere subito il suo sorriso amichevole. Forse complice anche quello, annuisco, facendogli spazio sulla panchina. Il ragazzo si siede subito, allungando la mano verso la tasca per estrarne un accendino. «Tu sei la ragazza di Jonathan, vero?» domanda cordialmente, accendendo velocemente la canna che si porta tra le labbra.

Non mi preoccupo per la sua domanda; Jonathan è talmente conosciuto e amichevole che chiunque lo conosce, così come conoscono le persone con cui gira. Mi è capitato già altre volte che mi ponessero questa domanda, perciò sorrido. «Sì, dai, diciamo di sì»

Il ragazzo si volta verso di me. Non lo vedo, ma percepisco il suo sguardo pesante. «Che intendi?» domanda ancora, lasciando uscire una piccola nube di fumo dalle sue labbra. Scuoto la testa con un piccolo sorriso.

«Non è ancora del tutto ufficiale, sai... è un po' timido, su certe cose» ridacchio spensierata.

Complice forse anche l'alcol, rivelo quest'informazione a un perfetto sconosciuto. Non sarà niente di emozionante ciò che ho detto, comunque non potrà di certo usarlo contro di me: tutti sanno che siamo nel pieno di una specie di relazione, ma che le cose non si sono ancora ufficializzate. Il ragazzo borbotta qualcosa prima di rimanere in religioso silenzio per qualche istante. «Dai, allora non si offenderà se fumi con uno sconosciuto, dico bene?» chiede allegro, infilando nuovamente la mano in tasca.

Pochi attimi dopo, mi ritrovo una canna perfettamente rollata e chiusa ad attendermi davanti al viso. La prendo con piacere, senza troppe cerimonie.

Devo dire che l'alcol mi rende decisamente più coraggiosa.

Passiamo il resto del tempo a fumare tranquillamente, rimanendo in silenzio. Io mi godo l'atmosfera di questa serata, assaporando il gusto dell'erba forse un po' troppo forte per i miei gusti, ma estremamente piacevole. Piacevole, almeno finché una fitta alle tempie mi costringe a chiudere gli occhi. Il ragazzo, senza troppi giri di parole, si alza e mi saluta velocemente, scomparendo subito dopo nel nulla. Mi ritrovo da sola in qualche secondo, con ancora mezza canna tra le mani e la testa dolorante. Decido di buttarla sul ciottolato e di schiacciarla con la punta del piede, sperando di riuscire a sopportare il dolore almeno per la fine della serata.





Apro di scatto gli occhi, in modo disperato. Tutto quello che fuoriesce dalle mie labbra sono urla incontrollate e lamenti colmi di dolore. Le grida sovrastano persino la voce di mio fratello che, con un balzo, si fionda verso di me. Tenta di tenermi ferma come meglio può, appoggiando con forza le mani sulle mie spalle, ma sembra tutto inutile. I miei occhi vagano a destra e a sinistra, alla ricerca di qualcosa, di qualcuno, di informazioni... non lo so neanch'io. Sento ancora quella sensazione addosso, quel misto tra spensieratezza e preoccupazione che ho provato non appena il ragazzo mi ha lasciata da sola. Continuo a urlare, allertando altre persone che, vestite con un camice bianco e guanti in lattice, si catapultano accanto al letto dalle lenzuola bianche su cui sono stesa. Parlano con espressione severa e fredda a mio fratello, non riesco a capire ciò che gli dicono, ma lui ha gli occhi puntati su di me. Rimane a guardarmi con angoscia nello sguardo finché non si volta indietro, uscendo dalla stanza.

Una donna dai capelli ramati e portati a caschetto si avvicina a me, mentre altri due uomini si trattengono in disparte, a pochi passi da lei. Tengono gli occhi puntati su di me come se avessero il timore che possa farle del male.

«Cherry, tranquilla, sei al sicuro qui» mormora la donna, con voce calma e soave, al mio orecchio. Mi vengono i brividi. Eppure, il tono che utilizza per parlarmi riesce, in qualche modo, a far cessare le mie urla. Mi sorride dolcemente, accomodandosi accanto a me e tenendomi per mano.

I battiti sono ancora accelerati e sento caldo, fin troppo caldo, qui dentro. Delle gocce di sudore scivolano velocemente lungo la mia fronte, andando a frantumarsi sul sopracciglio. È come se sentissi tutto amplificato. «Io sono Penelope, la dottoressa che ti ha stabilizzata quando sei arrivata qui. Ti ricordi quello che è successo, Cherry?» parla nuovamente, questa volta con un tono un po' più professionale, pur rimanendo sempre gentile.

Una dottoressa? Ciò vuol dire che sono in ospedale? Per sicurezza, mi guardo intorno, cercando di eliminare dalla mia vista i due scimmioni. Le pareti sono bianche. Le porte sono bianche. Le finestre sono chiuse e, al di fuori, riesco a vedere solo delle misere sbarre di ferro. Abbasso lo sguardo, guardando le lenzuola distese a coprire il mio corpo. Bianche. I sostegni posizionati ai lati del mio letto... bianchi. Che cosa diavolo ci faccio qui?

Scuoto velocemente la testa dopo aver riportato lo sguardo su di lei. Annuisce lentamente, facendo formare una smorfia distratta alle sue labbra mentre mi guarda. Senza aggiungere altro, apre il cassetto accanto a lei, di un comodino che neanche ho avuto il tempo di notare. Ne tira fuori una bottiglietta d'acqua naturale. Mi sorride dolcemente prima di aprirla. «Tieni, avrai sicuramente sete. Ti sei fatta una bella dormita, sai?»

La accetto volentieri, strappandola letteralmente dalle sue mani. Me la porto alle labbra, bevendo in modo bisognoso e violento, come se non ne usufruissi da giorni. I due dottori mi guardano come se fossi un animale selvaggio, con un pizzico di disgusto negli occhi, ma poco mi interessa. Ne sento tremendamente il bisogno. Quando finisco la bottiglietta ne vorrei chiedere ancora, ma non mi oso a farlo. La dottoressa mi toglie il pezzo di plastica ormai vuoto dalle mani, buttandolo nella pattumiera. «Che cosa... che cosa è successo?» domando con fatica e con la voce rotta e sconnessa.

«Uhm, vediamo...» annuncia lei, tornando a sedersi composta sulla sedia. Fa un cenno ai due scimmioni prima di tornare a prestare attenzione unicamente a me. Non appena sente la porta richiudersi, si rilassa. «Hai avuto un attacco di panico, un paio di giorni fa. Sei svenuta davanti a tuo fratello dopo un possibile shock e, da quel momento, hai fatto un lungo periodo di riposo in questa stanza... avevi i livelli troppo sballati per poter recuperare le forze in poco tempo»

Ho smesso di ascoltarla già da tempo perché, come un uragano, i ricordi di quella giornata si sono riversati su di me. Ero con Wesley, in ambulanza. Mi ha detto un nome, un solo e unico nome. Quello... mi ha fatto perdere la testa. Ricordo anche le innumerevoli domande di mio fratello e dell'agente Montgomery. A come io non riuscissi a parlare, a come non trovassi le forze per farlo.

«Perché ti sei svegliata urlando in quel modo, Cherry? Ti dico solo che hai spaventato persino i due medici del reparto Pronto Soccorso, e loro sono duri da smuovere!» annuncia la dottoressa, allargandosi in un meraviglioso sorriso.

Vorrei ridere per ciò che ha detto, ma non ci riesco. Di nuovo, davanti a me ho Jonathan. Il secondo dopo, non c'è più. Ogni volta che sbatto le palpebre, la scena cambia. Ancora, sono seduta da sola sulla panchina. Un'altra volta, vicino a me c'è quel ragazzo dalla bandana gialla. L'ennesima, ci sono io che fumo con lui al mio fianco. Quella dopo ancora, sono sola e con la testa tra le mani.

«Io...» sussurro a fatica, socchiudendo gli occhi.

Se li tengo chiusi non vedo più quelle immagini, mi ripeto nella testa. Ed è proprio quello che faccio, rimango a occhi chiusi. Preferisco non vedere neanche il presente piuttosto che continuare a immergermi nel passato.

«Non devi preoccuparti, non ti giudicherò qualsiasi cosa mi dirai» mi informa dolcemente. Sento qualche cigolio provenire dalla sua sedia, segno che si sta sistemando meglio. Non mi chiede neanche il perché del mio gesto, quello di tenere chiusi gli occhi. Già, probabilmente se lo immagina. È una dottoressa, dopotutto. Avrà capito da tempo che, in me, c'è qualcosa che non va... qualcosa che, irrimediabilmente, si è spezzato.

Trovo la forza di schiudere le labbra. Parlare a occhi chiusi dev'essere più facile. Non vedrò la sua reazione, non vedrò le emozioni che proverà nell'ascoltare ciò che ho da dirle. Non vedrò niente e mi va bene così. «Ho sognato la sera in cui... in cui il mio ragazzo è morto...»

«Oh... okay, Cherry. Mi dispiace tanto, non lo sapevo. Ma purtroppo, è più che normale un avvenimento di questo tipo in determinate situazioni» annuncia con una strana malinconia nella voce, cominciando a muoversi nervosamente sulla sedia. Non la vedo, ma sento tutti i cigolii.

«No, non credo. Io non ricordavo niente di quella sera, non sapevo com'è andata. Ho sognato quello che è successo prima, quello che mi hanno fatto, quello che ho provato... è stato come riviverlo una seconda volta, anche se la prima non me la ricordo. Ho sentito tutto. Mi è rimasta la paura aggrappata addosso anche quando mi sono svegliata...» parlo ancora, per far seguire alcuni istanti di silenzio in cui io continuo a pensare e lei, probabilmente, immagazzina le mie parole.

Improvvisamente, cambia discorso. «Ti fa sentire meglio tenere gli occhi chiusi?»

«Sì», annuisco. «Mi sembra di riuscire a parlare senza avere più alcuna paura»

La sua mano finisce sulla mia nuca, dolcemente. Un gesto che mi fa riaprire gli occhi per guardarla. Mi sorride senza un perché, senza un ma, e non mi chiede più nulla. Rimaniamo in questa posizione per un po', ognuna rinchiusa nei propri pensieri, con il solo vociare dei medici e i rumori dell'ospedale a farci da sottofondo. Almeno, rimane così finché la porta della mia stanza non si spalanca, permettendo l'ingresso ad Andrew Montgomery. I suoi occhi si catapultano su di me, felici e allo stesso tempo sorpresi nel ritrovarmi sveglia. Mi sorride e io cerco di fare lo stesso, probabilmente con scarsi risultati, ma lui non se ne preoccupa.

La dottoressa si alza, salutandoci sottovoce, per poi congedarsi. La porta si chiude per l'ennesima volta. «Come ti senti, Cherry? Hai dormito per qualche giorno, eh?» scherza l'agente, spostando la cintura della divisa per sedersi più comodamente sulla sedia dove, fino a pochi istanti fa, c'era Penelope. Annuisco in risposta, sperando di fargli capire comunque che, di me, non si deve preoccupare... è Wesley la sua, e soprattutto la mia, priorità. Ed è proprio di lui che gli domando, non appena riesco a trovare le forze per farlo.

«Sta bene, adesso. Ha passato qualche giornata difficile ma ne sta uscendo più forte di prima», riesco a sentire la pesantezza anche dal suo tono di voce mentre pronuncia quelle parole. Anche il macigno sopra al mio petto, che fino a questo momento non avevo sentito nella sua forma reale, sembra svanire. Wesley sta bene. Questo è tutto quello che conta. «Posso portarti da lui più tardi, cosa ne dici? Anche perché, sai, almeno fino a prova contraria, non dovrà più passare neanche mezza nottata in carcere» conclude poi, regalandomi un sorriso.

E, finalmente, lo faccio anch'io. Sorrido. Forse è la prima, piccola vittoria che siamo riusciti a collezionare in questa folle battaglia.


Bạn đang đọc truyện trên: AzTruyen.Top