26 - Riuscirò a sostenere anche il loro dolore?

Cherry




Dopo la "chiacchierata" con Anita Jones, ho deciso di tornare a casa mia. Non tanto per un mio volere o un mio bisogno ma per l'implorare imperterrito di mio fratello. Non appena ho messo piede in casa, sono stata travolta dall'uragano che è mio padre: mi ha abbracciata, baciato la fronte, stretto forte come non era mai successo. Ho visto nei suoi occhi che la paura di perdermi era reale. Abbiamo cenato tutti insieme, nonostante io mi sentissi a disagio in casa mia. Aron e mio padre non hanno fatto altro che parlare e sorridere felici del mio ritorno, mentre io sono rimasta per quasi tutto il tempo in silenzio, a parlare con la mia testa, con i miei pensieri. Le parole della Detective mi hanno sconvolta più di quanto già non fossi. Qualcuno era intenzionato a fare fuori Jonathan in modo silenzioso e insospettabile e, a quanto pare, ci è riuscito. Adesso, l'unica cosa da capire, è chi.

Mi ritrovo, alle otto e mezza di sera, a dover fare i conti con la realtà: non sono un'Agente, non sono un' investigatore, non sono nessuno che sia in grado di scoprire quello che è successo... la voglia che ho di fare giustizia, il bisogno che sento di farlo, non basta. Non ho le capacità per potare a termine una cosa grande, immensa come questa. Mio padre entra nella stanza in silenzio, facendomi spaventare. Con un sorriso mi comunica di aver bussato ma, non ricevendo risposta, si è preoccupato. Ero così immersa nei miei pensieri...

«Tesoro... odio dovertelo dire, ma i genitori di Jonathan hanno chiamato a casa e... vorrebbero vederti» annuncia dopo un po', disintegrando l'atmosfera piacevole che si era andata a creare. È successo proprio come un fulmine divide in due il cielo sereno, preannunciando un temporale. Lo guardo negli occhi con timore per un tempo indefinito.

Non posso rifiutare di vederli, dopotutto, sono i genitori del mio ragazzo. O di ciò che era, per quanto valga in questo momento. Annuisco debolmente, sperando di non aver preso la decisione sbagliata. Non sono sicura di essere pronta ad affrontare anche il loro dolore, che sarà immenso, forse più del mio. In qualche modo, sono grata che i loro occhi non abbiano dovuto vedere quelli del loro figlio, senza vita, mentre giaceva inerme sull'asfalto. Per quanto sappia le vite che conducono i coniugi Andrews, so che c'erano dei sentimenti forti quando si trattava di Jonathan, anche se non hanno fatto molti sforzi per darlo a vedere.

Il padre, Samuel Andrews, ha iniziato a drogarsi quando Jonathan aveva solamente tre anni. In città c'è chi dice che la causa è proprio la vita spericolata della moglie, Carol Andrews, donna per cui il divertimento viene prima di tutto. Altri dicono che è nato semplicemente male e che l'unico rimedio per farlo sentire un po' meglio è quello di drogarsi, piantarsi una siringa in vena finché può, finché il suo corpo glie lo concede. Eppure, stanno ancora insieme. Samuel Andrews sa perfettamente ciò che fa la moglie quando scende la sera, come lo sanno tutti quelli che abitano nella piccola e origliante città di Panaca. E, nonostante sapendolo, non riesce a lasciarla. O meglio, non riusciva. Non ha mai avuto il coraggio di farlo perché c'era Jonathan di mezzo, ragazzo che il padre amava più della sua stessa vita.

Forse, adesso che Jonathan non c'è più, riuscirà a trovare il coraggio. Oppure continuerà a sopprimere il dolore che la moglie causa continuamente dentro di lui per farle da appoggio, per aiutarsi a vicenda a superare la terribile perdita, la terribile morte del loro unico figlio. Sospiro profondamente perché ho paura, ho paura di vedere il loro dolore, di sentirlo sopra di me come degli artigli che cercano nuovamente di trascinarmi in quel limbo infinito, fatto di tristezza e disperazione. Le immagini del suo corpo non mi lasciano, ancora adesso, addormentare tranquillamente la notte. Ho sempre bisogno di qualcosa che mi faccia smettere di pensare per un po', qualcosa che mi distragga un minimo. E penso che anche per loro valga la stessa cosa.

Probabilmente Carol Andrews ha intensificato gli appuntamenti notturni con i suoi infiniti spasimanti – quasi tutti gli uomini sposati e accasati, con moglie e figli, della città. Probabilmente li ha anche spostati, andando a trovarli anche di giorno, oltre che quando cala la sera. E probabilmente Samuel Andrews si spara più dosi del dovuto per cercare di placare il dolore, con il rischio di rimanerci secco una volta per tutte. Forse, ha deciso di provare qualcosa di più forte per avere il privilegio di rivedere suo figlio, il suo volto, il suo sorriso... solo per qualche breve istante.

«Papà... riuscirò a sostenere anche il loro dolore?» domando in un sussurro all'uomo che, sentendo le mie parole, sbarra gli occhi preso in contropiede. Con un piccolo sorriso rassicurante si avvicina a me, lasciandomi un bacio sulla tempia in modo dolce, facendomi socchiudere gli occhi. Il suo tocco è delicato ma impaurito, le mani gli tremano mentre cerca di sostenermi. Ha paura che non possa reggere.

«Va' a dormire, bambina mia» sussurra solamente, lasciandomi un'ultima occhiata piena di preoccupazione prima di uscire silenziosamente dalla stanza, chiudendo piano la porta lasciandoci solamente me e le mie paure all'interno.


♠♠♠♠


Mi sono alzata alle prime luci dell'alba. Sapere di dover incontrare i suoi genitori a metà mattinata ha fatto sì che il mio sonno non fosse dei migliori, perciò sono riuscita a chiudere occhio solamente per qualche ora. Erano le sei e mezza quando mi sono rinchiusa in bagno e ho iniziato a riempire la vasca di acqua bollente con qualche goccia di sapone. Erano già le nove e mezza passate quando sono uscita, richiamata dalle urla di mio padre provenienti dal piano inferiore. Ho avuto giusto il tempo di bere una mezza tazzina di caffè, sgranocchiare un biscotto per non rischiare di non avere abbastanza forze per superare la giornata e uscire. Adesso mi ritrovo davanti al condominio dove Jonathan abitava e dove, sì e no, sarò entrata un paio di volte. Non ha mai voluto portarmi troppo spesso in casa sua, aveva paura di farmi vedere le reali condizioni della sua famiglia, anche se io non lo avrei mai giudicato. Quasi tutte le tapparelle sono aperte e il sole vi batte sopra, mettendo in risalto alcuni difetti nel legno pitturato di verde. Alcuni vasi fioriti sono posizionati al di sotto delle finestre e sulle ringhiere dei pochi balconi che ci sono, rendendo un po' più colorato quell'ammasso di intonaco decadente, che sembra spezzarsi al solo passaggio del vento.

Spingo l'immenso portone vetrato dell'entrata, aprendolo con un cigolio sinistro al seguito. L'interno del condominio è esattamente come me lo ricordavo, non è cambiato nulla. C'è lo stesso familiare odore che ho sentito anche le precedenti volte che sono stata qui: minestra. Sorrido al ricordo di Jonathan che ride sguaiatamente nel sentire la mia rivelazione, ovvero che nell'aria c'era odore di minestra. La porta si chiude alle mie spalle sbattendo lievemente, facendomi tornare alla realtà. Ispeziono l'ingresso, le dozzine di buche delle lettere appese sulla parete destra, le immense scale che portano fino al settimo piano del palazzo, l'ascensore al di sopra della prima rampa con una gabbia di metallo a fargli da scudo... diamine, è tutto sempre uguale. Tutto intorno a noi è uguale, solo lui non c'è più. Mi faccio forza, iniziando a salire la prima rampa di quattro che mi aspettano. Jonathan e la sua famiglia hanno sempre vissuto in questo edificio, al quinto piano. Non ho visto molto di casa loro, principalmente stavamo in camera sua o nel piccolo terrazzo che ha avuto la necessità di avere al di fuori della propria stanza. Ricordo che, in un momento di sincerità reciproca, mi ha confessato di aver fatto di tutto, appena diventato adolescente, per far sì che quella camera diventasse sua. Prima era dei suoi genitori. Dopo mesi e mesi di preghiere, è riuscito nel suo intento.

Dopo qualche minuto e un po' di fatica nel respiro, mi ritrovo davanti alla loro porta verde e leggermente ammaccata. Andrews è scritto su una targhetta ovale color oro, posizionata nel centro della porta e sostenuta da un piccolo chiodo non del tutto infilato nel legno. Prendo un respiro profondo prima di premere il campanello sul lato destro, venendo a contatto con la umida e malleabile plastica che lo ricopre. Il cuore batte alla stessa velocità del rumore dei tacchi che sento avvicinarsi velocemente alla porta, finché questa non si spalanca. Carol Andrews mi da il benvenuto con le sue solite vesti perfette e il suo solito sorriso, anche se questa volta risulta molto più spento delle precedenti. Nonostante questo, i capelli castani dai riflessi più chiari incorniciano perfettamente il suo volto abbronzato e risaltano gli occhi verdi che la caratterizzano.

Improvvisamente, e senza preavviso, le sue braccia si stringono al mio corpo con necessità. «Tesoro, pensavo non venissi...» sussurra all'orecchio, la voce malinconica. La stringo a mia volta finché lei alleggerisce il contatto fino a staccarsi completamente. Avrei voluto dirle qualcosa di rassicurante, ma le parole non hanno avuto la forza necessaria a uscire. «Vieni, vieni dentro... Samuel ci aspetta in salotto» annuncia subito dopo, lasciandomi spazio per entrare in casa.

Qui dentro, l'odore di minestra è sparito. Nell'aria c'è solo tanto odore di pulito e di candeggina, come se l'avessero appena passata su tutti i pavimenti e su ogni ripiano della casa. Seguo tremante la mamma di Jonathan, stringendo le maniche della felpa fin troppo grande per me. Sorrido involontariamente nel guardare il tessuto blu notte che fascia il mio corpo; stamattina, aprendo l'armadio, le mie mani hanno afferrato involontariamente questa felpa, quasi come se ne sentissero il bisogno. Era sua.

Non appena entriamo in salotto la luce, che nel corridoio pieno di foto di famiglia era quasi inesistente, illumina perfettamente tutta la stanza. Ci metto poco a individuare Samuel, seduto sulla poltrona posizionata sotto alla finestra abbellita grazie a delle tende giallo tenue. Ha lo sguardo fisso davanti a sé e un bicchiere ben stretto tra le mani; è la prima cosa che appoggia sul tavolino, seguito dal giornale e dal pacchetto di sigarette, non appena mi vede. Ha il viso stanco e la barba di qualche giorno, gli occhi tristi e le labbra strette in una riga solida. Ma si addolcisce un po', solo un po', quando i suoi occhi incontrano i miei. «Cherry...» sussurra sofferente, appoggiandomi una mano sulla spalla. Mi guarda intensamente, ma non mi abbraccia. E, in qualche strano modo, glie ne sono grata.

«Come sta, Samuel?» domando con evidente fatica, tanto che la moglie si avvicina a noi. Le lancio una lunga e intensa occhiata mentre si avvicina al marito, come se la loro relazione fosse stabile e duratura. Mi ripeto in testa di calmarmi, perché non è il momento di pensare a certe cose.

«Io... me la cavo, grazie. Ma tu, piuttosto, come ti senti? Non immagino il tuo dolore...» pronuncia affranto, facendomi inarcare un sopracciglio. Certo, non mi aspettavo un'affermazione simile. So di averlo trovato io, ma... perché incentrare l'attenzione su di me? Io sono qui per loro.

La colazione passa in maniera silenziosa, quasi come se l'atmosfera fosse colma di disagio. Di certo non è stato facile starmene seduta a tavola mentre, esattamente sul mobile davanti a me, vi erano innumerevoli foto ritraenti Jonathan in qualsiasi momento della sua vita; da piccolo e con ancora il pannolino, con il primo pesce pescato, con la piccola coppa del campionato di basket, vestito in giacca e cravatta... no, non è stato affatto facile, almeno non dopo aver visto quelle dannate foto. Per il resto, i suoi genitori non hanno fatto altri commenti su di lui, come se non se la sentissero e, be', non li biasimo. Abbiamo parlato principalmente della mia famiglia e delle solite cose noiose che succedono in città, finché la madre di Jonathan, intenta a sciacquare i piatti e i bicchieri usati, non fa una strana dichiarazione.

«Oh, meno male che l'altro giorno quel ragazzo ci ha portato la spesa! Altrimenti, che cosa ti avrei offerto, oggi? Che sbadata...» annuncia con un sorriso imbarazzato, prima di indicarmi il frigo. Con un sopracciglio inarcato, mi avvicino ad esso per tirar fuori un succo d'arancia. Sento Carol, alle mie spalle, sospirare. «Non ho sbagliato, vero? Mi sembra che Jonathan dicesse sempre che era il tuo preferito...» borbotta subito dopo, facendomi saltare qualche battito.

Non so se essere più sconvolta del fatto che si ricordi ciò che il figlio le diceva, oppure per l'affermazione di poco prima. Perciò, armata di pazienza, mi avvicino a lei con un bicchiere colmo di succo, cercando altre informazioni sul ragazzo che si è offerto di aiutarli. C'è qualcosa che non mi torna... nessuno ha mai aiutato questa famiglia, un po' per la loro reputazione, un po' perché tutti si fanno gli affari propri. Annuisco alla sua precedente domanda mentre lei, con un piccolo sorriso, sospira ancora.

«Carol, ma... chi era il ragazzo? Un amico di Jonathan?» domando con la voce leggermente tremante, non riuscendo a contenere la curiosità. La donna sembra pensarci su per un po', come se non ne fosse sicura, e questo suo comportamento mi mette ancor di più in allarme... finché, finalmente, mi da una risposta scuotendo la testa.

«No, sai, non credo. Quando... quando Jonathan era vivo, non l'ho mai visto insieme a questo ragazzo. Ah, accidenti... non mi ricordo proprio come si chiama, però...» borbotta, facendo una piccola pausa. Lancia un'occhiata in salotto, dove Samuel si è addormentato subito dopo aver fatto colazione insieme a noi e dove la televisione sta trasmettendo ad alto volume il notiziario mattutino. «Sì, ecco! Quando si è presentato a casa, chiedendo se avessimo bisogno di aiuto, mi sono spaventata. Eh, insomma... ho visto questo ragazzotto con i capelli rossi, non mi era mai capitato prima...» conclude infine.

Per poco, il bicchiere mi scivola dalle mani. Joan? Che diavolo è venuto a fare, qui? Conosceva poco e niente Jonathan, non ha motivo di aiutare la sua famiglia, adesso. A meno che...

Dopo qualche minuto, riesco ad andarmene da casa Andrews senza che Carol ci rimanga troppo male. Cammino a passo svelto verso casa mia dove spero ci sia ancora mio fratello. Con il cuore in gola e mille domande in testa, non riesco ancora a capire cosa Joan volesse dalla famiglia di Jonathan.



Bạn đang đọc truyện trên: AzTruyen.Top