30. Gli specchi riflettono al contrario

Riconosco subito la voce nonostante si sia trattato solo di un sussurro, ma comunque non riesco a crederci: devo essere impazzita del tutto, perché questa non può essere altro che una visione.

— Iris?! ­— esclamo, sorpresa. Mia sorella? Qui? Sono confusa, non comprendo come faccia Iris a essere all'inferno. Perché? Come ci è arrivata? Come faceva a sapere che Alveus andava cercato qui?

È una visione, mi ripeto mentre prendo un respiro profondo a occhi chiusi. Sono gli elfi drow che si stanno prendendo gioco di me, ma io non cederò. Sono quasi riuscita a convincermene quando mia sorella parla di nuovo e lo fa con una voce tanto reale da farmi ricadere nell'erronea convinzione che tutto ciò sia vero.

— Sh, non urlare — mi zittisce, mentre la sua figura si fa più nitida davanti ai miei occhi ora spalancati e avidi di dettagli che mi mostrino definitivamente dove finisce la realtà e inizia l'immaginazione. — Dovrebbero esserci delle guardie nello stanzino.

In mano porta una piccola torcia dalla fiamma azzurra che le illumina il viso pallido, l'abito bianco e i capelli coperti di fango e raccolti sulla testa in una crocchia disordinata.

— Per tutti i fiumi, che ci fai qui? — le chiedo in un sussurro, ancora sconvolta.

— Le domande tienile per dopo, prima devo tirarti fuori — risponde veloce, mentre si guarda intorno circospetta.

— Come?

Mi mostra un piccolo oggetto che tiene tra le mani: sembra una comune scatoletta, chiusa sul lato superiore da un tappo rotondo, posto nel centro.

— Gas soporifero — spiega lapidaria, mettendomi la torcia in mano e avvicinandosi fluttuando allo stanzino. Immagino voglia usare il gas per addormentare le guardie, ma il suo piano mi sembra fare acqua da tutte le parti: quegli elfi sono sicuramente stati addestrati, si accorgeranno della presenza di mia sorella prima ancora che lei riesca a pensare di immobilizzarli e la butteranno in un'altra cella a marcire per l'eternità insieme a me. In effetti è strano che non si siano ancora accorti dell'intrusa. Molto strano. Troppo. È praticamente impossibile che non ci abbiano sentite parlare, considerato anche il silenzio assoluto che regnava fino all'arrivo di Iris.

Stringo più forte la torcia, mentre mi convinco che qualcosa che non va: in circostanze normali a questo punto saremmo già state entrambe prigioniere.

All'improvviso mi tornano in mente le urla e l'odore di bruciato che ho sentito poco fa (o giorni fa, perché in realtà non ho idea di quanto tempo sia passato da quando sono stata rinchiusa qui) e un'intuizione mi balena nel cervello.

­— Iris! — urlo, non preoccupandomi di tenere bassa la voce. ­— Non aprire la porta!

Ma l'avvertimento le arriva troppo tardi e le mie parole sono coperte dalle sue grida, a metà fra il sorpreso, lo spaventato e l'inorridito. Durano poco e poi tutto è di nuovo silenzio.

Cerco di sporgermi il più possibile dalla mia cella per verificare che Iris sia ancora viva, ma da dove mi trovo non riesco a scorgere nulla.

— Iris! — la chiamo di nuovo, ma lei non mi risponde. Il cuore comincia a martellarmi velocissimo nel petto: io sapevo cosa c'era nella mia borsa, avrei dovuto capire subito cosa era stato a far urlare le guardie a quel modo e a bruciarle. Se fossi stata più sveglia a mia sorella non sarebbe successo nulla. E invece ora potrebbe essere morta. Per colpa mia. Un'altra volta colpa mia.

— Iris!

— Ti ho detto di non urlare — ribatte lei, seccata, ricomparendo davanti alla mia cella. La scruto in cerca di un graffio, un segno, qualcosa, ma sembra perfettamente incolume e non posso che lasciare andare la tensione con un grosso respiro.

— Che è successo di là? — mi domanda lei, riprendendo a sussurrare, forse timorosa che anche i muri abbiano orecchie.

— Credo che le guardie abbiano aperto la mia borsa.

Iris mi guarda con aria interrogativa, senza riuscire a collegare le due cose.

— Nella bisaccia c'era un enorme cubo corrosivo.

— E come faceva a stare nella bisaccia?

— Non lo so, credo fosse magica... L'ho trovata mentre stavo venendo qui, cioè, qui all'inferno, in realtà non è mia. Pare sia senza fondo.

A sentire le ultime parole i suoi occhi si spalancano, sorpresa da quello che ha appena sentito.

— La mia bisaccia... — sussurra, come parlando tra sé e sé.

— La tua bisaccia? — Questa volta sono io quella sorpresa.

— Sì, la mia bisaccia — ribadisce lei, sottolineando il concetto. — L'aveva tessuta la mamma, ma poi mi ero fatta fare un incantesimo da Aranea per renderla infinitamente capiente: pensavo mi sarebbe stata utile per portare cose ingombranti, come quando tagliavamo la legna per l'inverno e dovevamo trasportarla a casa. Avrei voluto portarla con me all'inferno, ma l'ho persa entrando in questo mondo.

Gli avvenimenti si collegano nella mia testa, come fili di trama e ordito che, tessuti insieme, vanno a formare l'arazzo degli eventi. Vorrei chiedere a mia sorella un sacco di altre cose: come ha fatto a cavarsela nell'inferno senza avere niente con sé, oppure come mai io non ero a conoscenza dell'esistenza di questa bisaccia. In effetti quest'ultima considerazione non dovrebbe sorprendermi perché io, negli ultimi anni, di Iris non sapevo praticamente niente e lo dimostra il fatto che non sono in grado di spiegarmi come abbia fatto lei invece a sapere che l'inferno era il posto giusto in cui cercare. Questa in realtà è la domanda più grande e che più meriterebbe una risposta, ma mia sorella non mi lascia il tempo di formulare nessuno dei miei quesiti, chiedendo a sua volta: — Ma quel cubo acido scioglie qualunque cosa?

— Credo di sì.

— Quindi anche le sbarre della prigione.

È geniale. È un'idea che avrei potuto avere anch'io, se il mio cervello non fosse ancora in parte anestetizzato dalla bevanda nera.

Scuse, in realtà le mie sono solo scuse: com'è possibile che, nonostante tutto quello che ho passato, non riesca ancora ad accettare che Iris potrebbe avere idee migliori di me? Che possa realmente essere migliore di me?

— Ma come fai a portarlo qui? — le chiedo, cercando di scacciare quei pensieri fastidiosi. — L'unica cosa che non viene sciolta è la bisaccia...

— Che però sta dentro la stanza, all'interno del cubo — conclude lei la frase, poi resta un attimo in silenzio a pensare. — Basterebbe un oggetto che resiste il tempo necessario a portare parte della gelatina da lì a qui... Aspettami un attimo, torno subito — afferma, riprendendo la torcia dalle mie mani.

— Ma le guardie non cambiano mai? ­— chiedo all'improvviso, fermandola. È un dubbio che mi è appena sorto, ma non è questo il vero motivo per cui l'ho trattenuta: la realtà è che non voglio che si allontani perché ho paura di vederla sparire nel buio del corridoio per non tornare più.

— Hanno turni molto lunghi, abbiamo ancora tempo prima che qualcuno arrivi e si accorga dell'accaduto, e noi per allora ce ne saremo già andate — mi tranquillizza, prima di allontanarsi con un passo rapido che in parte nega le sue parole. Per un po' vedo la luce blu allontanarsi, poi mi ritrovo di nuovo sola e immersa nell'oscurità.

Ho sempre pensato a Iris come alla gemella dolce, gentile e fragile, e a me come a quella forte e che non necessita dell'aiuto di nessuno, ma in questo momento ho l'impressione che si siano invertiti i ruoli: ora è lei quella decisa, che sa cosa dobbiamo e non dobbiamo fare, mentre io sono l'anello debole della catena, quello che rischia di rovinare tutto. Forse in realtà è sempre stato così, quella fragile sono sempre stata io, anche se ho passato la vita a convincermi del contrario.

Mentre l'aspetto, rifletto sulle sue parole riguardo alle guardie: sono informazioni dettagliate e lei ne sembra davvero convinta, tanto da spingermi a chiedermi come faccia mia sorella a sapere tutte queste cose. Continuo a crogiolarmi nel dubbio finché lei non ricompare, stringendo tra le braccia quelle che paiono delle ante in vetro di una credenza. Nell'insieme la visione è tanto strana che inizialmente la guardo senza riuscire a parlare, mentre lei poggia in terra gli oggetti (che si rivelano essere tre), prima di sollevarne uno e dirigersi verso lo stanzino delle guardie.

— Cosa pensi di fare? — le domando infine. — Da dove li hai presi?

— Voglio far rotolare un pezzo di gelatina acida fino alle sbarre con l'aiuto di questa — mi spiega mostrandomi la prima anta. — Spero che resista almeno per un terzo del tragitto prima di sciogliersi, in fondo la strada da fare non è tanta. — Poi scompare dalla mia vista.

La vedo ritornare poco dopo, avvolta da un fastidioso odore di bruciato: quando compare nel mio campo visivo dell'anta non rimane praticamente niente, ma quanto meno Iris è riuscita a tagliare un pezzetto di cubo e portarlo fin lì. Per arrivare alle sbarre consuma tutta un'altra anta e per spalmare l'acido su una superficie più vasta possibile fa fuori anche tutta la terza, ma pare bastare perché in breve anche le sbarre si corrodono sfrigolando e diffondendo nell'aria un odore nauseabondo, che mi fa vomitare un'altra volta.

— Lym, tutto bene? — mi domanda mia sorella con voce preoccupata.

— Sì, tutto a posto — ribatto io, e riesco appena a trattenermi dall'aggiungere "non ho bisogno del tuo aiuto", che sarebbe una grande menzogna dettata dall'orgoglio e dall'abitudine. Inghiotto le parole come un boccone amaro, consapevole che senza Iris forse non sarei mai riuscita a uscire da qui. In effetti non capisco perché stia facendo tutto questo per me, considerato che l'ultima volta che l'ho vista era follemente arrabbiata, tanto da avermi appellata mostro. Ma in fondo lei è Iris: perdona sempre, anche quando non dovrebbe.

Mia sorella illumina con la torcia azzurra il buco appena creato e mi allunga una mano per aiutarmi a uscire senza toccare le sbarre sporche di acido. All'inizio non accetto la sua offerta, ma poi, quando a un certo punto perdo l'equilibrio rischiando di cadere, afferro le sue dita per non lasciarle fino a che non sono uscita del tutto.

Mi raddrizzo davanti a lei, le mani ancora intrecciate, e per un istante sento l'assurda necessità di abbracciarla e di essere ricambiata, ma la scaccio in fretta, liberando le mie dita dalla sua presa con un gesto secco. Il suo volto resta però impassibile, né turbato né sorpreso dalla mia mossa repentina, forse perché abituata da anni al mio comportamento scostante. Mi chiedo come sarebbe stata la mia vita se non si fosse mai aperta questa frattura fra di noi.

— E ora? — le domando brusca, anche se in realtà quello che vorrei dirle è un immenso "grazie", che però non ne vuole sapere di lasciare le mie labbra. I suoi occhi indecifrabili sono ancora fissi su di me e mi stanno scrutando come se stessero valutando l'entità dei danni subiti dal mio corpo. Un brivido mi attraversa la colonna vertebrale, mentre incrocio le braccia sul mio petto nudo. Per un attimo i suoi lineamenti si addolciscono, prima di parlare.

— Seguimi.

Ci addentriamo nel corridoio buio, lei davanti e io dietro, come sempre: lei è sempre stata avanti, migliore di me in tutto. Il vecchio e famigliare veleno ricomincia a gocciolarmi nel cuore, come se da tutto quello che mi è successo non avessi imparato niente, e mi odio per questo. Cerco di scacciare via questi pensieri morbosi e sterili, concentrandomi sul qui e sull'ora, sul fatto che Iris è venuta a salvarmi e io gliene sono immensamente grata.

Ci fermiamo davanti a un'altra cella con la porta aperta e nella quale mia sorella si infila in fretta. Io però resto un attimo interdetta: usciamo da una prigione per entrare in un'altra? Qual è il senso? Tuttavia decido di fidarmi di Iris, ed entro a mia volta quando lei si gira verso di me facendomi segno di seguirla.

Non appena la raggiungo, mia sorella illumina con la torcia un buco nel muro abbastanza grande da permettere il passaggio di un animale. O di una ninfa. Infatti Iris sguscia dentro all'apertura e io la seguo, mettendo da parte tutte le mie domande per un momento più opportuno. Mi aspettavo di dover strisciare per corridoi infiniti, ma il tratto da percorrere è cortissimo, praticamente solo lo spessore di un muro, e per questo quasi precipito di faccia dall'altra parte. Con un movimento disperato salvo il volto da una brutta fine, ma non riesco a impedirmi di cadere malamente in terra, andando ad aggiungere un ulteriore livido a tutti quelli che il mio corpo ha già collezionato.

Mi rialzo in fretta con una smorfia di dolore, mentre Iris infila la torcia in una sorta di candelabro posto su un tavolo in mezzo alla grotta, che mi accorgo subito essere in realtà una stanza di forma circolare. Un letto a baldacchino con le tende leggere e sbrindellate fa la sua inquietante apparizione alla mia destra, affiancato da una grande cassettiera, da un armadio e da una credenza senza ante, tutti fatti in cristallo lavorato. Il pavimento invece è in terra battuta, ruvida e polverosa sotto i miei piedi.

— Ti serve un vestito — afferma Iris, avviandosi verso il guardaroba dal quale estrae un abito bianco uguale al suo. Me lo porge e io lo afferro con un gesto rapido, desiderosa di coprirmi il più in fretta possibile. Essere nuda davanti a mia sorella è un'esperienza estraniante, più che trovarmi nella stessa situazione davanti a degli estranei: proprio lei, che in realtà è fatta esattamente come me, ma che di me conosce solo la facciata che ho sempre mostrato a tutti. Trovarmi così, spogliata di tutte le mie vesti e le mie sicurezze, mi fa sentire tremendamente fragile, nonostante mi sia sforzata così tanto per apparire sempre più forte di lei in tutto.

Ora che sono vestita mi sento già più padrona di me, tanto che decido di porle la prima delle mille domande che ho in testa: — Che ci fai qui?

— Sono venuta a cercare Alveus.

­— Ma come facevi a sapere che si trova proprio qui?

All'improvviso mi assale il dubbio che mia sorella sappia tutto di me, molto più di quanto io abbia sempre creduto, e che il mio patto con il Principe per lei non sia mai stato un mistero.

— Quando, durante il matrimonio, quella voce di demone ha reclamato Alveus ho finalmente capito — spiega infatti Iris senza guardarmi in volto.

— Cosa hai capito?

— Tutto: cosa è accaduto nel bosco tanti anni fa, perché hai sviluppato all'improvviso quel magnifico potere. — D'un tratto si volta verso di me, con gli occhi ambrati infiammati da schegge cremisi. — Ora ti prego spiegami perché: perché hai dovuto stringere un patto con un demone per apparire diversa? Perché non ti è mai bastato quello che avevi? — esclama quasi urlando, riuscendo appena a trattenersi.

­— Non avevo niente — rispondo di getto, in un patetico tentativo di difendere le mie stupide gesta.

— Sciocca Lym, non è vero, tu avevi tutto: avevi due genitori fantastici, degli amici e una bella casa. Avevi me! Ma tu eri così cieca da non vedere tutto ciò e da accanirti sull'unica cosa che la vita non ti aveva dato. Ne è valsa davvero la pena buttarmi via per ottenere invece un pizzico di magia?

— Tu non capisci — ribatto, punta sul vivo. — Tu avevi tutto, che ne sai di cosa significa essere me, quella imperfetta, quella uscita male, quella difettosa?

— Sciocca, sciocca — ripete, scuotendo la testa. — Io non avevo tutto, io ho perso te e avrei dato via tutta la mia magia per averti di nuovo indietro.

Dopo le sue parole nella stanza cala il silenzio e io mi ritrovo a boccheggiare, senza sapere cosa ribattere e cercando di dare un senso a quello che ho appena sentito.

— All'inizio non ci credevo, sai? — riprende a spiegare lei. — Non potevo accettare che mi stessi mettendo da parte. Non capivo perché all'improvviso non volevi più giocare con me o perché avevi cominciato a rispondermi male, e questo ben prima che comparisse miracolosamente il tuo potere. Ma quando questo è accaduto, ne sono stata così contenta: pensavo che finalmente saresti stata felice e mi avresti voluto bene di nuovo, ma in realtà la magia ha solamente accresciuto la tua arroganza. —Sospira. — Certi giorni non ti sopportavo, mi facevi davvero arrabbiare e mi chiedevo se fossi stata sostituita dai folletti con una versione cattiva di te: a volte sembrava che facessi le cose soltanto per infastidirmi.

La fisso, in silenzio, cercando di immaginare me stessa attraverso i suoi occhi, e mi vedo come un mostro invidioso e mai sazio, sempre pronto a cibarsi della felicità altrui quando avrebbe potuto riempirsi la pancia con la propria, di felicità, se solo avesse prestato più attenzione a quello che aveva invece che a quello che non aveva.

— All'inizio non ci avevo creduto che fossi proprio tu la bambina che faceva rituali demoniaci nel bosco... — sussurra Iris, abbassando lo sguardo. Questa sua affermazione mi risveglia bruscamente.

— Ma tu come lo sai? Come fai a essere a conoscenza del rituale?

— Gli animali — afferma lei, come se bastasse a spiegare tutto e in effetti è così. Mi sento tanto stupida per non averci mai pensato, in tutto questo tempo: è ovvio che gli animali abbiano assistito al mio patto ed è ovvio che ne abbiano parlato a Iris.

— Il giorno che hai mostrato per la prima volta il tuo potere erano tutti così spaventati, specialmente i gufi e gli altri uccelli notturni. Mi hanno detto di aver visto una bambina con i capelli bianchi fare magie demoniache nel bosco, richiamando forze oscure nel nostro mondo. Io non credevo che fossi tu, quella bambina — ripete, come a scusarsi.

— E perché non hai detto niente a nessuno?

— E a chi avrei dovuto dirlo? Benché io non ci credessi, tutti avrebbero pensato subito a te e non volevo che accadesse. Pensavo che in fondo, se anche fossi stata tu, ora avevi un bel potere, nessuno si era fatto male e forse mi avresti voluto bene di nuovo. Avevo dodici primavere, non avevo considerato che tutto ha un prezzo.

Iris lo ha sempre saputo. Questo pensiero continua a girarmi in testa come una trottola impazzita. Iris ha sempre saputo e non lo ha mai detto a nessuno per proteggermi.

Prendo un bel respiro per infondermi coraggio prima di chiederle la cosa che più mi preme sapere: — Quindi ora non mi odi?

Lei esita prima di rispondere. Punta i suoi occhi nei miei, e io leggo sul suo volto dolcezza e decisione, due caratteristiche che io non ho mai saputo incarnare insieme, ma che lei unisce divinamente. Penso a quanto mi somigli: ferme così, in mezzo alla stanza, entrambe vestite di bianco e con i capelli sconvolti, potremmo essere una il riflesso dell'altra. Eppure la somiglianza è tutta lì, nel puro e semplice aspetto esteriore.

— Lympha, io non ti odio: non l'ho mai fatto né mai potrò. Ti perdono per aver desiderato così ardentemente la magia da essere ricorsa all'aiuto di un demone. Ti perdono per avermi messa da parte primavera dopo primavera. — Ogni sua parola mi toglie un macigno dal petto e mi sento tanto leggera da poter spiccare il volo. — Ti perdono tutto, tranne una cosa: l'aver sacrificato la vita di qualcun altro, la vita di Alveus, per soddisfare i tuoi desideri egoistici. Quello no, non posso perdonarlo. — Fa una piccola pausa, prima di finire, con voce disperata: — Non lo avevo previsto, non lo avevo nemmeno lontanamente immaginato, ma non appena il demone si è portato via Alveus dalla Roccia mi si è accesa questa possibilità nella mente ed era tanto orribile quanto reale. Oh, Lympha, come hai potuto?

Le sue ultime frasi mi pugnalano al cuore, ferendomi più di quanto qualunque lama potrà mai fare. Non mi ero mai accorta di desiderare così tanto il suo perdono totale fino a ora che mi è stato negato. Vorrei spiegarle come stanno le cose, dirle che quando ho stretto il patto non ho mai realmente pensato alle sue conseguenze, che vorrei tanto tornare indietro a quel momento e prendere una decisione diversa, e che nessuno mi odia quanto me stessa per quella scelta tanto sbagliata. Ma sto zitta, perché ogni mia parola suonerebbe come una scusa, come un patetico tentativo di giustificare l'ingiustificabile. Me lo merito, il suo disprezzo.

Gli occhi decisi di Iris si macchiano di tristezza, forse rispecchiando l'espressione del mio volto. Sembrate una il riflesso dell'altra, ci dicevano le ninfe della Comunità quando eravamo piccole. E io lo odiavo perché non sopportavo di essere la copia malriuscita di mia sorella. Quello a cui non avevo mai dato valore è che gli specchi riflettono sì quello che hanno davanti, ma al contrario. Rendono destra la sinistra, male il bene, odio l'amore.

Iris ha voluto per tutta la vita avere indietro il mio affetto, ma io non avevo che odio da darle, e ora che io vorrei solo che mi guardasse come prima con occhi colmi d'amore, lei non può perdonarmi.

La Iris dei miei pensieri è sempre stata bidimensionale: buona e cara, con la profondità di una pozzanghera. Per qualche strano motivo ho sempre creduto che non fosse mai stata toccata da insoddisfazioni o drammi, che la parte di sofferenza della vita fosse spettata tutta a me mentre a lei era stata riservata tutta la gioia. Solo ora noto le mille sfaccettature di mia sorella, che per tutti questi anni ho deciso deliberatamente di non vedere: è buona, ma perché sceglie di esserlo, anche quando sarebbe più facile per lei comportarsi egoisticamente; perdona tutto il perdonabile, ma a volte è troppo persino per lei. E se il mio peccato è tanto grande che nemmeno Iris può perdonarmi, chi mai potrà farlo?

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