6. Spifferi e ululati
Perfetto, a quanto pare non ho alcun modo di tornare indietro. L'inferno non dà seconde possibilità.
Torno a guardare il paesaggio che ho davanti e, in un attimo, tutta l'eccitazione che avevo provato per essere riuscita a trovare una via di fuga da quel deserto viene spazzata via come una foglia secca in balia del vento. Il panorama è cambiato, ma la mia condizione rimane sempre la stessa: non ho idea di cosa debba fare.
Come posso trovare Alveus in questo niente dalle molteplici forme? Devo mettermi a cercare un'altra porta, forse. Sì, ma poi? Andrò avanti a cercare ingressi per l'eternità? Non vorrei mai ammetterlo, ma comincio a sentirmi abbastanza scoraggiata.
Cerco di fare un passo, ma le gambe sono stanche e cedono sotto il mio peso, facendomi cadere in modo sgraziato. Mi ritrovo seduta in terra sulla pietra coperta di neve e provo un'improvvisa voglia di piangere, per la stizza e per l'impotenza. Aranea aveva ragione, è impossibile uscire vivi dall'inferno; avrei dovuto fidarmi di lei e rimanere a casa a farmi consolare da mia madre, cercando di accettare il fatto che Alveus è sparito per sempre. Quest'ultima considerazione mi attraversa il cervello per finire con una fitta nel cuore e mi ricorda ancora una volta perché sono qui e non posso arrendermi.
Anche se non è quello che vorrei ho bisogno di riposarmi, di trovare un posto coperto e dormire un po'. Concentro tutte le energie che mi restano nel tentativo di alzarmi e fare gli ultimi passi che mi porteranno a un luogo più sicuro del sentiero dove mi trovo. Probabilmente potrei anche fermarmi dove sono e dormire qui, tanto in giro non c'è nessuno, ma, sarà per colpa dell'abitudine, non mi fido assolutamente a rimanere indifesa in modo così evidente e sotto gli occhi di qualunque possibile passante.
Cammino tra i massi spruzzati di neve finché non scorgo un pertugio alla mia sinistra, una spaccatura in una parete rocciosa che pare fare proprio al caso mio. Se fossi stata nella foresta intorno a casa mi sarei preoccupata di controllare che non fosse la tana di qualche animale, ma ora sinceramente mi stupirei di trovare un'altra anima che cammina come me in questo inferno. Comincio a credere di esserci soltanto io.
Striscio dentro la stretta apertura e faccio appena in tempo a poggiare in terra i miei bagagli che cado subito addormentata.
Una parte di me temeva che, chiudendo gli occhi, sarei nuovamente rimasta invischiata in qualche dolcissimo ricordo, ma devo subito ricredermi. A essere sincera la scena che si palesa dietro le mie palpebre chiuse è ancora una reminiscenza del passato, ma bastano poche immagini per farmi capire che è tutt'altro che piacevole.
Sono nella mia camera, seduta a gambe incrociate sul letto, mentre tento di legarmi i capelli in una treccia. Le braccia mi fanno male perché sono alzate da un sacco di tempo, evidentemente non riesco ad acconciarmi in una maniera che mi soddisfi. All'improvviso qualcuno bussa alla porta, che si socchiude prima che io faccia in tempo ad aprir bocca, e da dietro di essa spunta una Iris di circa undici primavere, raggiante.
— Ci sei, Lym? Stiamo aspettando tutti te — mi dice entrando nella stanza. La osservo da sotto in su, cercando di vedere qualcosa tra le ciocche che mi piovono davanti al viso. Il vestito leggero che indossa le svolazza intorno alle caviglie assecondando ogni suo movimento, mentre i capelli sono elegantemente arrotolati intorno al capo a formare una corona di trecce che le lascia scoperte le orecchie a punta.
Gli occhi mi si stringono a una fessura mentre continuo a fissarla, invidiosa. Un tempo usavamo pettinarci a vicenda, intrecciando l'una i capelli dell'altra, finché un giorno non ho deciso che basta, da quel momento in poi avrei fatto da sola, scoprendo poi con orrore che sapere pettinare un'altra persona non vuole affatto dire essere anche in grado di pettinare se stessi. Il risultato è stato che per un certo periodo eravamo entrambe acconciate in modo orrendo.
Poi, ovviamente, mia sorella ha trovato una soluzione alternativa. Nessuno di noi aveva mai pensato che gli animali si sarebbero abbassati a fare un lavoro del genere, ma in fondo nemmeno loro sanno dire di no a una richiesta se a farla è l'adorabile Iris. È stato così che abbiamo scoperto che gli scoiattoli del bosco sono dei parrucchieri provetti, capaci di intrecciare i capelli in maniera sempre nuova e delicata, adatta al viso dolce della mia gemella. Cosicché ora la testa di Iris è perfetta, mentre la mia sembra sia stata attraversata da un branco di cerbiatti in fuga.
Lei mi fissa a sua volta e il suo sguardo si corruccia in un'espressione preoccupata. — Sei sicura che non ti serve una mano? Se vuoi te la faccio io, la treccia — osa chiedermi dopo un attimo di esitazione.
— No, va benissimo così com'è — le rispondo stizzita, legando i capelli con un elastico e puntando i miei occhi nei suoi, come sfidandola a dire qualcosa di negativo sulla mia pettinatura. In realtà io stessa sento che i capelli pendono molto più a destra che a sinistra, sintomo che devono essere alquanto storti, ma preferirei farmi tagliare una mano piuttosto che ammettere che ho bisogno del suo aiuto.
— Va bene, quindi ora sei pronta? Possiamo andare?
— Per tutti i fiumi, che fretta c'è?
— Non è bello arrivare in ritardo alla festa, magari poi Alveus si offende.
— Ci sarà così tanta gente che nemmeno si accorgerà se ci siamo o meno.
I suoi occhi si spalancano, come se avessi detto un'assurdità. — Lym, non essere sciocca, Alveus è una persona estremamente sensibile e attenta.
— Estremamente stupida e insulsa, volevi dire.
— Non ti permetto di insultarlo così! — esclama, mettendosi le mani sui fianchi.
— Eddai, Iris, lo sai anche tu che crede a qualunque cosa gli si dica. Questa è stupidità.
— Non è vero, è solo troppo buono per pensare che la gente possa prenderlo in giro così, gratuitamente.
— Stupidità — ripeto tra me e me mentre scendo le scale con mia sorella alle calcagna.
Non dico più niente per tutta la durata del viaggio tra la nostra casa e quella di Alveus, tanto ci pensa Iris a intrattenere i nostri genitori raccontando loro qualche aneddoto divertente sui picchi che vivono nell'albero di fronte al nostro. Trascino i piedi nell'erba fresca restando qualche passo dietro di loro, mentre la mia gemella saltella tra mamma e papà, senza smettere di sorridere nemmeno un attimo.
Non appena arriviamo nel prato davanti alla casa di Alveus devo ricredermi: il festeggiato è lì, pronto ad accogliere calorosamente gli invitati uno a uno, rivolgendo a tutti una parola gentile. Una cosa molto da Iris, insomma. In questo momento si assomigliano così tanto che, se non fosse per le differenze fisiche, non esiterei a credere che il suo gemello sia lui e non io.
— Iris, Lym! Finalmente! Vi stavamo aspettando — ci dice raggiante non appena individua le nostre facce tra la gente. Il suo volto è illuminato dalla gioia, con un sorriso che va da orecchio a orecchio. I suoi occhi smeraldini sono tanto brillanti da poter far invidia alle stelle che popolano il cielo.
Mia sorella timidamente gli porge un pacchettino avvolto in una foglia che lui subito posa sul tavolo insieme agli altri. Poi ci prende per mano, una a destra e una a sinistra, e ci trascina nell'angolo dove siedono in cerchio tutti gli altri bambini. Ci accomodiamo tra di loro mentre finiscono di discutere su quale gioco sia meglio fare. Pare abbia vinto la proposta di Sidera, , che viene bendata con un drappo di stoffa e che deve ora tentare di prenderci senza vedere assolutamente nulla. Al via ci alziamo tutti di scatto e cominciamo a scappare per sfuggire alla sua presa, ma a un certo punto Iris inciampa e ruzzola a terra. Resta sdraiata nel prato, non riuscendo più a rialzarsi per il troppo ridere. Ridiamo tutti con le lacrime agli occhi. Rido anch'io.
E per un momento tutto è perfetto.
Per un momento non siamo ninfe oppresse dal peso delle aspettative degli altri. Siamo solo dei bambini che giocano e si divertono: Iris non è la mia gemella perfetta, Alveus non è il ragazzo un po' stupido e troppo gentile, Callàis non è il giovane scontroso e solitario che da piccola volevo affogare nel fiume. Io non sono la ninfa senza poteri.
Per un momento sono semplicemente Lympha, come loro sono semplicemente Iris, Alveus, Callàis, Sidera... Non importa cosa sappiamo o non sappiamo fare. Non importa cosa gli altri si aspettano che diventiamo o cosa sanno che non diventeremo mai.
Per un momento questo gioco è l'unica cosa che conta, ed è meraviglioso.
Ma poi l'attimo finisce.
I grandi ci chiamano al buffet che la madre del festeggiato ha preparato con tanta dedizione e noi siamo costretti a intrecciarci di nuovo alla vita vera. Ci disperdiamo tra i nostri genitori, riempiendo le ciotole di prelibatezze.
Ho ancora il sorriso in faccia quando mi siedo sull'erba ai piedi di un grosso masso, con il mio bottino sulle gambe. Sulla pietra dietro di me, alla quale io appoggio la schiena, sono sedute due ninfe anziane che chiacchierano tra loro come se io non ci fossi. Sono così prese a confabulare che probabilmente non mi hanno nemmeno vista arrivare, anche perché mi danno le spalle.
— Hai visto che ragazzo adorabile che è Alveus?
— Così gentile! Lo dico sempre a mia nipote Sidera che non deve assolutamente lasciarselo sfuggire.
— Ma sai con chi ce lo vedo? Con la giovane Iris. Sembrano fatti l'uno per l'altra, tutti e due così a modo e disponibili. È una ragazza proprio piacevole ed è tremendamente intelligente! Non mi stupirei se tra qualche primavera entrasse a far parte del Consiglio della Polla al posto di suo padre. Tra l'altro, hai visto com'è carina questa sera?
— Hai ragione, i suoi capelli sono intrecciati in modo perfetto. Altro che quelli della sua gemella! Sembra che ci abbia fatto il nido un uccello.
— A volte mi chiedo come facciano a essere parenti, la sorella è così scorbutica e intrattabile. Certi giorni Medulla mi fa un po' tenerezza: chissà come deve essere brutto aver sotto gli occhi tutti i giorni il proprio fallimento ed essere costretti ad amarlo.
— Pensa anche alla madre di Callàis: povera donna, anche lei non è stata proprio fortunata, quel ragazzo è una pestilenza. Sai che ho sentito dire che...
Il sorriso mi muore sulle labbra, congelato dalla freddezza delle loro parole. Smetto di ascoltare senza nemmeno accorgermene, come se le mie orecchie avessero compassione di me. Vorrei urlare, rompere in testa a queste due vecchie la ciotola di legno che porto in grembo e che le mie mani stringono con violenza, scaricando su di essa tutta la mia rabbia.
E invece non faccio niente, resto ferma dove sono, facendomi correre addosso la loro cattiveria come pioggia acida. Ogni parola è una goccia che mi corrode la pelle e penetra nelle ferite senza pietà. Permetto ai loro discorsi di avvelenarmi lentamente, sciogliendosi nell'acqua che mi scorre nelle vene e che inesorabilmente porta tutto questo amaro al cuore, dove lascio che si depositi e si accumuli.
Un movimento davanti a me attira la mia attenzione e mi risveglia all'improvviso. Alzo lo sguardo, che si intreccia a quello di Callàis, in piedi pochi passi più avanti, anche se non so dire quando è arrivato. Mi fissa senza dire niente e in realtà non c'è nemmeno bisogno che parli, bastano i suoi occhi per capire che ha sentito tutto, anche quello che le mie orecchie si sono rifiutate di ascoltare.
I nostri sguardi restano incatenati per un attimo infinito, poi lui mi fa un sorriso che di gioioso ha molto poco, mi dà le spalle e si incammina verso il tavolo dove Alveus ha posato i regali. Seguo ogni suo movimento, ogni passo mi pare duri un'eternità. Quando arriva alla meta si ferma e afferra un pacchetto verde foglia, se lo rigira tra le mani osservandolo e poi rialza lo sguardo incastrandolo nuovamente nel mio. Un sorriso di sfida gli si allarga sul volto senza raggiungere gli occhi, parzialmente coperti dai boccoli biondi.
Fermami, dai, sembra voler dire. Fermami, se ne hai il coraggio.
Io continuo a guardarlo, immobile, mentre lui accarezza con durezza il pacchettino di Iris. So cosa contiene: non è altro che un sasso decorato per tenere fermi i fogli, niente di speciale.
Ma so anche quanto mia sorella ci ha messo a dipingerlo, so quanto si arrabbiava quando un colore non veniva come voleva lei o quando usciva dai contorni. So quanto impegno e quanto affetto ci sono voluti per realizzarlo.
Eppure non mi muovo.
Mi viene in mente quel giorno in cui, da bambina, mi ero messa a piangere disperata dopo che qualcuno mi aveva canzonata perché ero una ninfa finta, incapace di usare la magia come tutte le ninfe vere. Mia madre mi aveva preso in braccio, pulito il viso con le sue maniche e medicato il cuore con la sua dolcezza. — Sei fortunata, mia piccola Lym — aveva detto. — Meglio essere senza poteri che averne uno come quello di Callàis.
Perché noi ninfe siamo nate per creare oggetti e relazioni, per arrotondare gli spigoli della vita e rendere più piacevole agli altri il breve viaggio che ci è stato concesso su questa terra. Ma non lui. Lui ha la capacità di distruggere tutto quello che tocca, se lo desidera; ciò che le sue mani sfiorano muore e marcisce, come se fosse corrotto da una malattia che non può essere curata.
Io lo so, eppure non mi alzo per togliergli il pacchetto dalle mani, nemmeno quando la foglia comincia a raggrinzire e seccare. So che è impossibile, ma per un attimo, nonostante la distanza, mi pare di sentire addirittura odore di putrefazione.
I pigmenti naturali usati da Iris per dipingere diventano scuri e corrotti, rendendo vana tutta la sua fatica e, quando Callàis poggia nuovamente l'oggetto sul tavolo, non rimane altro che un sasso sporco. Il ragazzo mi lancia un'ultima occhiata, poi mi volta le spalle e viene inghiottito dalla folla.
Io lo osservo andare via, senza fare niente per fermarlo, e per un attimo mi pare che sia giusto così.
Mi sveglio di colpo, boccheggiando. Scatto subito a sedere in cerca dell'aria di cui i miei polmoni sembrano essere privi, mentre un brivido mi percorre la spina dorsale e non so dire se sia causato dall'incubo o dagli spifferi freddi che entrano nella grotta. Con le braccia mi cingo il busto e piego le ginocchia al petto, nel tentativo di trattenere più calore possibile, ma pare non funzionare perché non riesco a smettere di tremare.
Continuo ad avere davanti agli occhi il sorriso crudele di Callàis, e rivedo anche ciò che non ho sognato, ma che ricordo essere accaduto. Al viso del ragazzo si sovrappone quello di Iris accartocciato dal dispiacere. Con espressione stoica mia sorella era riuscita a non piangere, ma lo sforzo che stava facendo per trattenersi e la rabbia erano tali che le tremavano le mani, chiuse a pugno lungo i fianchi.
Non avevo più ripensato a questo avvenimento, ma ora che l'inferno me l'ha riproposto non riesco a scacciarlo dalla mente. Scuoto la testa, nella speranza che se ne vada come fanno le gocce d'acqua dai capelli bagnati, ma lui rimane lì e continua a pungermi la coscienza come uno spillo.
Mi appoggio con la schiena alla parete, lo sguardo rivolto all'imboccatura della grotta. La luce che filtra dall'ingresso è ancora la stessa di quando mi sono addormentata, tenue e di un bianco latteo, non abbastanza intensa da scacciare via tutte le ombre. Qualche audace e solitario fiocco di neve penetra nel mio rifugio sospinto da quei pungenti spifferi che non mi danno pace.
Chiudo gli occhi. Non capisco perché questo ricordo mi tormenti tanto: che sia per le parole delle vecchie? Eppure non dovrebbero più ferirmi, dovrei aver imparato a catalogarle come inerenti a un tempo passato che non ritornerà e per questo motivo dovrei essere in grado di ignorarle.
Dietro alle palpebre serrate continuo a rivedere Callàis, il suo sguardo di sfida e le sue mani maligne. E sovrapposto al suo volto compare quello di Iris, corrucciato per la rabbia e la tristezza. Per un attimo mi si stringe il cuore, ma non dura più di un istante.
Iris.
Disperarsi per così poco: è evidente che la perfetta Iris non ha mai dovuto preoccuparsi per nulla di più importante di un sasso dipinto. Fare la vittima per una cosa così superficiale!
Io sono sempre stata la vera vittima, non lei. Lei non è mai stata la vittima, lei ha avuto tutto dalla vita. Io sono la vittima, non lei. Io, non lei.
In fondo se lo meritava, quello che Callàis ha fatto al suo regalo. Se lo meritava. Me lo devo ripetere due volte e non so nemmeno io il perché.
D'improvviso spalanco gli occhi: mi sembra di aver visto un'ombra muoversi attraverso le palpebre chiuse. Con tutti i sensi all'erta cerco freneticamente tra le rocce e le loro sporgenze ingannevoli qualcosa che dia conferma ai miei sospetti. Temo di non essere più sola in questa grotta, ma non trovo niente di strano e sto quasi per rilassarmi, convinta di essermi immaginata tutto, quando due occhi gialli si spalancano nel buio.
Se potessi farei un salto indietro, ma sono già schiacciata contro la parete ed è impossibile allontanarsi ancora di più da quella cosa, che ora ha cominciato a ringhiare. È un suono sommesso ma costante, che sembra salire direttamente dal centro della terra. O dell'inferno.
Vorrei scappare e forse sarebbe anche il caso di farlo, ma è come se fossi paralizzata e non riesco a muovermi. Tengo gli occhi fissi su quelle stelle gialle, non riuscendo a distogliere lo sguardo.
Poi quella cosa si stacca dalle ombre e comincia ad avvicinarsi a me. Noto subito che è enorme e nera, come se fosse un pezzo di cielo notturno caduto dal firmamento. Solo dopo mi accorgo che è un lupo. In un certo senso mi sento sollevata, già mi immaginavo chissà quale orribile demone infernale e invece è un animale che conosco. Certo, non ne ho mai visto uno così grande e da così vicino, ma tutto sommato questo non mi spaventa più di tanto; quello che invece mi fa rabbrividire è che nessun animale mi aveva mai guardato con quegli occhi.
Si avvicina lentamente, mettendosi tra me e l'uscita e precludendomi così qualsiasi via di fuga. Mi maledico, avrei dovuto scappare finché ero in tempo. Cerco di ricordare tutto quello che Iris mi ha insegnato sui lupi, ma la mia mente è un foglio bianco.
D'un tratto mi accorgo che l'animale zoppica. Abbasso lo sguardo sulle sue zampe e noto che su quella anteriore destra il pelo è bagnato e alla luce ha degli strani riflessi rossastri. È ferito.
Intanto il lupo si è fermato a due braccia da me e, sebbene continui a fissarmi, non sembra intenzionato a mangiarmi.
So cosa farebbe Iris, parlerebbe all'animale cercando di tranquillizzarlo e lo curerebbe. Io non sono lei e non ho mai cercato di imitarla o di comportarmi seguendo il suo esempio, ma c'è qualcosa dentro di me che mi fa desiderare di medicare la ferita del lupo. Forse è solo l'istinto: dopo dieci primavere passate a curare tutte le ferite delle ninfe del mio villaggio è perfettamente normale sentire l'impulso di fare lo stesso con un lupo, Iris e il mio sogno non c'entrano assolutamente nulla. In realtà non ho quasi mai medicato un animale, ma questa volta devo farlo. È l'unica cosa che riesco a pensare mentre mi avvicino gattonando all'animale, il che è già di per sé un'impresa perché non posso poggiare le dita della mano destra. Una vocina nella mia testa continua a ripetermi che sono pazza, ma è così flebile e lontana che ignorarla non è difficile.
Il lupo non si muove e continua a tenere puntati su di me i suoi occhi gialli. Quando sono abbastanza vicina da sentire il suo respiro smuovere i miei capelli, estraggo dalla borsa l'ampolla disinfettante e la garza. Sto per pulirgli la ferita con la stoffa imbevuta quando noto una cosa metallica spuntare tra il pelo. L'afferro con le dita e la estraggo con un movimento rapido. Devo avergli fatto male perché l'animale comincia a ululare e agitarsi.
— Sh, tranquillo. Stai calmo, va tutto bene — gli dico con una voce pacata che cerca di nascondere la paura che sta cominciando a invadermi.
Sorprendentemente lui pare capire perché, pur continuando a uggiolare, si accuccia in terra con la zampa tesa in avanti, come se me la stesse porgendo. Io lo fisso sbalordita. Ora i nostri volti sono ad appena un palmo di distanza e mi sento avvolgere dal suo sguardo liquido che d'improvviso non incute più così tanto terrore.
Con estrema cautela gli passo la garza imbevuta sulla zampa, che lui ritrae di scatto non appena comincio a disinfettargli la ferita, salvo poi porgermela di nuovo per permettermi di finire il lavoro. Sinceramente non so cosa pensare e per un attimo mi sento tanto Iris, anche se la cosa non mi fa particolarmente piacere.
Quando finisco mi allontano di qualche passo e il lupo poggia la grossa testa nera sulle zampe, in un atteggiamento che lo fa sembrare un cucciolo sovradimensionato. Mentre metto via ciò che resta della garza e del disinfettante l'occhio mi cade sui cerchi impressi a fuoco sul mio braccio: il primo è completamente nero e questo vuol che uno dei miei dieci giorni è andato, benché io non abbia ancora ottenuto nulla.
Prima che io possa ricadere nuovamente nella disperazione, un rumore improvviso proveniente da fuori attira la mia attenzione. È un insieme di stridii metallici, urla e botti e non riesco a capire cosa sia a produrlo. Che sia qualcuno che può aiutarmi?
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