32. Ti ricordi?

Il nostro piano per salvare Alveus è molto semplice: non abbiamo un piano. Ci limiteremo a trovarlo, mi piazzerò davanti a lui e poi improvviseremo sperando nella buona sorte, sia che mi riconosca sia che non lo faccia.

— Dietro alle porte che si affacciano su questo corridoio si trovano dei salottini, e ogni salottino è in comune a circa tre o quattro favoriti, le cui camere singole danno appunto su quella stanza — mi spiega Iris, mentre siamo nascoste dietro un mobile del corridoio. Il nostro obiettivo era di imboscarci in qualche angolo buio del castello, ma è praticamente impossibile trovare un posto scuro in cui mimetizzarci, considerando che tutto è fatto di cristallo limpido e splendente. Dove siamo ora in effetti siamo abbastanza esposte, ma è la soluzione migliore che abbiamo trovato; fortunatamente in questa parte della magione non passa molta gente, perlopiù servitori di corsa.

— L'ultima volta Alveus dormiva in una camera affacciata al salotto laggiù — continua mia sorella, indicando con un dito dall'unghia scheggiata una porta in fondo al corridoio. — Non c'è motivo di credere che l'abbiano spostato, quindi... — Lascia la frase in sospeso, ma tanto non c'è bisogno che la concluda.

Assottiglio gli occhi, puntando lo sguardo sul nostro obiettivo: all'apparenza è un ingresso come tutti gli altri, ma ora che so che Alveus si trova lì dietro, mi sembra quasi che brilli, dotato di luce propria.

— Come facciamo ad entrare? — domando, senza distogliere lo sguardo.

— Continuiamo a fingere di essere parte della servitù, apriamo la porta e improvvisiamo.

Sbuffo, infastidita. — Altra improvvisazione! Davvero non sai proporre di meglio? Così sarà già tanto se non ci facciamo ammazzare.

— Se sei tanto brillante allora trovalo tu, un piano — mi risponde lei calma, abituata alle mie battute pungenti. Resto un attimo ferma a pensare, ma ovviamente ha ragione lei: non ho idea di cosa possa aspettarmi dietro quella porta e non posso creare soluzioni a problemi che non conosco.

Dal momento che taccio, Iris riprende la parola: — Bene, quindi andiamo.

Fa per allontanarsi quando io l'afferro con decisione per un polso. — Aspetta — esclamo, parlando mentre la mia mente elabora quello che sto facendo. — Entro solo io, almeno se qualcosa dovesse andare male una di noi due sarebbe comunque salva.

Apre la bocca per ribattere, ma dalle sue labbra non esce alcun suono. Alzo le sopracciglia, sfidandola a contraddirmi, ma lei sussurra solo un debole: — Non voglio che tu vada da sola.

— Tanto tu ora non servi, là dentro: lo sappiamo già che Alveus non ti riconosce. Ora è me che deve vedere. Aspettami qua fuori.

— Ma se qualcosa dovesse andare storto? Come faccio a sapere che hai bisogno di aiuto?

— Non potresti fare nulla comunque: se anche Alveus chiamasse le guardie, nessuna di noi due riuscirebbe a opporre resistenza.

Abbassa lo sguardo sulla mia mano, ancora intorno al suo polso, e sospira, dandomi ragione con un cenno impercettibile del capo. La lascio andare, sapendo che non proverà a seguirmi, e mi avvio alla porta senza voltarmi indietro.

Busso sulla superficie cristallina come ho visto fare alla fata poco tempo fa e una voce mi risponde dall'interno, pronunciando parole incomprensibili. Lo prendo per un permesso e socchiudo la porta, mentre la mano poggiata sulla maniglia trema al pensiero che Alveus potrebbe davvero trovarsi qui, ad appena qualche passo da me, finalmente.

Entro, infilandomi nello spiraglio tra lo stipite e il portone, e, dopo aver preso un profondo respiro, mi guardo intorno. Il salotto è identico all'altro in cui sono stata, con gli stessi mobili disposti allo stesso modo, ma questa volta un unico elfo drow è seduto sul divano posto nel centro, con un libro rilegato in argento poggiato sulle gambe. Nessun altro è presente nella stanza, e ci rimango talmente male che di sicuro l'elfo non può non notare la delusione sulla mia faccia, anche perché mi ha fissata per tutta la durata della mia perlustrazione visiva dell'ambiente.

I suoi occhi dall'iride turchese sono fissi su di me, con espressione interrogativa: sicuramente si sta chiedendo cosa sono venuta a fare. Ho appena aperto la bocca per giustificare la mia presenza lì con una scusa qualsiasi quando, d'un tratto, sento dei cardini cigolare e la mia attenzione viene dirottata su una delle porte affacciate sul salottino. Faccio appena in tempo a scorgere una faccia candida coronata da capelli lisci e plumbei, che subito improvviso, rivolta all'elfo drow: — La nostra amata bhanrigh ha chiesto di te.

Lui mi fissa un attimo senza rispondere, tanto che temo non capisca la mia lingua, ma poi ribatte con un pesante accento: — La bhanrigh non manda la servitù a chiamarmi.

Deglutisco, mentre rivoli di sudore freddo mi corrono lungo la schiena; voglio che questo elfo se ne vada prima che Alveus mi riconosca perché non so come reagirà il mio promesso sposo e questo sconosciuto non deve vedere, non deve sapere.

— Ha detto che è urgente e se non vai la responsabilità sarà solo tua — rispondo in fretta, camuffando la voce e quasi mangiandomi le parole. Ormai la ninfa è entrata nella stanza e ci sta guardando con aria distratta. Io tengo gli occhi bassi, sperando che il mio travestimento regga ancora per poco.

L'elfo continua a osservarmi diffidente, ma alla fine si lascia convincere; chiude il libro con un gesto lento e pigro, e abbandona il salotto, dandomi una spallata che mi fa barcollare.

Ha funzionato, quasi non ci credo nemmeno io. Tuttavia l'elfo non ci metterà molto ad accorgersi del mio inganno, gli basterà presentarsi davanti alla bhanrigh per capire che lei non lo ha affatto mandato a chiamare e a quel punto tornerà furioso nella sua stanza, motivo per cui io ho pochissimo tempo per fare quel che devo.

Alzo gli occhi, puntandoli in quelli smeraldini della ninfa. — Alveus — sussurro, con voce rotta. — Sono io.

Al sentire il suo nome, il mio promesso sposo mi mette a fuoco per la prima volta. Finora mi aveva guardata senza prestarmi realmente attenzione, come se non fossi più interessante del libro che l'elfo ha lasciato sul divano, ma adesso i suoi occhi si fissano nei miei, facendo perdere un battito al mio cuore. Trattengo il respiro, aspettando che l'espressione indifferente del suo viso riacquisti la dolcezza che lo caratterizza solitamente quando mi guarda, ma nulla cambia nei suoi lineamenti, tanto che mi sembra di osservare un'altra persona che di Alveus ha solo le fattezze.

— Che sei venuta a fare, Lympha? — mi domanda infastidito, con un tono così diverso, così non suo da farmi quasi scoppiare a piangere. Cerco di trattenermi, anche se le lacrime premono dietro agli occhi, e mi avvicino con cautela, come se mi stessi approcciando a un pericoloso animale selvatico.

— Alveus — ripeto, anche se non ce n'è bisogno. — Alveus, ti ricordi di me?

— Certo che mi ricordo — mi risponde, facendomi sentire un'idiota. — Che razza di domanda è?

La sua voce non è crudele né offensiva, se qualcuno non lo conoscesse bene come lo conosco io potrebbe perfino scambiare per gentilezza quella che invece io riconosco essere vacuità. Vuote, le sue parole sono vuote come un fiume in secca, come se non ci fosse più niente nel suo cuore: nessun sentimento, nessuna passione, nessun rimorso, desiderio o sentimento. Come se tutto il suo corpo fosse stato svuotato per far posto a quell'amore malato per la regina nera, che lo prosciuga e lo sfama in un infinito circolo vizioso.

Nonostante le sue parole mi feriscano, continuo ad avanzare finché non riesco ad allungare il braccio e a posare la mano sulla sua guancia in una carezza.

— Alveus, andiamo via — gli dico, col tono più convincente di cui sono capace. Lui però scosta bruscamente il volto dalla mia mano, che resta sospesa a mezz'aria, accarezzando il nulla. Cerco di riportarla sulla sua guancia, ma lui mi afferra con forza il polso, bloccandomi. Non posso dire che mi stia facendo male, ma dai suoi gesti è sparita tutta la gentilezza e la cura che lo rendevano Alveus e questo è più doloroso di mille schiaffi.

— Perché tutte venite qui e cercate di portarmi via? Tu, tua sorella... Non riuscite ad accettare il fatto che io voglia restare qui? — sussurra, e siamo così vicini che il suo fiato mi sfiora le guance bollenti a ogni parola.

Durante tutto il mio viaggio fino a qui avevo pensato che la parte più difficile sarebbe stata trovare Alveus, ma mai, nemmeno nei miei sogni più fantasiosi, avevo immaginato che, una volta trovato, lui si sarebbe rifiutato di venire con me.

Di colpo lui lascia andare il mio polso, spingendomi in modo da farmi allontanare da lui, e si volta verso la porta da cui è uscito, deciso a ritornare nella sua camera da letto. Evidentemente considera conclusa la conversazione e si aspetta forse che io accetti la sua decisione e me ne vada. Potrei anche farlo, se questa fosse davvero una sua decisione, ma non lo è e quindi lo seguo all'interno dell'altra stanza, anche se lui cerca di chiudermi la porta in faccia.

— Alveus, cerca di ragionare — provo a convincerlo, mentre lui mi volta le spalle e cammina fino a un'alta finestra ad arco, vicino alla quale si ferma senza girarsi.

— Su cosa dovrei ragionare? — mi risponde pacato e assente, senza guardarmi.

— Tu non vuoi restare qui. Perché dovresti? Non c'è nulla che ti trattiene.

— Non dire sciocchezze, qui c'è la mia amata e nulla potrà mai separarmi da lei. Cosa potrei desiderare di più che stare con lei per l'eternità?

Ogni sua parola è un ago che mi ferisce la pelle ancora e ancora, facendo colare stille di acqua da ogni ferita. Sentirlo dire mia amata senza riferirsi a me è così estraniante che per un istante credo di star sognando e che questo sia solo un brutto incubo dal quale mi sveglierò presto.

— Ma io sono la tua principessa. — La voce mi esce più lamentosa di quanto avrei voluto.

Lui ride del mio patetico tentativo e poi dice, sprezzante: — Principessa! Cosa me ne faccio di una principessa, ora che ho una regina?

Stringo i pugni lungo i fianchi e respiro a fondo, mentre cerco di ragionare: ormai è chiaro che nessuna mia parola potrà mai convincere Alveus a venire via con me.

Mi allontano dalla porta e cammino nuovamente verso di lui, girando intorno al grande letto a baldacchino che domina la stanza, ma mi fermo prima di raggiungerlo, temendo di farlo scappare ancora. Mi appoggio a una delle colonne del letto, aggrappandomi come se da essa dipendesse la mia sopravvivenza: ho bisogno di qualcosa che mi sorregga e che mi dia conforto con la sua presenza forte e salda, altrimenti rischio di sprofondare negli abissi della mia mente popolati dai mostri.

Alveus è ancora in piedi, con la sua schiena sottile e magra rivolta verso di me; indossa una tunica bianca e finissima che lo fa sembrare uscito da un sogno, etereo e irraggiungibile.

— Sei ancora qui, Lympha? Vattene.

Mi aggrappo con più forza alla colonna del letto, cercando freneticamente una soluzione: cosa posso fare per salvarlo? Vorrei che Rohkeus fosse qui, lui saprebbe cosa fare, e se anche non avesse una soluzione la sua presenza riuscirebbe a darmi conforto, come se la sua forza si diffondesse nell'aria rendendo più forte anche me. Ma pensare a Rohkeus ora, anziché tranquillizzarmi, mi fa cadere ancora di più in agitazione: perché non so dove sia e che cosa gli sia successo, ma anche perché mi sembra quasi un delitto distogliere la mia mente da Alveus, che ora sta davanti a me e merita tutta la mia attenzione.

Se ora facessi come mi dice e lasciassi la stanza da sola, avrei fallito: Alveus non potrebbe mai tornare a casa, nessuno di noi potrebbe, e saremmo imprigionati all'inferno per sempre, divisi. Lui continuerebbe ad amare la bhanrigh, servendola finché lei non si stancherà di lui, che a quel punto verrà gettato via come spazzatura, e io continuerò a vagare in queste terre demoniache, fuggendo e disperandomi per il mio amore perduto.

No. Non posso fallire. Salverò Alveus, che lui lo voglia o no.

Raddrizzo la schiena, staccandomi dalla colonna mentre le mie gambe ritrovano la forza di reggermi senza bisogno di aiuto. Con passi decisi annullo la distanza che mi separa dall'altra ninfa.

— No, io non me ne vado senza di te.

Lui si volta, sorpreso dalla decisione della mia voce, e mi punta addosso i suoi grandi occhi verdi.

— Te lo ricordi il giorno in cui mi hai chiesto di sposarti?

— Ti ho già detto che mi ricordo, non ho perso la mem-

Io però non gli do il tempo di finire la frase e riprendo a raccontare, come se lui non avesse parlato: — Era una giornata di fine inverno, e uno dei primi acquazzoni che annunciano l'arrivo della primavera si era abbattuto sul villaggio. Noi eravamo in giro a raccogliere i fiori selvatici che tua madre avrebbe usato in cucina e l'acqua ci aveva presi alla sprovvista: eravamo convinti che saremmo riusciti a rientrare prima che scoppiasse il diluvio, ma ci eravamo sbagliati.

Ora siamo esattamente una davanti all'altro, tanto vicini che il mio naso sfiora il suo nel momento in cui inclino la testa verso l'alto, in modo da avere i suoi occhi fissi nei miei. Lui cerca di indietreggiare, ma è già appoggiato alla finestra e non può allontanarsi.

— La pioggia aveva cominciato a cadere tutto d'un colpo, senza darci il tempo di ripararci, e così quando eravamo arrivati sotto casa tua eravamo fradici ma felici. Era bello essere insieme così, abbracciati per riscaldarci a vicenda, con le gocce d'acqua che ci colavano sui volti e si incastravano sulle tue ciglia come perle. In quel momento, con la pioggia che scrosciava violenta coprendo ogni altro suono, era come se nel mondo esistessimo solo tu e io. Te lo ricordi, Alveus? A un certo punto tu hai smesso di ridere e mi hai preso una mano, così — racconto con la voce ridotta a un sussurro, e gli afferro una mano con le mie come aveva fatto lui quella volta. — Mi hai guardata dritta negli occhi, così sinceri e pieni d'amore, e mi hai chiesto se volevo essere tua moglie. La tua voce tremava, come se temessi che io potessi darti una risposta diversa dal sì, ma perché avrei dovuto? In tutta la mia vita non mi ero mai sentita più piena e completa, come se finalmente fossi arrivata dove era destino che arrivassi. Te lo ricordi, Alveus?

Mi fermo un attimo, aspettando una sua reazione, ma lui tace, sul viso un'espressione quasi di paura. Mi faccio coraggio e finisco il racconto: — Allora hai spostato le tue mani sul mio volto. — Mentre lo dico, imito il gesto posando i palmi sulle sue guance magre. — E poi mi hai baciata, così.

Poso le labbra sulle sue, morbide e dolci come nettare, e lui non mi scaccia, tanto che per un attimo mi illudo che ricambi. Ma dopo un istante mi afferra con violenza per le spalle, allontanandomi bruscamente. Troppo sorpresa per reagire, indietreggio, assecondando la sua spinta, e inciampo nei miei stessi piedi. Precipito sul letto, affondando scomposta nel materasso soffice, e in un attimo lui è sopra di me, negli occhi un'espressione rabbiosa che mai gli avevo visto addosso.

— Cosa credi di fare, Lympha? Vuoi che io tradisca la mia bhanrigh? Non osare baciarmi mai più.

Mi afferra per i polsi, inchiodandomi sulle coperte con una forza che non credevo possedesse.

— Alveus...

Alveus, Alveus — ripete lui in falsetto, in un chiaro tentativo di imitarmi. — Smettila di chiamarmi! Qualunque cosa io abbia fatto in passato era chiaramente uno sbaglio, o forse solo un passo sulla strada che mi avrebbe portato qui. Qui — ripete, urlando e scuotendomi con forza i polsi. — Qui, dove voglio essere.

Cerco di liberarmi dalla sua stretta, ma le sue mani sono troppo forti e lui è troppo pesante. Il suo corpo preme sul mio facendomi affondare sempre di più nel materasso, tanto che mi sembra di affogare. Sul suo viso leggo solo rabbia e in lui non vedo più niente dell'uomo che stavo per sposare.

— Alveus, ti prego...

— Ti ho detto di smetterla! — grida, tanto forte che temo l'abbia sentito tutto il castello, e poi mi tira uno schiaffo. Spalanco gli occhi, non tanto per il dolore quanto per la sorpresa, e mi immobilizzo, mentre il respiro affaticato per la lotta mi fa sollevare il petto in modo irregolare. Qualcosa dentro di me va in pezzi, mi pare quasi di sentire il rumore di vetro infranto, e le schegge vanno a conficcarsi ovunque, nei polmoni, nel cuore e nelle vene, tanto che ogni cosa, perfino il solo pensare, mi causa stille di dolore.

Per un istante restiamo immobili, sospesi in una specie di limbo, poi sentiamo una porta aprirsi nella stanza accanto. Alveus scatta subito in piedi e in fretta si avvia verso il salotto, sistemandosi la tunica stropicciata. Io allungo una mano per fermarlo, mentre porto l'altra sulla guancia pulsante, ma non faccio in tempo a dire nulla che lui si è già richiuso la porta alle spalle.

Salto giù dal letto e corro verso la finestra, che pare essere l'unica via di fuga oltre alla porta, ma non appena mi affaccio un baratro si spalanca sotto di me: non posso uscire da lì, il salto è troppo alto e non riuscirei a levitare così a lungo.

Intanto delle voci mi arrivano a ondate dal salotto.

— Dov'è andata quella serva? — sento dire la voce dell'elfo che ho ingannato. — E perché hai gridato?

— Quale serva? — chiede Alveus a sua volta, ignorando la seconda domanda. A far da eco alle sue parole sento un rumore metallico, come di armi che sbattono una contro l'altra, da cui deduco che l'elfo non sia tornato indietro da solo.

— Quella che mi ha mandato dalla bhanrigh.

In questo momento capisco che per me è finita: se quelle guardie entrano in questa stanza non ho alcuna possibilità di salvezza e mi ritrovo a ringraziare tutti i fiumi del mondo che Iris non sia entrata insieme a me. Pur sapendo che è del tutto inutile, mi nascondo sotto il letto, mentre il mio cervello lavora a pieno ritmo cercando di farsi venire un'idea migliore.

— Ah, quella — ribatte Alveus, dall'altra parte del muro. Con la mano destra afferro il coltello legato alla mia coscia, sciogliendo il nodo che lo teneva fermo alla gamba: se proprio devo essere catturata, almeno lotterò fino alla fine. Trovo in un certo senso ironico che l'ambasciatore della mia fine sia proprio l'uomo che aveva detto di amarmi.

Chiudo gli occhi, aspettando le parole con cui Alveus mi consegnerà agli elfi drow, come se il non vedere potesse rendere meno doloroso quello che sto per sentire.

— È uscita subito dopo di te — ribatte invece la ninfa, facendomi spalancare gli occhi. — Non so dove sia andata.

Qualcuno esclama qualcosa che non comprendo ma che ha tutta l'aria di essere un'imprecazione, poi una terza voce si intromette nella discussione: — Forza, favorito, andiamo a cercarla.

Sento il rumore di una porta che si apre e di qualcuno che esce in fretta, poi la voce di Alveus afferma: —Vengo con voi, magari posso esservi utile.

Poi la porta sbatte, lasciando nell'aria un tintinnio di cristallo, e l'unico suono che rimane è il mio respiro irregolare.

Resto immobile ancora per qualche istante, congelata sul posto, mentre cerco di realizzare l'accaduto: Alveus mi ha lasciata andare?

Striscio fuori dal mio nascondiglio e mi avvicino levitando alla porta, in modo da non produrre rumore. La socchiudo leggermente, giusto per creare uno spiraglio che mi permetta di vedere il salotto, che ora appare deserto. Con estrema cautela sguscio nella stanza e l'attraverso fino a raggiungere l'altra porta, quella che dà sul corridoio. Socchiudo anche quella, stringendo il coltello nella mano; quasi mi aspetto che si tratti di una trappola e che le guardie, capeggiate da Alveus, siano fuori ad aspettarmi con un ghigno stampato sulla faccia, ma anche il corridoio è deserto.

Vattene, sento la voce di Alveus ripetere nella mia testa, e so che per ora non posso fare altro.

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