29. Dove non arriva la luce
Il portone si chiude alle mie spalle con un tonfo e un tintinnio di cristallo, e mi ritrovo in un piccolo atrio. Dalle pareti trasparenti trapela la luce esterna, che si rifrange con mille lame luminose sui muri sfaccettati, accecandomi. Con gli occhi socchiusi per ripararli da tutto quel fulgore, intravedo un buco scavato direttamente nel terreno in mezzo alla stanza ed è proprio verso quell'apertura che mi spingono le guardie, obbligandomi a scendere una scala di cui non si distingue la fine, fagocitata dalle tenebre più fitte. I gradini sono di terra battuta e sconnessi, tanto che rischio di inciampare e cadere a ogni passo, forse anche per colpa della testa che mi gira come una trottola impazzita.
Più scendiamo più il corridoio che stiamo percorrendo si fa buio e angusto. Ormai non vedo più dove metto i piedi e procedo a tentoni, sospinta e sostenuta dal soldato alle mie spalle. Non so se loro riescano a distinguere qualcosa in questa fitta oscurità, forse gli elfi drow hanno una vista più fine delle ninfe: in fondo noi siamo creature di luce e acqua, non dovremmo stare in queste tortuose gallerie sotterranee. Non dovremmo proprio.
Non dovrei essere qui. Dovrei essere a casa, sposata ad Alveus, a festeggiare i nostri primi giorni da marito e moglie.
Non dovrei essere qui.
Una sensazione di ansia mi assale, impedendomi di respirare, quasi avessi dell'ovatta in gola. Sento i corridoi che mi schiacciano, anche se non riesco a vederli, o forse a opprimermi è l'oscurità stessa, che preme da tutte le direzioni. Il sopra e il sotto sono indistinguibili, per quanto ne so potrei anche star camminando a testa in giù, tanto in questo inferno tutto è possibile.
Tranne respirare, quello non riesco più a farlo. Mi manca l'aria, mi manca l'acqua. Non posso andare avanti.
All'improvviso le gambe mi cedono, come giunchi piegati dal vento, e sbatto malamente contro i gradini. Sicuramente sarei rotolata fino alla fine della scala, che forse in realtà non finisce mai, se la guardia non mi avesse afferrato in fretta, rimettendomi subito in piedi con movimenti bruschi e duri.
— Non fare scherzi, ninfa — mi sussurra in un orecchio, mentre il suo fiato caldo mi accarezza la guancia. — Cammina e non ribellarti, ché tanto è inutile.
Mi trattiene vicino a sé un attimo di troppo, stringendomi con violenza il braccio, e poi mi sprona a riprendere la discesa. Cerco di calmare il respiro, ancora affannoso, contando i gradini, e in parte funziona, anche se il mio cuore continua a battere tanto veloce che mi sembra di avere un colibrì che batte le ali nel centro del petto.
All'improvviso la scala finisce e quasi cado in terra quando allungo il piede e lo poggio, aspettandomi un altro gradino che invece non c'è. Uno dei soldati accende una torcia dalla fiamma azzurra e mi domando perché abbia aspettato fino ad adesso per farlo.
La luce tremolante invade l'ambiente, illuminando il piccolo vestibolo in cui ci troviamo, una porta nella parete alla mia destra e un corridoio infinito che si estende davanti a me. Il pavimento, il soffitto, tutto è fatto in terra grezza, tranne la porta e le sbarre delle celle vuote che si aprono su entrambi i lati del corridoio, che invece riflettono la luce come se fossero di diamante.
La guardia che mi ha guidata lungo la scala mi fa voltare verso di lei, ma io barcollo e vado a sbatterle contro, mentre la testa continua a girare. Per la prima volta vedo l'elfo in faccia e in lui riesco a scorgere solo durezza e impassibilità: i suoi occhi neri, dello stesso colore della pelle e dei capelli, lo fanno sembrare un pezzo compatto di ossidiana, che io non posso in alcun modo scalfire. All'improvviso mi sento incredibilmente piccola e fragile, come se fossi una formica in mezzo a dei giganti invincibili.
Mentre il soldato mi tiene ferma, un altro mi strappa di dosso la borsa che tenevo a tracolla e la lancia a un altro elfo ancora, poi si volta di nuovo verso di me e comincia a togliermi i vestiti, senza preoccuparsi di slacciare bottoni e nastri, ma strappandoli senza riguardo.
Urlo, mentre cerco di recuperare i brandelli di abito che mi vengono sottratti, ed è come se mi stessero strappando la pelle, lasciando esposta la carne viva. Faccio aderire al corpo i pezzi di tessuto che riesco ad afferrare, coprendo il seno e chiudendomi a riccio, ma le guardie, una, due, tutte, non lo so quante, non riesco a distinguerle attraverso le lacrime, me li sfilano dalle mani deboli e tremanti che si ritrovano a stringere solo aria. Non ho più niente: tra le mani, addosso e tra i capelli, che ora mi piovono davanti alla faccia e sulla schiena.
Le guardie mi rimettono in piedi con la forza, mentre io grido con tutto il fiato che ho in gola, ma la mia voce viene assorbita e cancellata dalla sterile terra che ci circonda. Le loro mani sono calde, tanto che paiono bruciare sulla mia pelle ora scoperta e vulnerabile e, anche se mi afferrano solo per le braccia e per le spalle, ho l'impressione che mi tocchino ovunque, come se molteplici ragni neri dalle lunghe zampe mi stessero camminando addosso. Cerco di allontanarli dal mio corpo, ma loro non se vanno, rendendo vano ogni mio tentativo.
Vengo scaraventata brutalmente nella prima cella disponibile e mi ritrovo con la faccia nella terra polverosa. Mi rialzo il più in fretta possibile, ma quando riesco a mettermi in piedi, barcollante, l'ingresso è già stato serrato e io sono chiusa dentro, in trappola. Scuoto le sbarre, ma queste non si muovono nemmeno dello spessore di un'unghia.
— Perché? — urlo, mentre sento i loro passi allontanarsi. — Perché sono qui? Cosa ho fatto di male?
Le guardie si fermano e quella con gli occhi neri torna davanti alla mia gabbia. Mi scruta un attimo, da capo a piedi, ma senza soffermarsi su nulla in particolare, come se fossi un oggetto senza attrattiva o valore e forse senza nemmeno vedermi veramente; poi finalmente mi risponde: — Sciocca ninfa, mica credevi davvero di riuscire a scappare? Ringrazia solo che non sei un elfo drow, altrimenti ti saresti già unita alla danza macabra.
— Scappare? Ma io...
— Rispondi tu a una domanda — mi interrompe lui. — Chi ti ha dato quei vestiti e la sacca? Chi è il traditore che ti ha aiutato?
— Traditore? Non capisco...
— Oppure fai finta di non capire. Il concetto è semplice, te lo spiegherò un'ultima volta: ciò che è della bhanrigh è della bhanrigh, e chi cerca di portarglielo via avrà quello che si merita — sentenzia mentre si allontana, con l'aria scocciata di chi ha già perso troppo tempo.
— Ma io non le ho rubato niente.
Nessuno però si prende il disturbo di ribattere e la mia voce viene coperta dal rumore di una porta che sbatte e di passi sulle scale: probabilmente il gruppo di soldati si è diviso in due, una parte si è chiusa nella stanzetta a fianco del vestibolo e l'altra sta risalendo verso la superficie, ma non posso esserne sicura perché l'unica cosa che vedo da qui è la cella di fronte. Poi d'un tratto qualcuno spegne la torcia e a questo punto non vedo più niente, nemmeno le mie mani ancora strette intorno alle sbarre.
Cerco di dare un senso alle parole dell'elfo, ma il mio cervello non riesce a concentrarsi su niente e le sue frasi mi rimbalzano sconnesse nella testa, come una farfalla che svolazza di fiore in fiore senza posarsi a lungo su nessuno.
Per un attimo rimango immobile, senza quasi il coraggio di respirare per paura di risvegliare l'oscurità che mi sta braccando come un predatore. Ho l'impressione che anche il minimo gesto potrebbe scatenare il mostro che si nasconde dove io non lo posso vedere, ossia ovunque, in qualunque angolo di questa cella e perfino davanti ai miei occhi ciechi.
Poi dei rumori di oggetti spostati, provenienti dalla stanzetta che si affaccia sul vestibolo, rompono l'incantesimo, attirando la mia attenzione: sento un tintinnio metallico, un frusciare di stoffa e qualcosa in vetro che va in frantumi. Immagino che le guardie stiano frugando nella mia borsa, e nella mia mente riesco a scorgere i loro artigli da rapaci che afferrano le mie cose, contaminandole come potrebbero fare le mani di Callàis, putrefacendo gli oggetti e rendendoli inutilizzabili.
A un tratto delle grida si levano nell'oscurità e sono così strazianti da farmi rizzare i peli sulle braccia. Mi riempiono il cervello e le membra a tal punto che mi sembra di star soffrendo anch'io, e mi ritrovo a gemere e piangere senza nemmeno conoscerne la ragione. Durano poco, solo qualche istante, prima di spegnersi così come sono iniziate, mentre una puzza insopportabile di bruciato si diffonde nella mia cella.
E poi tutto è silenzio.
Quello che prima avevo preso per bruciato si trasforma in un odore dolciastro di morte, che impregna le mie narici causandomi conati di vomito che non riesco a trattenere. Rimetto lì dove sono, in parte in terra, in parte sulle mie stesse mani ancora aggrappate alle sbarre. Mi sento un naufrago disperso nell'immensità dell'oceano in una notte nera e senza luna, con l'unico appiglio di quelle fredde sbarre che in realtà più che salvarmi mi rendono prigioniera. Se mi allontanassi non avrei più niente di solido a cui fare affidamento, niente di vero e reale: fluttuerei semplicemente in questo mare di niente, aspettando una morte che forse non arriverà mai.
In realtà immagino che non farebbe poi molta differenza perché essere morti deve essere più o meno così: galleggiare in un nulla eterno, ma forse con il vantaggio di non saperlo, di non esserne cosciente, di non essere e basta. Invece in questo modo è un'esistenza a metà: esisto solo perché io so di esserci, e penso, e respiro. Ma se nessuno dovesse più sapere niente di me, se rimanessi per tutta l'eternità in questa prigione, nascosta fino a che nemmeno una persona serberà più il ricordo di chi sono stata, esisterei davvero?
L'odore acido di vomito si mischia alla puzza di morte, invitandomi ad allontanarmi da dove sono ora. Faccio qualche passo verso destra, aggrappandomi alle sbarre per non perdere il contatto con la realtà e per non cadere: la testa infatti continua a pulsare e girare, facendomi barcollare a ogni passo. Mi sento la mente terribilmente confusa e lenta, e non riesco a pensare con sveltezza, ogni idea pesante come un macigno, troppo perché il mio cervello sia capace di maneggiarla con agilità.
Cammino fino a che incontro il muro invisibile che delimita il mio mondo, al quale mi appoggio, lasciandomi poi scivolare fino a sedermi sul pavimento. Sento la mia pelle sfregare sulla terra ruvida e poi affondare nella polvere e solo ora mi ricordo che sono nuda come un verme. Nuda, completamente nuda e al buio, quasi fossi tornata nel grembo materno. Ma senza Iris.
Mi stringo le gambe al petto, mentre il mio corpo non può fare a meno di tremare, forse per colpa del freddo, della paura o della solitudine. Immagino esseri striscianti che fuoriescono dalla terra sulla quale sono seduta, neri come l'oscurità che li ha prodotti, e che camminano sulla mia pelle, ricoprendomi da capo a piedi. Cerco di convincermi che non ci sono, che sono solo frutto della mia mente sconvolta, ma li sento camminare su di me, con le loro zampette che mi solleticano le gambe o che strisciano sulle mie braccia, viscidi e molli.
Forse sono bisce, nere bisce che mi avvolgono nelle loro mortifere spire, o vipere che sussurrano veleno nelle mie orecchie prima di uccidermi con un bacio.
Cerco di scacciare gli invasori con le mani, ma più ci provo più ne sento, e a un tratto ho l'impressione che mi stiano entrando sottopelle, fondendosi all'acqua nelle mie vene. Gratto le braccia, nel tentativo di allontanare le bestie da me prima che sia troppo tardi e io perda il pieno possesso di me e del mio corpo. Sento le unghie incidere la carne e l'acqua bagnarmi le mani, ma quegli esseri sono ancora lì, che strisciano zampettano saltano mordono pungono mi ricoprono mi invadono e non riesco a scacciarli e non se vanno non se ne vanno non se ne vanno...
A un certo punto devo essermi addormentata perché, quando riprendo coscienza, fatico ad aprire gli occhi a causa delle lacrime che si sono seccate sulle ciglia, incollandole insieme. Non che tenere gli occhi aperti o chiusi faccia differenza.
Ho le labbra secche e la bocca asciutta, e devo assolutamente fare la pipì, anche se mi disgusta urinare nella cella. Un'immagine orribile di me che vivo per l'eternità nei miei escrementi si fa strada nel mio cervello, ma cerco di rimuoverla subito. Devo convincermi che uscirò da qui e per farlo devo prendermi cura della mia salute, sia fisica che mentale.
Mi alzo lentamente in piedi, aggrappandomi alle sbarre, anche se ora la testa mi gira molto meno e riesco a stare in piedi senza barcollare. Decido di adibire a latrina l'angolo opposto a quello in cui mi trovo e che raggiungo costeggiando il muro.
Fare la pipì senza doversi togliere i vestiti è un'esperienza estraniante, e mi domando se l'obiettivo delle guardie sia proprio questo: far sentire i prigionieri a disagio e deboli, come lumache senza guscio, abbassando così la loro autostima e scongiurando fughe e ribellioni.
Torno nel mio angolo vicino alle sbarre e mi accuccio di nuovo in terra, con lo stomaco che brontola. Non so quanto tempo è passato da quando sono stata rinchiusa qui e quindi nemmeno dall'ultima volta che ho mangiato. Al momento vorrei qualcosa di commestibile da mettere sotto i denti, dell'acqua da bere e almeno una coperta in cui avvolgermi.
Mi abbraccio nuovamente le gambe, stringendole al petto, mentre cerco di pensare a una via di fuga. Mi domando cosa ne sia stato di Rohkeus e Gordost, se sanno dove sono stata portata e se troveranno il modo di liberarmi. Ma al momento qui ci sono solo io e devo bastarmi.
Cosa farei a questo punto, se fossi Rohkeus? Cerco in tutti i modi di ragionare come il mezzelfo, ma il mio cervello è ancora in parte annebbiato e non mi viene in mente niente. O forse semplicemente io non possiedo l'abilità da stratega di Rohkeus.
Mi stringo più forte le gambe, facendomi piccola piccola, ma non ne ricavo nessun conforto. Appoggio la testa sulle ginocchia, mentre i capelli mi ricoprono come un mantello. Dietro le palpebre chiuse si dipingono immagini della mia vita passata, come a compensare con i ricordi il nulla che si prospetta nel mio futuro.
Mi viene in mente di una volta, molte primavere fa, in cui io e Iris eravamo sedute sulla neve vicino al fiume insieme ad Alveus, Callàis e sua sorella Nox. I nostri genitori stavano mangiando poco lontano, nascosti sotto i primi alberi del bosco, ma noi ci eravamo stancati di stare seduti con loro e così li avevamo lasciati da soli a finire il pic-nic. Erano sempre stati grandi amici e a volte capitava che organizzassero qualche attività insieme.
Noi bambini invece eravamo un gruppo molto mal assortito e così non riuscivamo mai a metterci d'accordo su quale gioco fare, senza contare il fatto che in realtà non avevamo nemmeno troppa voglia di passare il tempo insieme. Quella volta Iris aveva proposto di creare corone di foglie secche, prese dal sottobosco che ancora non era stato imbiancato dalla prima nevicata di quell'inverno, da regalare ai nostri genitori, ma a parte Alveus nessuno aveva approvato.
— Quello non è nemmeno un gioco — aveva ribattuto Callàis, guardandola con aria di superiorità, e io non avevo potuto che trovarmi d'accordo con lui. — Per essere divertente deve esserci una sfida.
Nox invece non aveva detto niente, ma d'altro canto lei era sempre stata una bambina silenziosa. Scrutava tutto con sguardo attento e indagatore, e a volte si aveva davvero l'impressione che le bastasse un'occhiata per comprendere ogni cosa. Con il fratello condivideva gli occhi azzurrissimi, presi dalla madre, e i capelli a boccoli, anche se i suoi erano neri come la notte più nera, e su queste somiglianze erano d'accordo tutti. Una cosa che invece nessuno era mai stato disposto ad ammettere era che in comune con il fratello avesse anche la mente acuta e brillante, lo spirito osservatore e la prontezza e rapidità nei ragionamenti. Che Nox fosse estremamente intelligente era un'opinione comune, ma nessuno pensava lo stesso di Callàis. Pregiudizi, certo, perché in realtà Callàis intelligente lo era eccome, il problema era che alla gente non piaceva come la usava, la sua intelligenza, e piuttosto che ammettere che il bambino era uguale alla sorella in tutto e per tutto, tranne che nelle intenzioni, preferiva giurare che lui l'intelligenza non l'avesse, quasi che paragonare Nox al fratello fosse per la bambina un insulto imperdonabile.
— E se giochiamo a chi lancia i sassi nel fiume facendo più schizzi? Possiamo creare una corona di foglie da mettere in testa al vincitore — aveva proposto allora Alveus, cercando come sempre di trovare soluzioni alternative che rendessero tutti contenti.
— Noioso — avevo ribattuto, perché non riuscivo davvero a comprendere cosa ci fosse di divertente nel lanciare sassi nell'acqua.
— Ho io un'idea — aveva quindi esclamato Callàis, stirando le labbra in un sorriso. — Certo, è una proposta per persone toste, non so se delle pappe molli come voi ne sarebbero in grado.
Nox lo aveva guardato allarmata, consapevole che non ne sarebbe uscito niente di buono, ma aveva mantenuto il suo silenzio, in attesa forse di sentire il resto.
— È una gara — aveva continuato a spiegare Callàis. — Vince chi ha il coraggio di buttarsi nell'acqua. — Aveva fatto una pausa, come a creare suspense, durante la quale tutti ci eravamo voltati a guardare la superficie gelata del fiume, e poi aveva aggiunto: — Nudo, ovviamente.
— Nudo!? — aveva esclamato Iris, riportando di scatto lo sguardo sul bambino e rabbrividendo. — Ma tu sei pazzo! Fa freddissimo.
— Sei una piattola, Iris — aveva ribattuto Callàis, alzando gli occhi al cielo, e poi era rimasto in silenzio, aspettando una nostra risposta, che però tardava ad arrivare.
— Siete davvero tutti così fifoni? — aveva quindi domandato, guardandomi negli occhi.
— Fallo tu, se sei così coraggioso — avevo ribattuto, senza distogliere lo sguardo, al che lui aveva sorriso, sardonico.
— Da solo non c'è sfida. Ma d'altra parte, sembra che siate tutti delle piattole come Iris.
— Cal — aveva attirato la sua attenzione Nox, l'unica che osava chiamarlo con un soprannome. — Ti ammalerai.
Lui aveva agitato una mano in aria, come a voler scacciare una mosca, e aveva bellamente ignorato il commento della sorella.
— Allora, Lym? Hai forse paura?
— Io non ho paura! — avevo esclamato, punta sul vivo.
— Quindi perché non accetti la sfida, fifona?
— Accetto!
— Lympha! — aveva esclamato mia sorella, sconvolta. — Non devi ascoltare Callàis.
— E perché no? — aveva domandato il diretto interessato, guadandola con gli occhi assottigliati.
— Perché è una cosa stupida.
— Se non vuoi partecipare allora vattene, codarda.
— Va bene — aveva deciso lei, alzandosi in piedi, seguita a ruota da Alveus, che aveva assistito a tutta la scena senza fiatare, forse aspettando il momento buono per filarsela. — Andiamo, Lym? Lasciamo Callàis a giocare da solo.
Ma io non mi ero mossa, continuando a spostare gli occhi dall'uno all'altro, per poi fissarli in quelli di Callàis, che sembravano canzonarmi. — Io resto, codarda.
— Bene — aveva ribattuto Iris, allontanandosi con Alveus. Nox invece era rimasta seduta con noi, fissandoci come a voler controllare la nostra prossima mossa.
— Comincia tu — mi aveva detto Callàis, dopo un attimo di silenzio.
— Facciamolo insieme. O hai forse paura? — avevo ribattuto, imitando il suo sorriso.
— Insieme.
Ci eravamo alzati e ci eravamo tolti i pesanti vestiti invernali, lasciandoli ammucchiati nella neve ai nostri piedi. Dopo essermi spogliata del tutto, rabbrividendo per il freddo, avevo osato alzare lo sguardo su Callàis, che mi stava fissando a sua volta.
Non è che non sapessi che i maschi e le femmine sono fatti in maniera diversa, ma non mi era mai capitato di vederne uno dal vivo e così il mio sguardo non riusciva a staccarsi da quella cosa strana che aveva Callàis in mezzo alle gambe. Ricordo che avevo pensato che doveva essere molto fastidioso avere una cosa così a intralciare i movimenti e mi ero ritenuta molto fortunata a essere nata femmina.
Eravamo rimasti ad analizzarci a vicenda per un tempo che non avrei saputo definire, poi il bambino aveva esclamato: — Beh, che stai aspettando?
Mi aveva afferrata per il polso e mi aveva trascinata verso la sponda del fiume, sul quale galleggiava qua e là qualche sottile lastra di ghiaccio. La neve era così fredda che ormai non mi sentivo più le dita dei piedi e tremavo tanto che, se non li avessi stretti così forte, mi si sarebbero potuti sentire battere i denti. Il punto più caldo di me era il polso intorno a cui era ancora stretta la mano dell'altro bambino.
— Al mio tre saltiamo — aveva affermato e io avevo annuito, cercando dentro di me il coraggio di buttarmi in quell'acqua gelida.
— Uno... due... tre!
Ci eravamo tuffati nello stesso istante, ancora uniti, ma la sua mano mi aveva lasciata andare non appena ci eravamo immersi. Il fiume era davvero freddo come sembrava, tanto che l'impatto iniziale mi aveva tolto il respiro, ma avevo fatto appena in tempo a riemergere che delle braccia forti mi avevano tirato fuori dall'acqua, accompagnate da alcune voci preoccupate.
— Santi fiumi! — aveva esclamato mia madre, mentre mio padre mi riportava sulla terraferma e mi avvolgeva nella sua giacca calda. — Si può sapere cosa ti è passato per la testa?
Io avevo girato lo sguardo verso Callàis, a sua volta riportato all'asciutto dai suoi genitori, che ora lo guardavano arrabbiati. — Che diamine fai, Callàis? — gli stava dicendo sua madre, guardandolo quasi con odio. — Piccolo demonio, avreste potuto morire ibernati. Avresti potuto uccidere Lympha. E poi, perché l'hai fatta spogliare? Eh, perché?
Ma Callàis non aveva ribattuto nulla, probabilmente si era arreso ormai da tempo all'evidenza che fosse inutile cercare di conquistare l'affetto della madre. L'aveva fissata negli occhi, azzurri come i suoi, così come uguali erano anche i capelli biondi, e nel suo sguardo avevo colto una malcelata aria di sfida che aveva fatto arrabbiare la madre ancora di più.
— Ringrazia che Nox mi ha avvertita, sennò chi sa cosa sarebbe successo — aveva concluso, eludendo lo sguardo del figlio e puntando gli occhi, colmi di quelli che mi parvero rimorso e vergogna, sul fiume alle sue spalle. Poi si era avvicinata a mia madre.
— Mi dispiace così tanto, Medulla — si era scusata, con aria colpevole.
— Non preoccuparti, Rosa, non è colpa tua. E poi l'importante è che sia finita bene. Sono sicura che Lympha non lo farà mai più — aveva ribattuto mamma, mentre mi frizionava il corpo con la giacca del marito, asciugandomi. Rosa aveva sospirato, rassegnata, convinta che, se anche io avevo imparato la lezione, lo stesso non si poteva dire per Callàis. Era come se lo considerasse perduto senza possibilità di salvezza.
— Non so perché l'abbia fatta spogliare — aveva continuato la donna. — Davvero, non posso credere che volesse...
— Sono bambini — l'aveva interrotta mia madre. — Volevano solo giocare.
Ma Rosa aveva distolto lo sguardo, sul suo viso un'espressione disperata, quasi volesse veramente credere alle parole di mia mamma, ma, per quanto ci provasse, non riuscisse a convincersi che Callàis, suo figlio, fosse solo un bambino.
Ripensandoci ora mi domando cosa la donna pensasse che Callàis volesse fare: violentarmi? È ridicolo, avremmo avuto sì e no otto primavere, penso che nemmeno lui sapesse cosa fosse il sesso. Credo che sua madre abbia sempre avuto un'immagine del figlio mille volte peggiore della realtà, come se da lui si fosse sempre e solo aspettata il peggio.
Non so bene perché mi sia tornato in mente questo episodio: forse perché è stata la prima volta che ho davvero avuto che fare con la nudità, forse perché adesso sento freddo come se fossi immersa in un fiume d'inverno, forse perché la mia mente continua a non essere perfettamente lucida... Mi chiedo cosa ci fosse in quella bevanda nera che sono stata costretta a bere e che mi ha annebbiato in tal modo il cervello.
Resto accucciata nel mio angolo di cella per un tempo infinito. Ogni tanto mi metto a contare gli attimi che scorrono, ma sono troppi e più di una volta perdo il filo, ricominciando da capo. Lo stomaco si attorciglia in molteplici nodi, uno più doloroso dell'altro, a causa della fame, della sete e della paura. Prima o poi qualcuno verrà a darmi qualcosa da mangiare, non possono abbandonarmi così. Me lo ripeto milioni di volte, cercando di convincermi, ma nessuno si fa vivo. Finché, a un certo punto, sento dei passi felpati avvicinarsi alla mia cella.
Mi raddrizzo di colpo, spaventata, mentre un tenuissimo bagliore danza leggero sulle pareti, ferendomi gli occhi ormai abituati all'oscurità, tanto che sono costretta a chiuderli. Questo è il motivo per cui non distinguo la persona che si ferma davanti alle sbarre e che sussurra, con voce sottile per non essere udita da nessun altro: — Lym, eccomi.
Bạn đang đọc truyện trên: AzTruyen.Top