31. Salvare il salvabile
Io e Iris restiamo in piedi una davanti all'altra per un tempo che mi pare infinito, ma tengo gli occhi bassi, forse per la prima volta nella vita, perché non ho il coraggio di guardarla in volto. Poi, d'un tratto, mia sorella rompe il silenzio: — Devi sporcarti i capelli di fango, altrimenti sei troppo riconoscibile.
Le sue parole mi risvegliano dallo stato di trance in cui ero caduta.
— Come fai a sapere tutte queste cose: che ero prigioniera, dove trovarmi, cosa fare? E perché mi hai liberata?
Dopo quest'ultima domanda mi guarda con gli occhi sgranati, come se avessi detto un'assurdità.
— Perché non avrei dovuto liberarti? — chiede, lasciandomi spiazzata.
— Beh, perché ho fatto cose che non possono essere perdonate.
— Cosa c'entra? Lym, non dire sciocchezze, ti avrei liberata anche se avessi commesso il peggiore crimine del mondo — afferma decisa, ed esita un attimo prima di continuare. — In questo caso specifico poi sei stata imprigionata per colpa mia — ammette, abbassando lo sguardo.
— Per colpa tua? — domando, e questa volta è il mio turno di fissarla come se avesse detto un'assurdità: mi risulta impossibile immaginare che qualcosa possa accadere per colpa e non per merito di Iris. Forse l'ho idealizzata un po' troppo.
— Sì, per colpa mia. Ero stata fatta prigioniera e mi avevano chiusa nella cella da cui siamo appena passate, quella con il buco nel muro. All'inizio non ce lo aveva, quel buco, ed era una normalissima cella come le altre. Vi sono stata chiusa dentro per giorni. Lunghissimi giorni. — Sospira, guardandomi angosciata al ricordo della sua prigionia. — Si rischia di impazzire, da soli e al buio per tutto quel tempo. Le guardie venivano ogni tanto per portarmi del cibo, che buttavano oltre le sbarre senza dire nemmeno una parola. Si sparpagliava sul pavimento ed ero costretta a strisciare in terra per cercare di recuperarlo tutto, servendomi solo del tatto.
Si zittisce un attimo, con lo sguardo perso davanti a sé, e io rispetto il suo silenzio. Poi riprende a parlare: — Forse in effetti sono davvero impazzita perché a un certo punto mi sono ritrovata a prendere a pugni e calci il muro, non so nemmeno io perché: forse solo per fare qualcosa, per provare qualcosa, fosse anche dolore. Di sicuro non mi aspettavo che una parete avrebbe ceduto, rivelandomi una via di fuga.
— Dove siamo? — le chiedo, guardandomi di nuovo intorno.
— Credo sia una casa abbandonata. Immagino tu sappia che gli elfi vivono sottoterra, in una miriade di tunnel a cui si accede grazie ai buchi visibili in superficie. Evidentemente questo è stato è stato costruito troppo vicino alle prigioni e nessuno se n'è mai reso conto — mi risponde, liquidando poi la cosa come non importante con un gesto della mano. — Comunque sia, sono scappata, ma ovviamente si sono accorti in fretta della mia scomparsa. Non appena ho sentito dire in giro che la fuggiasca era stata ricatturata, ho capito subito che si trattava di te: in fondo nessuno si sarebbe accorto della differenza. Solo gli occhi possono tradirci, ma quelle guardie mi avevano guardata in faccia per così poco tempo che di sicuro non avevano fatto caso al loro colore.
— E perché non è presidiato questo posto, se sei scappata da qui?
— Al momento eri l'unica prigioniera e ti hanno chiusa in un'altra cella da cui per te era impossibile uscire senza l'aiuto di qualcuno. Di certo non credevano che altri fossero a conoscenza di questa via di fuga e soprattutto non pensavano che qualcuno l'avrebbe usata per entrare.
Mentre mi racconta la sua disavventura estrae una bisaccia da sotto il letto, dove probabilmente l'aveva nascosta prima di infiltrarsi nelle prigioni, e ne tira fuori una boccetta d'acqua che fa gocciolare in un angolo particolarmente polveroso, creando una buona quantità di fango.
— Devi spalmartelo in testa: di sicuro cercheranno una ninfa con i capelli bianchi e questo diversivo ci farà guadagnare almeno un po' di tempo.
Mentre seguo il suo consiglio impiastricciandomi la testa con quella poltiglia marrone, ripenso alle parole che mi aveva detto la guardia e che all'improvviso acquistano un senso. Solo una frase continua ad aleggiarmi in testa, come una domanda senza risposta: ciò che è della bhanrigh è della bhanrigh, e chi cerca di portarglielo via avrà quello che si merita.
— E perché ti hanno messa in prigione?
Smette di armeggiare con la bisaccia, nella quale stava infilando la boccetta con l'acqua rimasta. Apre la bocca per rispondere, quando un rumore improvviso proveniente da oltre il muro gliela fa chiudere di scatto. Ci guardiamo preoccupate, con la stessa espressione stampata in viso.
— Siamo rimaste qui troppo a lungo, le guardie sono arrivate per il cambio prima del previsto — sussurra in fretta, mangiandosi le parole. — Dobbiamo andarcene.
Chiude la borsa con un gesto rapido e afferra la torcia dal candelabro, poi comincia a correre lungo un corridoio la cui imboccatura si trova dalla parte opposta della stanza rispetto al buco nel muro. La seguo, fidandomi ciecamente, e lei mi guida attraverso una serie interminabile di cunicoli. Ogni tanto incontriamo un incrocio, al quale Iris si ferma e osserva attentamente le pareti, forse cercando un segno, prima di proseguire. A un certo punto però siamo costrette a rallentare il passo, perché nessuna delle due è abbastanza in forze da correre così a lungo e, come se non bastasse, la strada è in salita.
Alla fine il tunnel termina in un vicolo cieco, lasciandomi perplessa, ma non faccio in tempo a chiedere nulla che Iris comincia a levitare per arrivare a una botola sul soffitto, che prima non avevo notato. Mi dà in mano la torcia mentre lei apre il passaggio e poi, una alla volta, emergiamo finalmente in superficie.
Rimango in piedi vicino alla botola, che Iris richiude in tutta fretta. La stanza in cui ci troviamo ora è buia come il corridoio da cui siamo appena emerse, e la torcia azzurra riesce appena a illuminare le pareti di terra compatta che la delimitano. Intorno a noi, a riempire lo spazio in modo apparentemente casuale, si trovano scatole, casse di legno e sacchi pieni, il che mi porta a credere che ci troviamo in un qualche tipo di deposito, ipotesi confermata poi dalle parole di mia sorella: — Questo è il magazzino delle cucine.
— Come conoscevi questa strada?
— È quella grazie a cui sono scappata. Ovviamente la prima volta è stato un caso che io sia arrivata proprio qui, ma ammetto che ritrovare la giusta via a ritroso non è stato semplice... È questo il motivo per cui ci ho messo tanto a liberarti, scusami.
Scusarla? E di cosa? Sono io a esserle debitrice. In generale odio avere favori in sospeso, ma in questo caso non mi importa: mi sento come se io e Iris fossimo in una specie di limbo fuori dallo spazio e dal tempo, in cui tutto è sospeso in attesa di qualcosa di indefinito. Immagino che sia la sensazione che si prova a volteggiare in una bolla di sapone sospinta dal vento. Forse la ragione è che ancora non riesco a credere che mia sorella sia davvero qui e mi aspetto di vederla sparire da un momento all'altro, scoppiando la bolla e facendomi precipitare al suolo.
— E adesso?
— La vedi quella porta? — mi chiede, puntando la torcia verso l'oggetto appena menzionato. — Oltre si trovano le cucine: sono stanze immense, piene di gente indaffarata che corre ovunque. Ora usciremo da qui e faremo finta di essere anche noi delle serve della bhanrigh.
— Come fai a sapere che nessuno ci noterà?
— Fidati, in quelle stanze c'è davvero troppa gente, e di tutte le specie: probabilmente non ci guarderanno neanche.
— Ma abbiamo i capelli sporchi di fango, qualcuno si farà qualche domanda.
Iris resta un attimo in silenzio a pensare, prima di rispondere: — Va bene, se ti senti più sicura ci mettiamo un copricapo in testa, ma il fango lo tieni, è essenziale camuffare il colore.
— Possiamo fare dei turbanti con la tela dei sacchi?
— Sarebbe meglio un tessuto bianco: qui tutti sono vestiti di quel colore — risponde abbassando lo sguardo sull'orlo dei nostri vestiti. Capisco subito cosa ha intenzione di fare. Mi guardo intorno cercando qualcosa con cui tagliare l'abito, per non avere uno strappo irregolare che attirerebbe di sicuro l'attenzione, e su un mobile di cristallo poco lontano scorgo delle lame di varie misure, che servono probabilmente ad affettare il cibo contenuto nei sacchi. Ne afferro una, quella che mi pare la più affilata, e taglio via una fascia di tessuto bianco, lasciando l'orlo un po' sfilacciato ma abbastanza regolare, nel complesso. Poi mi avvolgo in testa la pezza così ricavata, creando una specie di turbante, che Iris mi aggiusta in modo da lasciare sfuggire un paio di ciocche marroni.
— Così è perfetto — afferma soddisfatta.
Ripetiamo lo stesso procedimento anche su di lei, e poi faccio per rimettere a posto il coltello dove l'ho preso, salvo fermarmi all'ultimo, la mano sospesa sopra il mobile.
— Questo lo teniamo, potrebbe servirci — decido all'improvviso, strappando un'altra piccola fascia di tessuto e legandomi la lama alla coscia.
— Così rischi di tagliarti — mi informa Iris, con voce preoccupata, ma io faccio qualche passo per dimostrarle che si sbaglia. Lei non pare convinta, ma lascia cadere l'argomento.
— Andiamo — dico, impugnando la maniglia e aprendo la porta.
Ci ritroviamo in una stanza enorme, tanto larga che i muri si perdono in lontananza, nascosti dai vapori che si alzano da centinaia di pentole. Come aveva detto Iris, un numero incalcolabile di persone cammina di fretta in tutte le direzioni, spostando oggetti, controllando la cottura di questo o di quello, e intanto tutti urlano ordini che causano un nuovo frenetico movimento di persone che si somma a quello precedente.
— Cammina, Lym, non fermarti davanti alla porta — mi sprona mia sorella, spingendomi da dietro. Cancello dal mio viso l'espressione sorpresa e faccio un paio di passi, ma poi mi fermo, lasciando passare avanti Iris affinché mi guidi, perché io non ho la più pallida idea di dove andare.
Ci dirigiamo verso un gruppetto di persone, in mezzo alle quali spicca un uomo-farfalla dalle enormi ali rosa, e ci mettiamo in coda. Le domande mi si accavallano sulla punta della lingua, ma mi trattengo dal porle, cercando di apparire il più possibile consapevole di quello che sto facendo.
Le persone davanti a noi fanno un passo avanti, e un troll alto la metà di me si allontana portando un vassoio carico di piatti con le sue mani verdastre e nodose. Dopo di lui, anche un elfo abbandona la fila con una serie di pietanze impilate sulle braccia, e poi è il turno di un folletto. Passo dopo passo, arriviamo finalmente all'inizio della fila e un elfo drow ci mette in mano un vassoio a testa, ordinando con tono deciso a noi due e a una fata in coda alle nostre spalle: — Settore nero, primo piano.
La fata si incammina immediatamente a passo svelto, e noi la seguiamo attraverso le cucine e poi oltre una porta che ci immette in un corridoio altrettanto affollato. Mentre schivo le persone che vengono in senso opposto o che vanno più piano di noi, non posso non chiedermi cosa stiamo facendo: ero convinta che volessimo uscire dal castello, non perderci sempre di più al suo interno. Fingerci serve è una buona idea per passare inosservate, ma così, comportandoci davvero come serve, rischiamo solamente di avvicinarci di più alla bocca del leone che sicuramente non vede l'ora di divorarci. E inoltre non abbiamo tempo da perdere: dobbiamo ricongiungerci in fretta con Rohkeus e Gordost, e salvare poi Alveus.
Rohkeus.
Al pensiero del mezzelfo sento le guance imporporarsi. Fino a ora, concentrata com'ero sulla mia evasione, non avevo riflettuto realmente sul fatto che l'ho baciato.
L'ho baciato.
Certo, ero sotto l'effetto della bevanda nera, è questo l'unico motivo per cui l'ho fatto, non c'è altra spiegazione. Ovvio, non ci sarebbe nemmeno la necessità di ripensarci, in fondo anche lui sa che non significa niente.
Giusto?
Non riesco a spiegarmi allora perché mi sento così strana, come se avessi un gomitolo incastrato in gola, che piano piano si srotola nel petto e si aggroviglia intorno a cuore e stomaco, stringendoli nella sua morsa. Sono in attesa di qualcosa di indefinito, ansiosa di conoscere la reazione di Rohkeus al mio gesto. Mi sembra di essere in bilico sull'orlo di un burrone, col terreno sotto i miei piedi che si sbriciola minacciando di scaraventarmi di sotto da un momento all'altro, ma io non ho idea di cosa ci sia sul fondo e, benché precipitare sia spaventoso, non vedo l'ora di scoprirlo.
E mi sento in colpa: nei confronti del mezzelfo, ma soprattutto verso Alveus. Anche se non volevo, anche se il mio gesto è stato tutto tranne che intenzionale, mi sento come se lo avessi tradito, e questa consapevolezza, anche se fallace, mi fa stare male. Perché lo amo, certo, ma anche perché non se lo merita: ha già sofferto abbastanza per colpa mia, senza bisogno di aggiungerci anche questo.
D'improvviso la fata davanti a noi si ferma, arrestandosi così bruscamente da riportarmi alla realtà. Mentre ero persa nei miei pensieri abbiamo attraversato quasi mezzo castello e ora ci troviamo davanti a una porta di cristallo, alla quale la nostra guida inconsapevole bussa delicatamente.
Dall'interno risponde una voce e, anche se io non capisco cosa abbia detto, per la fata quelle parole devono evidentemente avere un senso, perché subito socchiude la porta, introducendosi nella stanza con noi al seguito.
Facciamo il nostro ingresso in un salottino di modeste dimensioni, ma curato fin nei minimi dettagli: i mobili appoggiati alle pareti sono di un vetro puro e trasparente, così come i divanetti al centro della stanza, che però sono poi ricoperti da un drappo di seta nera, fine e lucente. Su di essi siede una coppia di elfi drow, impegnati in una partita a scacchi, mentre un altro sta osservando qualcosa dalla finestra. Quest'ultimo si volta mentre noi entriamo e ci fa segno di poggiare i vassoi su un tavolo vicino alla porta, dopodiché la fata si inchina ed esce in fretta dalla stanza, imitata rapidamente da me e Iris.
Dopo essermi richiusa la porta alle spalle, faccio per seguire la fata che si allontana di corsa nel corridoio dal quale siamo arrivate, ma Iris mi blocca afferrandomi un polso con gentilezza. Mi giro a guardarla, stupita, e lei accenna un timido sorriso. Senza lasciarmi andare, mi trascina lontano dalla porta e, dopo essersi assicurata che non passi nessuno, mi spiega, sussurrando: — Siamo nell'ala del castello in cui si trovano le stanze dei favoriti della bhanrigh. Li hai visti, no? Quelli che le stanno sempre intorno come cagnolini ubbidienti.
— Sì, quelli che si sono rotolati nel letto con lei — affermo a mia volta, memore della spiegazione di Miann il soldato. — Ma che ci facciamo qui?
Iris esita un attimo, con la bocca socchiusa e l'espressione triste, prima di riprendere a parlare: — Tu ne hai incontrati alcuni, ma in realtà sono molti di più. — Si ferma un attimo, forse in cerca delle parole più adatte per dare una notizia che preferirebbe non dover riportare mai. Lo capisco da come evita il mio sguardo, dalla lunga pausa nel discorso, dal suo giochicchiare con la stoffa del vestito.
— Iris — la richiamo, poggiandole le mani sulle spalle e obbligandola a riportare i suoi occhi su di me. — Cosa c'è?
— Te l'ho detto perché sono qui, no?
Sono confusa. — No, non mi hai detto cosa ci facciamo in questa ala del castello.
Lei sbuffa. — Non qui qui. Intendo qui all'inferno.
Ora a sbuffare sono io, infastidita dal suo non arrivare al punto.
— Sì, sì, lo so: siamo qui per cercare Alveus. E allora? — È nel momento in cui pongo la domanda che un sospetto si fa strada nella mia testa, orribile e invadente. — E allora, Iris? — chiedo di nuovo, scuotendola.
— Ecco, io l'ho trovato — spara tutto d'un fiato, ansiosa di finire il discorso. — È qui, dietro una di queste porte.
Resto immobile, come congelata, con le mie mani sulle sue spalle e gli occhi fissi sul suo volto.
— Alveus è uno dei favoriti della bhanrigh? — Devo chiederlo, anche se è ovvio, perché per quanto mi sforzi non riesco a crederci.
Iris annuisce in maniera quasi impercettibile, come temesse di infrangere il mio fragile equilibrio con un gesto troppo rapido. Quello che non sa è che dentro di me si sta scatenando una tempesta.
No, non può essere. Alveus non può davvero essere uno dei favoriti della regina.
Nella mente mi risuonano le parole di Miann: chi si fa sedurre dalla nostra amata bhanrigh e va a letto con lei poi è costretto a servirla come uno schiavo per tutta l'eternità. E sono due le cose che in questa frase mi lasciano sconvolta: la prima, e sicuramente la più importante, è che non ho idea di come rompere il vincolo della sua schiavitù, ed è solo su questa che dovrei concentrarmi, perché la seconda in realtà non dovrebbe avere importanza. Voglio dire, la bhanrigh ha sicuramente fatto uso della magia per ammaliare Alveus col suo fascino e so quanto può essere irresistibile, quando vuole: ci era quasi riuscita anche con me. Ma comunque non riesco a scacciare dalla mia mente l'immagine di lei e di Alveus che si rotolano insieme sul letto, avvinghiati uno all'altro, con le mani che scorrono sui corpi nudi, le bocche fameliche sulla pelle, e...
— Lym, guardami — La voce di mia sorella squarcia le tenebre della mia fantasia e mi riporta al presente. — È stato tutto un inganno, solo una magia. — Ma sue le parole suonano incerte e sofferenti, come se anche lei provasse dolore nel pensare alla sorte di Alveus. — Lo libereremo e ogni cosa tornerà come deve essere. Lui ama solo te.
Vuole infondermi coraggio e forza mentre lo dice, ma la sua voce si incrina sulle ultime parole ed è costretta a distogliere lo sguardo dal mio, per nascondere la sua espressione ai miei occhi. Ora che so anch'io che ama a sua volta Alveus praticamente da sempre, mi fa così tanta tenerezza che, senza nemmeno pensarci, mi ritrovo a fare una cosa che non avrei mai creduto possibile e che stupisce tanto lei quanto me.
Le mie mani, ancora posate sulle sue spalle, scendono ad accarezzarle la schiena, e la avvolgo in un abbraccio. All'inizio rimane rigida e inerte, troppo sorpresa per reagire, e io per un attimo temo che si allontani, ma poi ricambia il mio gesto, appoggiando la testa sulla mia spalla e stringendomi a sé.
È strano eppure piacevole abbracciarsi così; un tempo era una cosa naturale e spontanea, ma ora sono passate così tante primavere dall'ultima volta che il mio corpo non riconosce le forme del suo, che non è più secco e spigoloso come quando era bambina. Tuttavia Iris è così morbida e confortante che non ci vuole molto affinché mi adatti nuovamente a lei, come due metà di uno stesso oggetto i cui spigoli nella parte fratturata sono stati smussati dal tempo e dalla lontananza ma che, nonostante tutto, si riconoscono ancora.
Restiamo abbracciate per un tempo indefinito, fino a che sussurro, con le labbra vicine all'orecchio di mia sorella: — E ora che facciamo?
Con delicatezza Iris si allontana, la tristezza sul suo viso ora mescolata a una nuova forza. — Ho già provato una volta a portarlo via con me, ed è per questo che sono stata catturata.
— Ti hanno scoperta?
— Sì, cioè, in realtà no. È stato Alveus stesso a chiamare aiuto e a denunciarmi ai soldati.
Evidentemente la mia espressione è così stupita che mia sorella continua la sua spiegazione, rispondendo alla mia domanda prima ancora che io la ponga. — Fa parte del vincolo di schiavitù: i favoriti della bhanrigh sono talmente invaghiti di lei che sono disposti a tutto pur di stare al suo fianco per sempre. Quello che sono stati prima non ha più importanza, e questa catena psicologica è più forte di qualsiasi altro legame. Ho sentito raccontare di favoriti allontanati da corte che sono morti di dolore, rifiutandosi di bere e di mangiare finché non fossero stati di nuovo con la loro amata.
La ascolto con gli occhi spalancati, raccapricciata da ciò che sento.
— E come si può infrangere questo vincolo? — chiedo, cercando di non farmi travolge da questo racconto dell'orrore.
— Non lo so — ammette Iris, sconfitta. — Ma magari se vede te si ricorda di chi era prima, rompendo l'incantesimo. Quando ha visto me quasi non mi ha riconosciuta, ma tu... Tu sei la sua promessa sposa, qualcosa dovrà pur significare.
Non sono convinta che il suo piano funzioni, ma al momento è l'unico che abbiamo e vale la pena tentare, anche se corriamo il rischio che ci denunci di nuovo, mandandoci entrambe in galera senza possibilità di salvezza. Se c'è anche solo una scintilla in Alveus che può essere salvata, io devo salvarla.
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