4. La dolcezza dell'inferno

Continuo ad affondare nell'oscurità viscosa dell'inferno per un tempo che mi pare infinito, poi d'improvviso atterro su qualcosa di duro. Il colpo si ripercuote sulla spina dorsale, mozzandomi il fiato. Per un attimo temo che mi si sia spezzata, invece piano piano il dolore scompare e con esso anche il buio che mi circonda.

Davanti ai miei occhi appare un ampio prato verde, limitato poco più in là da un bosco di faggi. Affondo le mani nell'erba bagnata dalla rugiada e la sensazione dei fili tra le dita mi fa sentire di nuovo a casa.

In realtà tutto il paesaggio ha un qualcosa di familiare: i colori, gli odori e perfino i suoni sembrano quelli della natura che circonda il mio villaggio. In lontananza mi pare addirittura di sentire il rumore della cascata.

Mi alzo in piedi e, confusa, cerco di raggiungere la fonte di quel suono. Man mano che mi avvicino riesco a scorgere sempre più dettagli: la riva sassosa del fiume che rapido attraversa la radura e poi, poco più in là, il punto in cui inizia la cascata stessa.

Non capisco. Ho fallito?

Oppure sono sempre stata all'inferno?

Delle risate gioiose mi distolgono dai miei pensieri. Provengono dal sentiero che risale il dirupo, ma da dove sono io non riesco ancora a vedere chi si sta avvicinando.

Quando finalmente due bambine appaiono ai miei occhi rimango senza fiato.

Le loro teste sono coronate da una nuvola di capelli bianchi così leggeri che paiono fluttuare nell'aria, mentre i loro occhi vispi sembrano non riuscire a stare fermi, presi come sono a stupirsi per ogni cosa. Non possono avere più di quattro primavere e saltellano tenendosi per mano. Si somigliano così tanto che sembrano essere una il riflesso dell'altra.

Siamo noi, io e Iris, non ne ho alcun dubbio. E non comprendo come ciò sia possibile.

Per un istante gli occhi d'ambra di Iris incontrano i miei, ma il suo sguardo mi attraversa come se non mi avesse vista. Forse è proprio così, io posso vedere loro, cioè noi, ma per loro io sono invisibile.

Le bambine mi sorpassano e continuano a correre verso il fiume, tirandosi a vicenda per gioco, mentre io rimango imbambolata a guardarle. Tutto ciò è impossibile e non assomiglia per niente all'idea che mi ero fatta dell'inferno. Poi all'improvviso mi riscuoto e corro dietro alle due piccole ninfe, prima che si allontanino troppo.

Poco prima di raggiungere la riva, Iris svolta a destra verso una grande pozzanghera stagnante e la piccola me la segue con un risolino gioioso, saltellando al suo fianco.

Mi sta portando a vedere i girini, ora ricordo. È avvenuto davvero ed è stato un sacco di tempo fa, quando ancora mia sorella era la mia migliore amica. Aveva insistito tanto affinché quel pomeriggio la seguissi fino in cima alla cascata; io non avevo voglia, salire fin lassù era molto faticoso, ma alla fine la sua vitalità mi aveva convinta, come accadeva sempre.

Anche adesso posso vederla trascinare con gioia una me bambina ormai definitivamente incuriosita; se anche era stata titubante prima di uscire di casa, ora di quel sentimento non rimane più nulla.

— Lym, qui! — esclama, battendo le manine, mentre io mi avvicino. Poi si inginocchia in terra e si sporge così tanto sul piccolo stagno che temo ci caschi dentro.

— Guarda! Guarda come sono belli — dice voltandosi verso la piccola me, che si è seduta al suo fianco. Da dove sono ora riesco a distinguere la scintilla negli occhi di mia sorella, quella linfa vitale che da piccola animava sempre il suo sguardo ma che ormai non vedo da così tanti anni che mi ero quasi dimenticata che un tempo l'avesse avuta.

La me bambina avvicina la testa a quella di Iris e insieme ci affacciamo sullo specchio d'acqua, mentre i nostri capelli sfiorano la superficie, bagnandosi. Lei comincia a indicarmi le uova di rana una a una. — Quelle sono le mie preferite. Io c'ero quando mamma rana le ha fatte — mi spiega tutta soddisfatta, mentre io l'ascolto incantata. — Quei piccoli sono nati ieri. Sono bellissimi.

— Dov'è la loro mamma? — chiedo io, parlando per la prima volta.

All'udire la mia voce di bambina inspiro di colpo, con l'aria che mi gratta la gola. Mi sento nuda, violata, come se fosse appena stata portata in superficie una parte di me che avrebbe dovuto restare sepolta per sempre.

Iris arriccia il naso in un modo adorabile che mi ricorda gli animali del sottobosco. Da piccola lo faceva sempre quando pensava.

— Non lo so, ora glielo chiedo. Bambini, dov'è la mamma?

Resta un attimo in ascolto e poi comincia a ridacchiare.

— Perché ridi? Cos'hanno detto?

— Sono buffissimi, non sanno ancora parlare bene e non si capisce niente.

Ricordo che a quel tempo ero contenta che fosse proprio mia sorella ad avere il potere di parlare con gli animali perché così riusciva a rendere più divertenti i nostri giochi. Grazie alla sua magia noi due potevamo fare cose impossibili per gli altri bambini e ci sentivamo delle privilegiate: seguire gli scoiattoli fino alla loro tana e accarezzarne i cuccioli appena nati, oppure correre nella foresta in groppa ai cerbiatti.

Spesso Iris condivideva le sue capacità con le altre ninfe del villaggio, ma alcune esperienze erano solo nostre, mie e sue, e in quei momenti nessun altro aveva il permesso di infilarsi nel nostro piccolo mondo, fatto di gesti e sguardi d'intesa che per gli estranei sarebbe sempre rimasto un mistero.

— Lym! — esclama d'un tratto Iris, raddrizzando la schiena e girandosi verso il bosco, attenta come una marmotta. — La nostra amica volpe ci chiama, vuole giocare. — Ci scambiamo uno sguardo complice, forse ricordando qualcosa che a me adesso sfugge. Mi alzo io per prima, con negli occhi una maliziosa aria di sfida, e comincio a correre verso il piccolo animale comparso in lontananza.

— Muoviti, Si! — le urlo, voltandomi e facendole segno di seguirmi. Da bambina la chiamavo Si perché trovavo il suo nome troppo difficile da pronunciare, poi un giorno ho smesso di farlo e ora mi chiedo se lei se lo ricordi, quel suo vecchio soprannome.

Guardarci mentre facciamo capriole nel prato e corriamo dietro alla volpe è così bello che potrei stare qui per sempre. La nostra felicità genuina è come un balsamo per la mia anima. Rivivo attimo dopo attimo tutto il nostro pomeriggio e quando sento la voce di mia madre che ci richiama per la cena sono talmente triste che sia già finito che mi viene da piangere.

Per fortuna questa struggente malinconia non dura a lungo. Così come era apparsa, la radura scompare e al suo posto prende forma la mia camera; riconosco subito i mobili di legno e, sul letto, la coperta tessuta da mia madre. Sul pavimento sono posate in modo scomposto due bambole di rami e foglie, abbandonate lì a metà di un gioco. Mi guardo intorno, cercando di capire in quale periodo della mia vita sono capitata.

Poi nella stanza compariamo anche noi. Lascio andare il fiato che non mi ero resa conto di aver trattenuto, e un'estrema dolcezza mi allarga il cuore, che si era ristretto vedendo sparire la radura.

Io sono sdraiata sul bordo del letto a testa in giù, con i capelli sparsi sul pavimento, mentre Iris è seduta a gambe incrociate nel centro della stanza, con lo sguardo concentrato sulle pagine di un libro. Siamo più grandi di prima, anche se non di molto: dovremmo avere sette o otto primavere.

All'inizio stiamo ferme lì, senza fare niente, e io fisso la scena, avida di particolari: voglio ricordare ogni cosa, ogni dettaglio, ogni sensazione. So che si tratta di un altro momento felice perché io-bambina sto osservando mia sorella con sguardo aperto e sincero.

— Si? — la chiamo infine con voce strascicata, allungando di molto l'ultima lettera. — Ti manca molto?

— Zitta, sono a un punto importante — mi rimprovera lei senza alzare gli occhi dalle pagine.

— Ma tanto lo sai già come finisce, l'hai letto un milione di volte. Potremmo fare un sacco di cose più divertenti. Tipo infilare i vermi nei pantaloni di Callàis.

— Povero! Lascialo stare, lo sai che mamma non vuole che gli diamo fastidio. E ai vermi poi non pensi? —Questa volta Iris si volta a guardarmi, ma solo per rivolgermi un'occhiata indignata.

— Allora potremmo fare il bagno nel fiume. E magari affogare Callàis.

Lei non fa in tempo a rispondermi perché all'improvviso sentiamo nostra madre, seduta fuori a tessere, salutare qualcuno. Mi alzo di scatto, inginocchiandomi sul letto per affacciarmi alla finestra.

— Chi è? — chiede Iris, spingendomi da dietro per poter vedere meglio.

— Alveus e sua madre. — Arriccio le labbra in un'espressione delusa. — Speravo qualcuno di più divertente.

— Ma Alveus è divertente. A me sta molto simpatico.

— Certo, perché è noioso come te — ribatto, sorridendo.

— Sai che ieri, mentre ero nella radura a controllare come stava il cerbiattino ferito, l'ho visto passare con la vecchia Aranea per aiutarla a raccogliere le bacche? Perché adesso lei fa un sacco di fatica a chinarsi fino a terra, così mi ha detto. È molto altruista, dovresti prendere esempio da lui.

Io mi volto a guardarla con aria scettica e mi accorgo che invece lei sta fissando ammirata il bambino che, tenendo la mano di sua madre, si avvicina a casa nostra. Sul suo viso si affaccia un sorriso inconsapevole.

— Dai, scendiamo a salutarlo — dice, saltando giù dal letto e tirandomi con lei oltre la porta. Arranco dietro il suo passo svelto mentre scendiamo le scale, sicurissima che tutta questa fretta non sia assolutamente necessaria.

— Si, rallenta!

Ma lei non mi ascolta.

— Eccovi — esclama mia madre quando arriviamo al suo fianco. — Proprio di voi avevo bisogno. Giocate con Alveus mentre io discuto di una cosa con sua madre.

Sposto lo sguardo sul bambino che ora ci osserva sorridente. Anche Iris sorride, ma in modo timido e impacciato. Tutta la sua fretta di poco fa sembra scomparsa, nascosta dietro gli occhi che abbassa non appena incrociano quelli di Alveus.

— Andiamo? — li esorto, incamminandomi verso il fiume. Mia sorella mi trotterella dietro mentre lui ci racconta dei suoi progressi con la magia.

All'improvviso inciampo e cado in terra. Ruzzolo malamente, picchiando la testa, e per un attimo mi si appanna la vista. Quando la scena torna a essere nitida, mi accorgo con orrore di non essere più nel mio villaggio e di non avere sette primavere. La visione è scomparsa e gli occhi mi si riempiono di lacrime, che asciugo con un gesto stizzito. Come faccio ora a tornare nei miei giorni di bambina?

Mi tiro a sedere e mi guardo intorno. Al posto del prato verde, ora sotto di me si estende un terreno roccioso e ricoperto da un sottile velo di polvere rossa, che va avanti all'infinito, tanto che per quanto mi sforzi non vedo altro che sabbia e sassi. Un cielo plumbeo dalle sfumature verdastre incombe su di me, schiacciandomi con la sua pesante immensità. Ogni cosa è immobile, ma di una immobilità strana, innaturale, come se su quella landa desolata non fosse mai soffiato nemmeno un alito di vento.

Mi volto per vedere su cosa sono inciampata e urlo, indietreggiando in fretta. Davanti ai miei occhi giace uno scheletro con ancora tutti i vestiti addosso ma senza più nemmeno un lembo di pelle. Le sue orbite vuote fissano quel cielo d'inchiostro che ci sovrasta, mentre la sua mano destra è tesa a indicare una scritta a qualche pollice dal cranio. Le prime righe sono vergate in caratteri che non riconosco, ma a leggere quella sotto ci metto solo un attimo.

Vattene finché sei in tempo.

Un brivido mi percorre la spina dorsale. Capisco cosa intende, so cosa lo ha portato alla morte perché l'ho provato anch'io: quella dolcezza ammaliante del passato, quella voglia di restare nei ricordi, di riviverli all'infinito, senza nemmeno una pausa per bere, mangiare o dormire, finché il corpo si consuma e infine, impotente, si sfalda, arrendendosi alla morte senza combattere.

Mi stringo le braccia al petto, cercando di darmi la forza necessaria per vincere il desiderio di tornare al villaggio con la me di sette primavere. È una prova che non sono preparata ad affrontare.

Non avevo pensato a quanto dolce sarebbe potuto essere l'inferno.

È mentre sono ferma così, stretta a me stessa, che mi accorgo di una cosa strana sul mio braccio sinistro. Lo allontano di scatto per guardare meglio. Disegnati sulla pelle, come marchiati a fuoco, ci sono dieci cerchietti contornati di nero, e il primo, quello più vicino alla mano, ha un quarto colorato con un pigmento scuro.

Fisso sorpresa quello strano disegno che mi ricorda tanto un'illustrazione delle fasi lunari. Dieci cerchi, dieci lune. Dieci come i giorni che ho a disposizione. Spalanco gli occhi. E se fosse una sorta di clessidra che scandisce il mio tempo? Spero non sia così, altrimenti vorrebbe dire che ho sprecato così tanta parte del mio primo giorno a perdermi dietro i ricordi.

Tuttavia, più lo guardo più me ne convinco. Sono davvero rimasta invischiata nella mia memoria fino a perdere totalmente la concezione del tempo.

Vattene finché sei in tempo. L'avvertimento risuona macabro nella mia testa.

Eppure sarebbe così facile perdersi nei meandri della mente, scivolare via, senza nemmeno accorgersene, rivivendo solo i momenti piacevoli.

Scuoto la testa, e i capelli che si sono liberati dall'acconciatura mi frustano il volto. Ho una missione da compiere, Alveus ha bisogno di me. Devo rimanere lucida e mantenermi in forze.

Stupida, stupida Lym! mi maledico mentalmente. E poi lo ripeto, sussurrando a denti stretti.

Perché nella fretta sono partita per l'inferno a mani vuote, senza nemmeno un goccio d'acqua o qualcosa da mangiare. Altro che dieci giorni! Senza niente da bere non ne vivrò nemmeno tre.

Poi all'improvviso mi ricordo della bisaccia. L'afferro con dita febbrili, come un assetato farebbe con dell'acqua insperata nel deserto. E forse è davvero così.

La apro in tutta fretta e ci infilo dentro una mano. Il mio braccio continua a scendere, sempre più giù, come se la borsa non avesse mai fine. Ormai è immerso fino alla spalla e ancora non riesco a toccare il fondo, il che è impossibile perché vista da fuori non misura più di un paio di spanne.

Estraggo la mano e osservo stupita quello strano oggetto che, nonostante la fattura sia quella di mia madre, dopotutto non è stato tessuto da lei. Ne sono certa perché la bisaccia è intrisa di magia fino al midollo e mia madre non si è mai occupata di questo genere di cose.

Infilo nuovamente il braccio per vedere se riesco a cavarne fuori qualcosa. Comincio a frugare e d'un tratto mi pare di sentire una forma solida, così estraggo in fretta la mano e con essa un rotolo di garza. In un primo momento vedendola mi viene da ridere: ironico che, di tutte le cose che avrei potuto trovare, la prima sia proprio un inutile oggetto per la cura delle ferite. Poi però il sorriso mi si gela sul viso, sostituito da un'espressione amareggiata, quando mi rendo conto che tanto inutile non è, visto che la mia magia è sparita per sempre.

Poggio sul suolo la benda arrotolata, e riprendo a frugare con stizza. Uno dopo l'altro, estraggo delle bacche essiccate, frutta secca, un coltellino, un'ampolla di distillato disinfettante e una di acqua da bere. Forse dopotutto non morirò di fame o sete. Non subito, almeno.

Vado avanti a cercare finché la bisaccia non mi pare vuota. Per esserne sicura la capovolgo e comincio a scuoterla, ma non ne esce più niente. Vi rimetto quindi dentro tutti gli oggetti e, con la borsa in spalla, comincio a guardarmi intorno, indecisa sul da farsi.

Stare ferma qui è inutile, di sicuro Alveus non salterà fuori dalla roccia. Forse dovrei provare a camminare: magari più in là troverò forme di vita, costruzioni, macerie, qualcosa.

Prima di avviarmi in una direzione a caso, il mio sguardo cade di nuovo sullo scheletro. Ora non lo vedo più con compassione, ma piuttosto come un avvoltoio che analizza la sua preda.

Mi chino al suo fianco ed esamino le cose che ha indosso: i vestiti sono ormai rovinati e inutilizzabili, così come le scarpe. Mi chiedo cosa abbia ridotto così il cadavere, perché non credo che all'inferno ci siano quegli insetti che nel mio mondo si cibano delle carcasse.

Sto quasi per lasciarlo lì intatto, quando un bagliore sulla sua mano attira la mia attenzione. Mi avvicino per vedere meglio e ciò che scorgo mi lascia a bocca aperta. Sul suo dito scheletrico fa bella mostra di sé un anello di squisita fattura: la fascetta è formata da un intreccio di tre fili d'oro di colori diversi che brillano luminosi in questa strana luce inquietante, mentre sulla sommità è incastonata una pietra nera tonda e piatta, ossidiana probabilmente, sulla quale spicca una freccia argentata.

Appena lo tolgo dal dito dello scheletro la freccia comincia a girare, come dotata di vita propria. La guardo stupita finché essa non scompare, inghiottita dalla pietra.

Non capisco. Che sia un anello magico? Ma a cosa serve? Cosa indica?

Non ne ho idea, ma lo metto comunque al dito. Lo guardo per un po', quasi aspettando che l'oggetto mi riveli il suo segreto, ma non succede nulla. Quindi rialzo gli occhi e li punto verso l'orizzonte, lontanissimo e infinito.

Faccio un grosso sospiro per infondermi coraggio e mimetto in cammino.

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