7. Clangore di spade
A carponi mi dirigo verso l'entrata della grotta, stando attenta a non fare movimenti bruschi per non spaventare il lupo. Lo osservo con la coda dell'occhio, non fidandomi completamente a voltargli le spalle nonostante sembri innocuo, ma lui resta fermo dov'è, anche se i suoi grandi occhi gialli mi seguono come un'ombra e li sento bruciare sulla pelle.
Con circospezione mi affaccio sul mondo fuori e una ventata fredda mista a neve mi schiaffeggia il viso con violenza e mi obbliga ad arretrare. Cercando di proteggermi gli occhi con la mano per non farli lacrimare, tento di distinguere qualcosa attraverso la cortina di fiocchi bianchi che cadono sempre più fitti, ma è come avere un muro ad appena un paio di braccia da dove mi trovo.
Mi volto indietro a guardare nella grotta, verso quelle pareti piene di spifferi che ora mi appaiono tanto calde e accoglienti. Faccio un respiro profondo, perché tanto lo so di non avere scelta: lo scorrere del tempo incombe minaccioso e ogni istante perso è un passo che mi allontana sempre più da Alveus. Per questo mi faccio coraggio e raccolgo le mie cose, imprecando sottovoce ogni volta che le dita ustionate sfiorano il tessuto dei fagotti; poi, prima di uscire, mi immobilizzo davanti al lupo ed esito un attimo, non sapendo come salutarlo. Allungo con cautela la mano sana verso di lui e, dopo aver avuto il suo silenzioso permesso, azzardo una carezza sulla testa dell'animale. Al mio gesto lui spalanca i grandi occhi gialli che assumono d'un tratto un'espressione che potrei quasi definire dolce. Quando mi alzo e me ne vado, lui mi segue con lo sguardo e mi lascia uscire senza emettere nemmeno un suono.
Il vento fuori è tanto forte da sballottarmi di qua e di là ad ogni passo, facilitato anche dal fatto che mi reggo in piedi a fatica a cause dalle ferite; poi, come se non bastasse, con le sue spire gelide si insinua sotto la gonna leggera e mi congela la pelle. I fiocchi di neve mi pungono gli occhi, ma è così freddo che le lacrime congelano prima ancora di poter scorrere sul viso.
Stranamente però tutto è silenzioso, tanto da essere innaturale: non sento il sibilo del vento tra le rocce o l'urlo delle raffiche di neve che il cielo mi vomita addosso. Per questo, quando d'improvviso si levano ancora gli stridii metallici che avevo sentito prima, mi spavento così tanto da perdere l'equilibrio, permettendo così al vento di scaraventarmi contro una roccia. Una fitta si irradia dalla spalla destra fino al cervello, annebbiandomi la mente per un momento.
—Maledetti fiumi! — mormoro a denti stretti, mentre mi massaggio il punto infortunato e resto in ascolto. Adesso i rumori sembrano venire proprio da dietro il masso a cui sono appoggiata. Strisciando sulla pietra come una lucertola, mi sporgo con cautela nel tentativo di scorgere qualcosa al di là senza però essere vista.
Attraverso la neve riesco a distinguere delle ombre basse e disarmoniche, tre forse, che saltellano in una macabra coreografia intorno a qualcosa di grosso steso al suolo. Dei suoni gutturali che mi ricordano i grugniti dei cinghiali provengono presumibilmente dalle loro bocche e io non riesco a capire cosa siano o cosa stiano facendo. Poi uno di questi piccoli mostri si ferma, solleva in aria quelli che sembrano essere due coltelli e, dopo averli fatti stridere uno contro l'altro, si avventa sulla cosa in terra facendola a pezzi. Gli altri, sempre saltellando e grugnendo, raccolgono i pezzi gocciolanti e li infilano in una sacca enorme. Un odore ferroso e dolciastro raggiunge le mie narici, causandomi un conato di vomito.
Ci metto solo un attimo a capire che loro non sono la compagnia che cerco e che farei meglio ad andarmene subito. Mi volto, cercando di fare meno rumore possibile, e lancio un urlo.
Un quarto mostro è proprio davanti a me, in piedi su una roccia, con uno squarcio simile a un sorriso aperto sul volto verdastro e un coltello sollevato sopra la mia testa. Grugnisce e una zaffata di alito acre e macilento mi investe il naso, facendo fare le capriole al mio stomaco vuoto.
Una sensazione di terrore mi invade, paralizzandomi, ma non appena lui fa per avvicinarsi rientro in possesso del mio corpo. Cerco di allontanarlo con un calcio, ma lui è più forte di quanto la sua esile corporatura lasci intendere e non lo smuovo nemmeno di un palmo, mentre lancio un grido per le fitte di dolore che si dipartono dalla pianta del mio piede ferito. La cosa pare non fargli piacere perché il suo sorriso si chiude di scatto e, con gli occhi stretti e neri fissi su di me, mi salta addosso brandendo alta la sua arma.
La sento fischiare nell'aria mentre mi chiudo a riccio, schiacciata contro la roccia che mi impedisce di scappare. Il mostro cade sulle mie braccia alzate a proteggere la testa, spingendomi ancora di più contro il masso. Sento la lama baciare fredda la pelle dei miei avambracci mentre cerco di scrollarmelo di dosso, ma nonostante i miei sforzi lui rimane avvinghiato alla mia testa, artigliandomi i capelli con le unghie per non perdere la sua posizione.
Non so combattere, quella della guerra è un'arte che alle ninfe non viene insegnata. Mi chiedo perché la Comunità della Polla sia così stupida da pensare che, siccome noi siamo esseri pacifici, lo siano per forza anche tutte le creature con cui veniamo in contatto.
Ho paura, una paura folle, come forse non ne ho mai avute. Il cuore batte a un ritmo forsennato, come se avessi un colibrì in volo dentro al petto, e mi ottunde i sensi rendendomi cieca e sorda. L'acqua che mi cola dal braccio mi bagna il viso come se si trattasse di lacrime, ma io non sto piangendo.
Non posso morire.
Non devo morire, perdere la vita qui all'inferno non è contemplato.
Con uno scatto afferro l'essere e cerco di staccarlo tirandolo con violenza, ma lui conficca più a fondo le unghie nel mio cuoio capelluto. Lacrime di dolore e disperazione straripano dai miei occhi e mi si congelano sulla faccia mentre gli artigli del mostro mi graffiano la testa. All'improvviso sento qualcosa cadermi sulla schiena, mentre altri grugniti si alzano intorno a me come se fossero risate. Mi agito, muovendomi senza nessuna logica e sperando solo che quegli esseri perdano la presa. Una lama mi affonda nella spalla e non riesco a trattenere un urlo.
Sono troppi e troppo forti, le mie esili e delicate braccia non possono nulla contro la loro abilità o contro le loro armi. Stupida, inutile ed eterea ninfa! Se almeno potessi usare la magia, se solo potessi avere un potere da sfoderare come una spada e con cui farmi valere, e invece non ho niente, niente! Sono patetica. Patetica e destinata a essere sconfitta.
Poi d'un tratto il mostro attaccato alla schiena mi viene strappato via con violenza e gli altri cominciano a lanciare strilli disarmonici e disordinati, che mi penetrano nella mente facendosi strada tra i miei pensieri sconclusionati. Quello sulla mia testa molla la presa e, tra il velo di lacrime, lo vedo indietreggiare con un'espressione che sembra... spaventata?
Prima che possa chiedermi cosa stia accadendo, un'ombra nera come la notte gli salta addosso con un ringhio basso e profondo. Per un istante tutto resta immobile, come congelato nel tempo; poi gli altri esseri saltano tutti insieme sul dorso di quello che finalmente riconosco essere il lupo.
Il lupo.
Il lupo è venuto a salvarmi.
Senza riuscire a muovermi osservo quei mostri balzargli addosso e mi rendo conto che sono molti più di quanti mi erano parsi in un primo momento. Gli artigliano la schiena e l'animale ulula di dolore; il suono si riflette sulle rocce che ci circondano come se anche le pietre stessero soffrendo con lui.
Sono troppi anche per un animale così possente, non riuscirà mai a vincere da solo. Devo fare qualcosa, qualunque cosa che possa essergli d'aiuto e che possa salvarlo, anzi, salvarci. Se muore lui, muoio anch'io, è un dato di fatto, e non posso permettermelo. Mi alzo in piedi, raccolgo un sasso e lo faccio saltellare sulla mano, soppesandolo. Mi hanno sempre detto che ho una buona mira. Spero sia vero.
Sto per lanciare la pietra quando qualcosa di scuro vola sopra la mia testa, atterrando accucciato davanti a me e facendomi fare un balzo indietro per lo spavento. Assottiglio gli occhi, cercando di vedere meglio attraverso il nevischio pungente, e distinguo la figura di un uomo coperto da un ampio mantello grigio che schiocca mosso dal vento gelido. Si rialza con la stessa leggerezza con cui è atterrato e, con un movimento fluido, estrae una spada lucente dal fodero attaccato alla cintura.
In un paio di passi raggiunge il lupo e con una sola e precisa mossa della sua arma mette fuori combattimento il primo dei mostri, che si accascia al suolo mentre con le mani si copre la faccia. Tra le sue dita nodose e ricurve scorre copioso un sangue scuro e denso, che gli cola lungo le braccia per poi gocciolare sulla neve smossa e calpestata, che lo assorbe come se fosse affamata di morte. Non appena la creatura tocca terra, l'uomo la trafigge di punta con la spada e poi, estratta la lama, fa un rapido mezzo giro su se stesso, parando all'ultimo momento il colpo che un altro mostro stava per infliggergli alle spalle.
Arretra di un passo, allontanandosi dal nemico, e con eleganza si china a raccogliere il coltello della creatura che ha appena ucciso. Usa quella lama più corta per bloccare un secondo attacco del mostro, poi lo disarma con una veloce rotazione del braccio mentre con l'altra mano abbassa la spada, squarciando il petto del nemico.
La presenza del guerriero sembra rinvigorire il lupo, che con un movimento deciso si scrolla di dosso i pochi mostri che ancora gli artigliano la schiena e si unisce alla danza mortale dell'uomo, creando un perfetto passo a due. Quando uno arretra destabilizzando i nemici, l'altro pronto li colpisce a tradimento; quando uno si trova con un punto scoperto, l'altro subito si sposta in modo da coprirlo. Tutti i loro colpi vanno a segno, e ogni loro gesto è tanto pulito ed elegante da farli sembrare nati per combattere, come se nella vita non avessero mai fatto altro. Attaccano e si difendono, muovendosi con una sincronia tale da parere uno il completamento dell'altro.
Lo stridore del metallo contro il metallo copre qualsiasi altro suono e mi penetra nel cervello facendomi rabbrividire, mentre l'odore dolciastro del sangue si fa sempre più intenso e insopportabile.
Ogni tanto il lupo ha uno sbandamento dovuto alla ferita sulla zampa, ma subito l'uomo rimedia ai suoi errori con una scioltezza che fa sembrare la spada un prolungamento del suo braccio, come se carne e acciaio si fondessero insieme all'altezza della mano in una sorta di ibrido fra creatura vivente e macchina da guerra. È scattante e letale, tanto da parere lui stesso un'arma, e mi chiedo se nelle sue vene scorra fuoco o metallo fuso al posto del sangue.
La coordinazione dei loro gesti e l'incastro perfetto dei loro colpi li rendono un avversario troppo forte per i mostri, soprattutto ora che quelli vivi si contano sulle dita di una mano; evidentemente se ne rendono conto anche loro perché all'improvviso arretrano e si danno alla fuga il più in fretta possibile.
Trattengo il fiato finché non li vedo sparire oltre la nebbia e la neve che cade rabbiosa, e solo a quel punto mi concedo di tirare un sospiro di sollievo, lasciando cadere per terra la pietra che ancora avevo in mano. Mi giro nella direzione dell'uomo e sto per aprire bocca, non so neanche io per dire cosa, quando lui si volta verso di me con uno scatto affilato, brandendo alta la sua spada, e mi attacca.
Sono talmente colta di sorpresa che non riesco nemmeno a urlare. Alzo le mani come a voler parare il colpo e sento la lama che mi incide senza pietà la pelle morbida dei palmi facendomi esplodere un dolore bianco nel cervello, finché d'un tratto vengo scaraventata brutalmente in terra. Mi tiro a sedere e davanti ai miei occhi c'è il lupo che mi volta le spalle e ringhia contro l'uomo, proteggendomi dalla sua spada.
— Gordost — dice l'uomo, socchiudendo a fessura i suoi occhi grigi e freddi come il metallo di cui è fatta la sua arma. — Cosa stai facendo?
La sua voce è bassa e sporca, deformata da uno strano accento che rende spezzate le frasi, e risuona ruvida nelle mie orecchie. I due contendenti restano in stallo per un attimo che mi pare infinito, il lupo con i denti scoperti e l'uomo con la spada alta sopra la testa. Durante il combattimento il cappuccio gli è scivolato dalla testa e ora i suoi corti capelli color del fango vengono spostati a destra e a sinistra dalle raffiche di vento. Poi l'uomo abbassa lo sguardo sulla zampa fasciata del lupo e sibila: — Ah, capisco.
Con un movimento deciso rimette la spada nel fodero appeso alla cintura e poi sposta gli occhi su di me. Un brivido mi attraversa il corpo e mi stringo le braccia al petto. I suoi occhi bruciano nei miei, ma non riesco ad abbassare lo sguardo.
— Grazie — dice d'un tratto e io sono talmente allibita che non so cosa rispondere. Lui, che ha appena tentato di uccidermi dopo avermi salvata, mi ringrazia?
— Per aver aiutato Gordost — specifica, forse notando la mia confusione. — Ehi, bello, — aggiunge poi, accarezzando con la sua mano squadrata e piena di cicatrici la testa del lupo. — Si può sapere dov'eri finito?
L'animale, Gordost, uggiola come se si vergognasse di essere sparito tanto a lungo e poi allunga il muso verso l'uomo per ricevere più carezze.
— Tu... hai cercato di uccidermi — è la prima cosa che riesco a dire quando riacquisto la parola.
— Ah, allora parli la mia lingua. Temevo che non avessi capito nulla di quello che ho detto.
— Hai cercato di uccidermi — ripeto più decisa.
— Sì — conferma lui con tranquillità, come se fosse la cosa più naturale del mondo.
— E allora perché prima mi hai aiutata?
— Stavo aiutando Gordost, non te — spiega e mi pare talmente ovvio che non capisco come abbia fatto a non pensarci prima. Lui si inginocchia davanti a me nella neve sporca di sangue e mi prende il polso destro, facendomi allungare il braccio e girandolo per esaminarlo meglio. Cerco di liberarmi dalla sua presa, ma la mano con cui mi stringe è troppo forte perché io possa sperare di avere la meglio.
— Lasciami!
— Sta' ferma.
— Cosa stai facendo?
— Cerco di capire quanto siano gravi le ferite.
— Anche quelle che mi hai inferto tu?
La mia vuole essere una provocazione, ma lui non pare coglierla. O forse non gli interessa. In ogni caso mi immobilizzo per permettergli di finire la sua analisi.
— Non trascurabili, ma se trattate con cura guariranno senza problemi — afferma lasciandomi il braccio e afferrandomi l'altro. Non appena lo allungo davanti a me, una fitta mi attraversa la spalla e non riesco a trattenere un gemito. Lui si sporge per esaminare anche la ferita causata dal coltello del mostro che mi stava sulla schiena.
— Questa invece è parecchio brutta.
— E perché ora mi stai aiutando invece? — gli domando, diffidente.
— Te l'ho già detto, perché tu ti sei presa cura di Gordost.
Lo guardo scettica. — Quindi non tenterai più di uccidermi?
— No.
Restiamo un attimo in silenzio mentre lui finisce di analizzare il braccio sinistro.
— E perché volevi uccidermi? Ti sono sembrata particolarmente pericolosa?
Lui mi guarda come se avessi detto un'assurdità. — Pericolosa? Certo che no. Volevo mangiarti.
— Volevi cosa? — urlo disgustata e allibita, ritirando di scatto il braccio dalla sua presa, gesto che mi causa stille di dolore alla spalla, e allontanandomi il più possibile da lui. L'uomo sorride, guardandomi con tenerezza.
— Sei appena arrivata, vero? Cosa pensi che mangi qui la gente? La frutta degli alberi che non crescono o la selvaggina che non c'è? L'unica cosa che trovi all'inferno sono gli altri prigionieri — lo dice deciso, come se fosse una verità inoppugnabile. Se c'è stato un tempo in cui questa cosa lo ha disgustato ora di quelle emozioni non è rimasto nulla. Ma io non posso non pensare che quest'uomo, che mi assomiglia così tanto e che parla persino la mia lingua, voleva mangiarmi.
— Cannibalismo — sussurro a denti stretti.
— Vedila così: se tu non mangi gli altri, gli altri mangeranno te.
Detto questo si alza e si dirige verso le creature verdi che ha ucciso poco fa, legandole tutte insieme per i piedi con una fune che si srotola dalla vita. Con un moto di disgusto immagino voglia mangiarsi pure loro. Preferisco non chiedere.
— Andiamo — esclama dopo essersi caricato il bottino sulle spalle. Il lupo si mette subito al suo fianco e poi si volta a fissarmi carico di aspettative.
— Tu non vieni, ninfa? — mi chiede l'uomo notando che non mi sono mossa. Sinceramente non ho nessuna voglia di andarmene in giro con un cannibale, ma quanto meno è armato e abile con la spada, caratteristiche che fanno di lui un alleato non disprezzabile. Inoltre sembra intenzionato a non mangiarmi, a differenza delle altre creature che potrei incontrare, se mi devo fidare delle sue parole. In realtà probabilmente ha ragione perché quei piccoli mostri verdi sembravano proprio intenzionati a fare di me la loro cena.
Dopotutto questo strano uomo potrebbe essere la mia salvezza.
Mi alzo con fatica in piedi e il mio viso si accartoccia in una smorfia di dolore. Nell'emozione del momento mi ero dimenticata dei miei piedi martoriati, che arriccio sul suolo gelato. Lui, che mi stava fissando, fa scivolare lo sguardo sul mio corpo, dalla testa fino al terreno.
— Siediti — dice poi deciso. Il suo più che un invito sembra un ordine e non posso fare a meno di assecondarlo. Si avvicina e mi esamina le piante dei piedi. La cosa mi mette parecchio a disagio, come se stesse sbirciando di nascosto nella mia camera in un momento di vita privata. Deglutisco, cercando di non darlo a vedere.
Lo osservo durante la sua analisi meticolosa e la possibilità che abbia incontrato Alveus si affaccia alla mia mente, subito seguita dall'orribile dubbio che potrebbe anche esserselo mangiato.
— Hai incontrato un'altra ninfa, recentemente? — gli domando in tutta fretta, con l'ansia che mi stringe la gola.
— No — risponde lui lapidario, senza spostare lo sguardo, e io non so se sentirmi triste o sollevata.
Finita l'analisi, l'uomo estrae dei pezzi di stoffa da una bisaccia fissata in vita e comincia a legarli stretti intorno ai miei piedi creando delle specie di scarpe. Durante tutta l'operazione mantiene un'espressione seria e concentrata, resa dura dai tratti del viso grezzi e spigolosi, che paiono scolpiti nella pietra da una mano inesperta. Una cicatrice gli attraversa il labbro superiore che lui si morde più volte in maniera inconsapevole.
— Fatto — afferma infine alzandosi. Con circospezione mi metto anch'io in piedi e sposto il peso da una gamba all'altra per saggiare i miei nuovi calzari. La pressione della terra sulla parte lesa mi crea ancora delle fitte, ma quantomeno non dovrebbero più infiltrarsi impurità nelle ferite. Alzo lo sguardo su di lui: ora che siamo uno di fronte all'altro mi accorgo che è più basso di quanto mi era parso, a occhio direi che lo supero in altezza di almeno un paio di dita.
— Grazie — sussurro, e la parola suona strana sulle mie labbra. In un attimo mi rendo conto che nella mia vita ho ringraziato ben poca gente. Nessuno, che io ricordi. Questa consapevolezza mi colpisce più di quanto io sia disposta ad ammettere.
— Ora possiamo andare. — La voce roca dell'uomo mi distoglie dai miei pensieri.
— Dove?
— A casa mia.
Sento le mie sopracciglia alzarsi in un'espressione stupita. Mi chiedo da quanto tempo sia qui all'inferno se è addirittura riuscito a crearsi una dimora che sente tanto sua da poterla chiamare "casa".
Bạn đang đọc truyện trên: AzTruyen.Top