Non appena chiudo gli occhi, come ordinato dalla bhanrigh, un'immagine prende forma dietro le mie palpebre serrate. Dapprima è solo un'impressione, ma in breve riconosco il corridoio del castello dei mezzelfi, solo che questa volta lo sto guardando da una prospettiva più bassa. Uno strano miscuglio di eccitazione e curiosità mi investe, benché non riesca a capire da cosa derivi.
— Eristys, muoviti! — sento esclamare la voce acuta di un bambino prima ancora di riuscire a vederlo. Compare in fondo al corridoio, saltando giù dall'ultimo gradino del grande scalone centrale. I capelli gli saltellano sulla testa, ma non sono abbastanza lunghi da andare a coprirgli gli occhi, grigi e lucenti come l'argento. Dietro di lui, con passo lento e svogliato, cammina un altro bambino di qualche anno più piccolo, dal viso tondo e paffuto, che tiene in mano un grande orso di peluche i cui piedi strisciano sul pavimento.
— Ma pecchè devo venire anch'io? — si lamenta, biascicando le parole.
Il giovane Rohkeus si ferma in mezzo al corridoio, puntando le mani sui gomiti e guardando Eristys con aria di superiorità.
— Siamo in missione e mi serve un aiutante — gli spiega, come se fosse la cosa più ovvia del mondo. — E io sono il tuo principe, quindi tu mi devi ubbidire.
— Ma io volevo giocare con Goddost — ribatte l'altro, corrucciando le labbra.
— Zitto e seguimi.
Rohkeus non gli dà possibilità di scelta e, dopo averlo afferrato per la mano libera, se lo tira dietro riprendendo a correre. Già da bambino aveva le spalle larghe, molto più del cugino, che invece ricorda un fragile giunco mosso dal vento.
I due si fermano davanti a un ingresso in fondo al corridoio, a fianco della stanza contenente il portale-strega. Rohkeus spinge lievemente la porta socchiusa, prima di fare segno a Eristys di guardare dentro. Lui sbuffa, ma poi ubbidisce, senza mollare l'orsacchiotto.
— Allora? La riunione è iniziata? — domanda impaziente il maggiore.
— Boh! Ci sono tante pessone gandi.
Rohkeus sbuffa scocciato, prima di ordinare: — Spostati, che guardo io.
Eristys si fa da parte, per lasciare posto al cugino che appiccica l'occhio alla fessura tra la porta e lo stipite. All'interno della stanza, un piccolo gruppo di uomini è chino intorno a un tavolo sul quale sono stese cartine geografiche e mappe. In questo momento a parlare è un mezzelfo dalle spalle ampie e possenti, i cui capelli neri spiccano contro il bianco delle pareti.
— Sicuramente si aspettano che li attacchiamo da nord, motivo per cui dovremo mandare effettivamente degli uomini in quella direzione, ma tenere la maggior parte dei soldati per circondare il villaggio a sud e sfruttare l'effetto sorpresa.
Gli occhi dei presenti sono fissi su di lui, come se fosse il cuore di una ragnatela da cui si dipartono tutti gli altri fili. Lo vedo spostare delle pedine di legno sul tavolo per indicare l'avanzare delle truppe e i suoi gesti sono privi di esitazione.
— Io mi unirò ai soldati che attaccheranno a sud.
— Ma, Vostra Altezza, non è necessario — ribatte un uomo pelato e con dei folti baffi biondi. — Si tratta solo di un villaggio di cacciatori e contadini, non dovreste abbassarvi a tanto...
— Zitto, generale! — lo interrompe il re. — Voglio che quei miserabili sappiano chi comanda e che, una volta finito, si inchinino di nuovo al mio cospetto, come avrebbero sempre dovuto fare.
Il re comincia a camminare nella stanza, dando di scatto le spalle al tavolo e voltandosi verso l'uscio, ma pare non notare i due bambini che sbirciano dalla porta socchiusa. Gli occhi grigi dell'uomo sono duri e feroci, tanto che il piccolo Rohkeus rabbrividisce intimorito nonostante non sia stato scoperto. Ma si ricompone subito e, girato il viso verso il cuginetto, sussurra con voce colma di ammirazione: — Un giorno anch'io sarò come mio padre e nessuno oserà ribellarsi.
Eristys lo fissa con i suoi grandi occhi scuri, palesemente poco interessato a tutta la questione, ma non ribatte nulla, preferendo abbracciare il suo orso di peluche.
Piano piano l'immagine si sfoca, facendomi precipitare nel buio più nero. Per qualche minuto resto a fluttuare in un niente senza forma, poi un dolore inspiegabile mi stringe il cuore, schiacciandolo e trasformandolo in una poltiglia densa che preme nelle vene e dietro agli occhi, desiderosa di uscire insieme alle lacrime. Quando la visione si rischiara, mi ritrovo in una gigantesca camera da letto. Alle pareti ci sono sofisticati mobili di legno e i muri sono dello stesso blu delle tende e del baldacchino. Mi sembra che non ci sia nessuno all'interno della stanza, ma non posso esserne certa per via delle lacrime che mi offuscano gli occhi. Poi, d'improvviso, la porta si apre sotto la spinta di una donna dall'elaborata acconciatura. Si guarda un attimo intorno, facendo frusciare l'elegantissimo vestito, e poi si accuccia in terra per poter guardare sotto al letto.
— Rohkeus, vieni fuori da lì — sussurra con voce dolce.
Nonostante la camera sia molto luminosa, il pertugio sotto al giaciglio è tanto buio che si distingue a fatica la figura del bambino, rannicchiato nella parte più vicina al muro. Ha la faccia tutta corrucciata nel tentativo di non piangere, ma alcune lacrime solitarie sono riuscite a sfuggire al suo controllo e gli rigano il volto.
All'inizio Rohkeus non ha nessun tipo di reazione, tanto che la donna è costretta a chiamarlo un'altra volta, allungando una mano verso di lui nell'oscurità. Solo a questo punto il piccolo mezzelfo si gira verso di lei e comincia a strisciare sul pavimento fino a buttarsi tra le sue braccia. Il suo corpo è scosso da singhiozzi silenziosi, che la donna cerca di placare accarezzandogli i capelli.
— Mamma, mamma, mamma — biascica Rohkeus a ripetizione, come se si trattasse di una formula magica in grado di placare il suo dolore.
— Va tutto bene, amor mio, andrà tutto bene — cerca di consolarlo lei, benché anche il suo viso butterato sia segnato dalla sofferenza.
— Non è vero — piagnucola il bambino, con il volto affondato nell'abito della regina. — Papà non tornerà più, quei cacciatori cattivi l'hanno ucciso.
— Ha fatto quel che doveva fare, devi essere orgoglioso di lui. Sai, se fosse qui ora non vorrebbe vederti piangere, vorrebbe che tu fossi coraggioso come ti ha sempre insegnato — cerca di consolarlo la madre, sollevandogli il viso e asciugandogli le lacrime con le sue mani inanellate.
— Quando sarò re lo vendicherò e li farò arrestare tutti per sempre — ribatte il mezzelfo, assumendo un cipiglio deciso.
Gli occhi della donna si fanno ancora più tristi, mentre gli stringe le mani. Fa un enorme respiro, fissando il figlio dritto in volto, prima di parlare. — Rohkeus, tu... tu non sarai mai re.
— Cosa? Non è vero.
— Tuo padre ha abdicato in favore di tuo zio Kuningas, poco prima di morire.
— Non è vero! — urla il bambino, con espressione ferita.
— Mi dispiace. L'ho visto con i miei occhi, amor mio, e non voglio mentirti: tuo padre era lì, sdraiato a letto in mezzo a tutti noi, e, mentre il medico cercava di guarirgli la ferita, lui ha chiamato lo zio Kuningas accanto a sé, gli ha stretto le mani e lo ha nominato re.
— Ma quando lo zio sarà vecchio...
— Allora diventerà re Eristys, in quanto suo erede — lo interrompe la donna, in modo dolce ma deciso. A questo punto Rohkeus comincia a urlare e il suo grido è così pieno di sofferenza da risultare straziante alle mie orecchie, come se stesse piangendo due morti: quella del padre e quella del proprio futuro.
Così com'è apparsa la visione scompare e al suo posto appare un grande prato verde circondato da un muro di pietra. Una brezza leggera profumata di fiori mi accarezza il viso, asciugando le lacrime. Nel mezzo del giardino sta in piedi un giovane Rohkeus di circa quattordici primavere, che soppesa una spada passandosela da una mano all'altra.
— Eccomi, principe — esclama a un tratto una voce allegra. Il mezzelfo solleva per un attimo lo sguardo, per poi riportarlo immediatamente sulla sua arma, come se non ci fosse niente di interessante nel ragazzo sorridente che ora gli sta davanti.
— Stavo aspettando il mio insegnante di scherma, non te, chiunque tu sia.
— Giusto! Non mi sono presentato: piacere, Vilpiton — rimedia subito il giovane, allungando la mano verso il principe, che però non ricambia il gesto. — Sono il nuovo apprendista fabbro del castello. Il mio maestro vuole che io le spade le sappia usare, oltre che creare, e quindi mi ha detto di allenarmi con voi — spiega Vilpiton, riportando il braccio lungo il fianco.
— Non mi serve un principiante: sono troppo avanti con l'allenamento per dovermi esercitare con un incompetente come te — ribatte brusco Rohkeus. — Esigo che il mio insegnante ascolti le mie ragioni e che faccia subito marcia indietro su questa sua idea inaccettabile.
Comincia ad avviarsi verso il castello senza nemmeno aver finito di parlare, ma viene bloccato dalla voce di Vilpiton. — Principe, prima di giudicarmi mettetemi alla prova.
Rohkeus si volta con sguardo sprezzante e squadra un paio di volte il ragazzo che gli sta di fronte, dalla testa ai piedi e poi viceversa, dai piedi alla testa. Non pare molto soddisfatto da quello che vede, ma comunque fa marcia indietro, impugnando saldamente la spada nella mano destra. — Allora attaccami.
Vilpiton non se lo fa ripetere due volte e si slancia sul principe, l'arma tesa davanti a sé, ma viene disarmato in un paio di rapide mosse. Rohkeus lo fissa con aria di superiorità, mentre l'altro si china per raccogliere la spada.
— Incompetente, esattamente come avevo detto.
Vilpiton non ribatte e, senza nessun tipo di preavviso, attacca nuovamente il principe, cogliendolo di sorpresa, tanto che Rohkeus riesce a bloccare l'arma solo quando questa è ormai a un passo dal suo volto.
— Sei pazzo?! Avresti potuto uccidermi!
— Non era forse quello che volevate, principe? Qualcuno alla vostra altezza. Voi che avreste fatto al mio posto? Vi sareste arreso?
Un impercettibile sorriso inarca le labbra di Rohkeus. — Va bene, ti concedo di esercitarti con me. Se però mi farai perdere troppo tempo ti farò ritornare nell'officina da cui sei venuto.
L'altro ragazzo annuisce soddisfatto e allunga di nuovo la mano davanti a sé. — Quindi ricominciamo? Piacere, Vilpiton.
Questa volta Rohkeus ricambia il gesto, senza tuttavia presentarsi, consapevole che non ce n'è alcun bisogno, e poi ordina al suo nuovo compagno: — Muoviti, in posizione, ché non ho tempo da perdere.
Il ragazzo non se lo fa ripetere due volte e si sistema davanti al principe, con espressione concentrata. Tra i due non c'è paragone: Rohkeus è molto più veloce e abile, tuttavia nemmeno Vilpiton se la cava male. Tenta di parare affondi e attacchi al meglio delle sue possibilità, facendo cozzare le due spade una contro l'altra e riempiendo l'aria di stridori metallici.
Alla fine dell'allenamento il ragazzo si butta in terra, esausto e accaldato. Si passa una mano sui capelli scuri, nel tentativo di tirarli indietro e non farli penzolare davanti agli occhi, e punta lo sguardo sul compagno, anche lui tutto sudato ma ancora in piedi.
— Posso farvi una domanda? — chiede Vilpiton, curioso.
— No.
— Perché non vi allenate con vostro cugino? — continua l'apprendista fabbro, ignorando la risposta del principe. Rohkeus lo guarda con occhi di fuoco, contrariato, ma alla fine si siede a sua volta nell'erba, poco distante da dove l'altro ragazzo è sdraiato con gli occhi ora rivolti verso il cielo.
— Come ti ho già detto, non ho nessuna intenzione di perdere tempo con un principiante incompetente.
— Il principe ereditario non sa combattere con la spada? — domanda Vilpiton perplesso, sollevandosi su un gomito per guardare Rohkeus, che si lascia sfuggire una risata amara.
— Perché, c'è qualcosa che Eristys sa fare?
L'altro ragazzo boccheggia, indeciso su cosa sia meglio rispondere a una domanda del genere, ma fortunatamente il principe lo toglie dall'imbarazzo riprendendo il discorso: — Passa tutto il giorno in qualche angolo del giardino con quei suoi due stupidi lupi a fare chissà che, quando invece dovrebbe imparare a comportarsi come un vero futuro re.
Nel dire le ultime parole, il suo volto si contrae in una smorfia, come se avesse mandato giù qualcosa di molto indigesto o forse come se, al contrario, il fatto che un giorno Eristys diventerà re proprio non gli vada giù.
— L'avevo sentito dire, che l'erede fosse un ragazzo molto solitario e taciturno... — afferma Vilpiton sovrappensiero. — Ma pensavo fosse un'esagerazione.
— Qualunque cosa hai sentito immagino sia vera.
— Mi chiedevo... perché proprio i lupi? Non sono pericolosi?
Rohkeus non risponde subito, restio a condividere con altri i propri pensieri e i dettagli della vita della propria famiglia, ma alla fine giunge alla conclusione che quel giovane fabbro non possa in alcun modo nuocergli, o forse sente solo la necessità di chiacchierare con qualcuno. — Gordost e Strelka sono solo due cuccioli idioti troppo cresciuti. Mia zia, a cui erano stati donati da una strega, li ha addomesticati come si potrebbe fare con un cagnolino e ora sono minacciosi quanto una lumaca.
— È per questo che è così legato a quei due animali? Perché erano di sua madre?
— Credo di sì. È morta di parto e lui non l'ha mai conosciuta. In pratica Gordost e Strelka sono la sua eredità.
Vilpiton annuisce, convinto dal ragionamento.
— E a voi piacciono i lupi?
Rohkeus esita di nuovo, non abituato a parlare del più e del meno con altri ragazzi della sua età. Ma l'apprendista fabbro non ha alcuna fretta e sembra anzi il ritratto della calma, sdraiato nell'erba a contare le nuvole.
— Non me ne frega niente, di quegli animali — si lascia infine sfuggire il principe. — E anche a Eristys dovrebbe importare meno di loro e dovrebbe invece impegnarsi di più a trasformarsi in un buon re, se proprio un giorno deve diventarlo. Insomma, dovrà governare un popolo di mezzelfi e non un branco di lupi!
Quella che gli è uscita dai denti sembra tanto una confessione e anche Vilpiton se ne deve essere accorto, perché rimane un attimo in silenzio. Poi si rimette a sedere e domanda: — E voi? Vi sentite adatto a governare un popolo di mezzelfi?
— Lo metti forse in dubbio?
— Non oserei mai — ribatte il giovane fabbro sorridendo e alzandosi da terra. Con una mano si spazzola i pantaloni dai fili d'erba, mentre Rohkeus guarda dal basso la sua figura magra e sottile in controluce, così diversa da quella larga e tozza del principe.
— Devo andare, il mio maestro si starà chiedendo che fine abbia fatto. Ci vediamo domani per un altro allenamento?
— Se non c'è nessuno migliore di te... — risponde Rohkeus con voce indifferente, ma con un timido sorriso sulle labbra.
Mentre Vilpiton si allontana anche l'immagine del giardino si sfoca, lasciando il posto a una stanza malamente illuminata da una candela tremolante, come se ci fosse uno spiffero che soffia sulla fiamma. Al centro si trova un tavolo di legno rotondo, ricoperto da un'allegra tovaglia fiorata che stona con l'atmosfera cupa. Rohkeus siede su una delle sedie poste intorno al tavolo e sta indicando un'immagine stampata su un libro a un Vilpiton dall'espressione attenta. Una sensazione di solennità si solleva dalla scena, penetrandomi nelle ossa come la nebbia nelle mattine autunnali.
— E se non dovesse funzionare? — domanda il fabbro.
— Sono sicuro che funzionerà — ribatte Rohkeus. — Anche perché ci ho già provato.
— Cosa?! Avevamo deciso che lo avremmo fatto insieme — esclama Vilpiton, non si capisce se più ferito o preoccupato.
— Lo sai che Rohki ama fare di testa sua — lo redarguisce una voce roca e femminile proveniente da una poltrona decorata con un motivo a margheritine, su cui Huba giace scomposta. Il vestito nero le si è arrotolato sulla parte alta delle cosce, ma lei non se ne cura, intenta invece a domare i capelli ribelli in una folta treccia.
— Ho capito, ma questa volta non si trattava di un gioco. Voglio dire, ha evocato un demone da solo — ribatte il ragazzo, le parole rese veloci dall'agitazione.
— Si può sapere almeno che è accaduto, mio adorato principe temerario, o vuoi tenere gli avvenimenti tutti per te?
Rohkeus scocca alla strega un'occhiata velenosa, ma poi comincia a raccontare, indicando un paragrafo sul libro: — Ho seguito alla lettera le istruzioni, come sta scritto qui: ho disegnato il cerchio con i carboni e poi ho riportato le parole dell'incantesimo di evocazione, e il demone è magicamente apparso.
— E che aspetto aveva? — chiede Vilpiton.
— In realtà non è proprio apparso, ma ne ho sentito la voce.
— E cosa ha detto?
— Vilp, tesoro, calmati. Se Rohki è ancora qui, palesemente è andato tutto bene, quindi non c'è bisogno di agitarsi tanto.
— Che ne sai che non si è tirato addosso una maledizione o qualcos'altro?
— Se non ti rilassi un attimo te la tiro io, una maledizione.
— Avete finito di litigare? — si informa il principe, spazientito.
— Vai, Rohki, continua pure.
Rohkeus annuisce, soddisfatto di essere di nuovo al centro dell'attenzione, e poi riprende il racconto: — La sua voce era qualcosa che non riesco nemmeno a descrivere, ammaliante e al tempo stessa spaventosa, come se stessi mangiando il mio dolce preferito con in bocca però un retrogusto di veleno. In ogni caso, gli ho spiegato quello che volevo da lui e mi ha risposto che modificherà la mia vita per me se io modificherò una vita per lui.
— Cosa vuol dire? — domanda Vilpiton, rapito dalle parole del principe.
— Vuole che gli sacrifichi uno dei due lupi. Solo dopo che avrò soddisfatto la sua richiesta lui farà lo stesso con la mia.
— E perché devi sacrificare un lupo? — chiede Huba, guardandolo scettica.
— Non lo so, ma non mi importa nemmeno. Lo farò domani notte, ho solo bisogno del vostro aiuto per allontanare uno dei due animali da Eristys e portarlo dove ho disegnato il cerchio per l'evocazione.
— Non mi convince molto questa storia... — sussurra Vilpiton tra sé e sé.
— Quale lupo vuoi? — si informa Huba, chiudendo finalmente la treccia con un elastico e sollevando lo sguardo in quello di Rohkeus. I loro occhi sono ardenti, brucianti di vita e desiderio come quelli di due belve.
— Gordost.
La strega ne prende atto, senza nemmeno chiedere il perché: forse conosce già la risposta o, più probabilmente, non le importa, come se l'animale fosse solo un mezzo per arrivare al fine il più in fretta possibile. — Dove hai disegnato il cerchio del rituale?
— Nei sotterranei, in quella stanza vuota che avevamo trovato insieme. Eravamo d'accordo che lo avremmo fatto lì.
Huba annuisce, e poi dice: — Bene, lo attirerò lì con la magia e poi sarà compito tuo.
La scena svanisce, le pareti scompaiono e al loro posto ne compaiono altre, più grezze e sporche. La piccola stanza è illuminata da alcune torce attaccate ai muri, ma la loro luce fioca non è sufficiente per rischiarare bene gli angoli più lontani e il soffitto, dal quale si intravedono delle ragnatele pendere come macabri festoni.
Il principe è lì, che cammina avanti e indietro, mentre le fiammelle creano sul suo volto inquietanti ombre. La mano destra è poggiata sull'elsa della spada che porta legata in vita e che scintilla ammiccante. È teso allo spasimo, con i muscoli vibrano sotto la camicia bianca pronti all'azione, e tutto in lui mi ricorda un felino pronto a balzare sulla preda, bramoso di mettere a tacere la propria fame.
Sul pavimento, nell'unico punto ripulito dalla polvere, c'è disegnato un cerchio nero circondato da scritte incomprensibili che Rohkeus sta bene attento a non calpestare, girandoci attorno con un timore reverenziale.
Poi un rumore di passi veloci proveniente dal corridoio rompe il silenzio. Il mezzelfo si volta verso l'ingresso proprio mentre Gordost lo varca, guidato da una sfera di luce che lo porta al centro del cerchio. Il globo luminoso vola fino a posarsi al suolo e, non appena tocca terra, si ritrasforma in Huba, che ora si staglia completamente nuda alla luce delle fiaccole.
— Io ho fatto il mio lavoro — dice con aria seria, raccogliendo un vestito nero da una sedia poco distante. — Vilpiton è rimasto a controllare tuo cugino, ma non so per quanto riuscirà a tenerlo impegnato. Vedi di concludere in fretta.
Rohkeus annuisce e si avvicina al lupo, che intanto si è messo sulla difensiva e ora lo fissa con occhi sospettosi, pronto a scappare.
— Ehi, bello, va tutto bene, sono io, non avere paura — gli sussurra con voce cantilenante, colmando la distanza che li separa. Nelle sue intenzioni avrebbe dovuto tranquillizzare Gordost, ma nel suo tono c'è qualcosa di finto e stucchevole che rende evidente quanto il mezzelfo non sia abituato a parlare con gli animali e che impedisce al lupo di fidarsi.
Gordost abbassa le orecchie, ringhiando, e balza su Rohkeus nel momento esatto in cui quest'ultimo estrae la spada. Il mezzelfo scarta l'attacco del lupo e cerca di colpirlo con la sua lama affilata, ma l'animale è veloce ed evita il fendente. Con un salto cerca di uscire dalla porta, ma Huba lo precede creando una barriera di energia che sbarra l'uscio. Gordost vi va a sbattere contro e viene subito sbalzato indietro, ricadendo sulla schiena, ma riesce a rialzarsi in piedi un istante prima che Rohkeus gli affondi la spada nel ventre.
I due avversari restano fermi a fissarsi da un lato all'altro della stanza, occhi negli occhi, tentando di comprendere le intenzioni dell'altro. Rohkeus respira profondamente, tenendo a bada l'affanno, e per un attimo si volta verso la strega, senza però perdere di vista il suo nemico.
Huba è in piedi in un altro angolo della stanza, quasi invisibile nella semioscurità. La parte più luminosa di lei sono le mani, intorno alle quali l'aria vibra, come accade nelle torride giornate estive, a causa della grande quantità di energia che lei sta concentrando sulle proprie dita.
Prima però che uno dei tre possa muoversi, si sentono altri passi riecheggiare nel corridoio. Tanti passi. Troppi. È evidente che qualcosa non è andato come previsto.
In un istante, un grande lupo bianco compare al di là del muro di energia che blocca l'ingresso. Cerca di attraversalo, ma vi sbatte contro come già aveva fatto Gordost e comincia a ringhiare in modo basso e vibrante.
— Strelka, che succede? Lo hai trovato? — chiede la voce affannata di un ragazzo che fa subito capolino alle spalle dell'animale, affiancato da Vilpiton. Il fabbro si ferma accanto a Eristys e rivolge ai suoi due compari uno sguardo colpevole che sembra chiedere perdono.
Il giovane erede intanto ha appoggiato le mani sulla parete di energia e vi guarda attraverso, non riuscendo a dare un senso alla scena che si trova davanti.
— Rohkeus, che stai facendo? — domanda, fissando il cugino con i suoi grandi occhi innocenti. Ma Rohkeus lo guarda solo per un istante e poi riporta la sua attenzione su Gordost, che non ha abbandonato la sua posizione di difesa.
— Va' via, Eristys — dice soltanto, con un tono imperioso che non ammette repliche, come se l'altro non fosse niente di più di un servo.
— Cos'è questa roba? — chiede invece Eristys, facendo scorrere le mani sulla lastra magica e cominciando poi a prenderla a pugni cercando di abbatterla, ma senza risultati. — Ti prego, fammi entrare. Rohkeus, fammi entrare!
— Principe, così vi fate male — dice Vilpiton, tentando di afferrargli i polsi, ma il ragazzo lo ignora, continuando a urlare: — Rohkeus, cosa stai facendo? Cosa vuoi fare a Gordost? Ti prego, non fargli del male, ti prego, Rohkeus!
Ma la sua voce lacrimosa non fa altro che innervosire il cugino, ricordandogli quanto Eristys sia patetico e inadatto a ricoprire il ruolo di re. Ruolo che avrebbe dovuto essere di Rohkeus, per diritto di nascita.
Con uno scatto il mezzelfo si avvicina al lupo, che a sua volta balza verso il proprio avversario pieno di nuova energia. È evidente che su di lui le lacrime di Eristys hanno avuto l'effetto opposto, rafforzando il legame che lo unisce al suo padrone e amico.
I due si incontrano al centro della stanza, a poca distanza dal cerchio, ma riescono a malapena a sfiorarsi con le rispettive armi: denti aguzzi e spada. Poi Gordost fa per attaccare di nuovo, ma il suo gesto si ferma a metà e lui rimane immobile con la bocca spalancata.
Gli occhi di tutti guizzano verso Huba, immobile a sua volta se non fosse per i capelli di fuoco che le ondeggiano alle spalle.
— La strega... Che sta facendo la strega? — chiede Eristys. — Vilpiton, fa qualcosa, abbatti il muro. Fermali, ti prego.
Ma il fabbro non fa nulla e rimane a osservare la scena con le braccia lungo i fianchi, impotente, mentre Strelka cerca di abbattere la parete di energia che per un istante pare incrinarsi.
Non c'è molto tempo, Rohkeus lo sa bene: sono in una zona isolata del palazzo, ma se Eristys continua a urlare così le guardie non ci metteranno molto a trovarli. Deve uccidere il lupo in fretta, poi sarà tutto finito e lui sarà finalmente re.
Con un colpo dato con l'elsa, Rohkeus spinge Gordost in mezzo al cerchio e, fulmineo, gli pianta la spada nel corpo, lì dove si trova il cuore.
In quell'istante l'incantesimo di Huba si rompe e un uggiolio sorpreso sfugge dalla bocca dell'animale, che spalanca i grandi occhi gialli come due lune piene. Cerca di colpire il mezzelfo, ma cade subito in terra, dove comincia a contorcersi, agonizzante.
— No, Gordost, no! Oh, perché? — domanda Eristys, aggrappandosi con le unghie al muro di energia. — Perché, Rohkeus, dimmi perché. Cosa ti aveva mai fatto? — Dalle sue dita ferite cominciano a scorrere rivoli di sangue, come se il mezzelfo stesse piangendo non solo con gli occhi ma con tutto il corpo.
Rohkeus però non si volta nemmeno e continua a fissare il lupo fino a quando, dopo un ultimo spasimo, l'animale si immobilizza. In quel momento le scritte nere che circondano il cerchio cominciano a fumare e anche dal corpo del lupo si solleva un vapore rosso scuro, come sangue che evapora.
— Dolce è il sapore di un'anima innocente — sussurra la voce del demone, riempiendo la stanza.
— Ti ho dato quello che volevi, ora fammi diventare re come promesso — ordina Rohkeus.
Eristys lo guarda con occhi colmi di lacrime e orrore. — È per questo? Per il trono? — Le parole stridono nelle orecchie del cugino.
Il demone ignora l'intervento del ragazzo. — Certamente, io rispetto sempre i patti. Ora chiudi gli occhi e in un attimo avrai il tuo regno.
Rohkeus lo asseconda, serrando le palpebre.
— Avrei abdicato, io non voglio essere re! Se me lo avessi chiesto avrei abdicato. — La voce di Eristys si fa sempre più lontana e debole, mentre la scena scompare e con essa gli ululati di Strelka e l'odore del sangue.
Rohkeus stringe la mascella. Cerca di convincersi di aver sentito male, deve per forza aver sentito male. La distanza deve aver storpiato le parole, cambiandone il senso.
Per qualche istante non c'è altro che buio, fuori e dentro la testa del mezzelfo.
— Ora puoi guardare — dice il demone.
Rohkeus spalanca gli occhi e osserva intorno a sé, esterrefatto: alle sue spalle si staglia un immenso cancello d'oro, incastonato in un muro di pietra che circonda una landa desolata da cui aguzze rocce grigie spuntano come lapidi in un cimitero. Su tutto svetta un grande castello abbarbicato sulla cima di uno sperone roccioso ed è impossibile dire dove finisca uno e inizi l'altro.
— Ma questa non è casa mia. Dove mi trovo? — chiede il mezzelfo, con un'espressione di puro terrore che gli dipinge gli occhi.
— Benvenuto nel tuo regno, Rohkeus Terävästä Terästä, sovrano eterno di un infinitesimo angolo d'inferno.
— Mi hai mentito! Non erano questi, i patti.
Nella testa gli riecheggiano le parole di Eristys: avrei abdicato, se me lo avessi chiesto.
Avrei abdicato.
Rohkeus scuote la testa con forza.
— Invece i patti erano esattamente questi: ti avrei fatto diventare re in cambio della vita di una delle creature a cui il legittimo sovrano teneva più al mondo.
— Ma io volevo diventare re dei mezzelfi, re della mia gente. Non desideravo... — Rohkeus esita, senza parole, prima di concludere la frase. — Non desideravo questo.
— Avresti dovuto essere più preciso. Ora sei il sovrano di un regno solo tuo, io ho rispettato l'accordo.
— No, aspetta, non puoi lasciarmi qui. Riportami indietro! — lo scongiura il giovane con un tono a metà tra un ordine e una preghiera.
— Hai avuto quello che volevi.
— Non è vero. Ti prego, non lasciarmi qui da solo!
— Ma non sarai solo, c'è qualcun altro che si è appena trasferito all'inferno e che può farti compagnia.
Non appena le parole del Principe sfumano nell'aria, un'ombra compare davanti al mezzelfo. Dapprima è solo un ammasso indistinto di oscurità, ma piano piano assume la forma di un lupo nero con due grandi occhi gialli e furiosi. Il suo muso si atteggia in un ringhio arrabbiato e Rohkeus fa appena in tempo a impugnare più saldamente la spada prima che l'animale gli balzi addosso.
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