12. Fuochi fatui
All'inizio riesco a fluttuare, ma la caduta è troppo lunga e dopo poco mi ritrovo a cadere senza controllo. Però non è aria la sostanza che mi avvolge mentre precipito, ma piuttosto qualcosa di vischioso che non saprei definire e che, per fortuna, rallenta la caduta consentendomi di sopravvivere all'impatto finale, che comunque arriva improvviso e mi lascia senza fiato.
— Gordost? Ninfa? Tutto a posto?
Mi metto a sedere cercando il mezzelfo, ma intorno a me c'è solo un'impenetrabile oscurità. Mi strofino gli occhi con le mani, ma non cambia nulla e il cuore comincia a galopparmi nel petto mentre mi invade la paura di essere diventata cieca.
— Rohkeus, perché non vedo niente? — domando con una nota di panico nella voce, che vorrei non fosse così evidente.
— Questa domanda è davvero idiota. Non vedi perché è buio pesto. — La sua risposta mi fa sentire immensamente stupida.
— Ehi, bello! — aggiunge poi, di sicuro rivolto al lupo. — Non c'è bisogno che mi salti addosso.
Gordost comincia a uggiolare, contento che siamo ancora tutti vivi.
— Abbiamo un problema — dico, mentre mi alzo in piedi e cerco di togliermi di dosso quelle che al tatto sembrano foglie morte. — Così non posso leggere la direzione dell'anello.
Gordost si zittisce subito, come se anche lui avesse capito la gravità della situazione.
— Dobbiamo accendere un fuoco — risponde il mezzelfo, pratico come sempre. — Prima mi pare di aver toccato dei rami.
La sua voce è in parte coperta da degli scricchiolii, probabilmente causati dai suoi passi sulle foglie secche. Imito il suo esempio e anch'io comincio a muovermi circospetta, in cerca di questi fantomatici alberi, finché non picchio la fronte contro qualcosa di duro.
— Ahia — esclamo, massaggiandomi il punto dolente.
— Hai trovato qualcosa?
Ignorando il male, analizzo con i polpastrelli la superficie secca e ruvida contro cui ho sbattuto la testa.
— Credo sia un albero.
— Bene, prendine dei rametti.
Ne afferro uno, il primo che trovo, e lo strappo via con violenza. Non appena il ramo si stacca dal tronco una luce azzurra si accende davanti ai miei occhi, nel punto in cui prima erano uniti i due pezzi di legno. Liquida, comincia a colare lungo il tronco, irradiando intorno a sé una pallida luminescenza. Anche il rametto che ho in mano ha cominciato a secernere la stessa sostanza e ora questa specie di luce viscosa mi sta scendendo lungo il braccio.
— Ma cosa...
— Sembra sangue. Sangue blu e luminoso — afferma Rohkeus, in piedi al mio fianco. Il bagliore emesso dalla linfa gli illumina il volto, permettendomi di scorgere la sua espressione meravigliata. Mi toglie di mano il ramo per guardarlo più da vicino.
All'improvviso Gordost comincia ad ululare.
— Ehi, bello, che c'è? — domanda il mezzelfo, voltandosi. — Ninfa, girati — aggiunge poi con tono sorpreso, afferrandomi il braccio. Obbedisco e quello che vedo mi lascia senza parole.
Davanti a noi si estende una fila di piccoli fuochi azzurri volanti, che levitano leggeri a poche spanne dal suolo e ondeggiano mossi da una brezza che però io non riesco a percepire. Aguzzo lo sguardo e noto che le fiammelle turchesi seguono il tracciato di un sentiero che si perde in mezzo agli alberi. Emanano una luce soffusa e tremolante che illumina le piante e i cespugli tutt'intorno e lascia il resto immerso nell'oscurità, una specie di tunnel luminoso in mezzo alle tenebre. È uno spettacolo bellissimo.
— Cosa sono? — domanda Rohkeus con un filo di voce.
— Fuochi fatui. Non pensavo ne avrei mai visti.
Restiamo in silenzio a guardarli, meravigliati, finché Gordost si avvicina circospetto al primo della fila per annusarlo.
— La vecchia Aranea, la nostra capovillaggio, ci raccontava sempre che si tratta delle anime delle ninfe che sono state malvagie in vita e ora sono costrette a vagare sulla terra per l'eternità — spiego sottovoce, temendo di rompere l'incanto.
— Quindi vederli non è un buon segno?
— Sì, invece. La leggenda racconta che a volte queste anime si pentono e, per redimersi dai peccati commessi in vita, indicano a chi si perde la via per il proprio destino.
— Quindi secondo te dovremmo seguirli?
— Sì, anche perché dobbiamo andare in quella direzione in ogni caso: l'anello indica di là — affermo decisa, osservando la freccia nella luce bluastra.
— Bene, allora andiamo.
Rohkeus si incammina, mentre io e il lupo lo seguiamo fianco a fianco. Guardo le mie braccia che brillano nel buio e mi domando se non sia meglio pulirle. Chissà se il mezzelfo ha con sé delle pezze di stoffa.
— Ehi, Rohkeus...
— Zitta — mi intima lui, bloccandosi di colpo in mezzo al sentiero e scrutando intorno a sé, vigile.
— Cosa c'è? — faccio appena in tempo a chiedere prima che lui mi metta a tacere di nuovo con un perentorio: — Sh!
Mi pare quasi di vedere tutti i suoi sensi tendersi allo spasimo, mentre porta la mano destra alla spada e Gordost gli si avvicina, schiena contro schiena, con la stessa espressione attenta. Chiudo la bocca e mi guardo intorno a mia volta, ascoltando la foresta silenziosa. No, non del tutto silenziosa, ora sento anch'io qualcosa: è un rumore sottile, come un passo veloce e leggero sulle foglie morte, da qualche parte, in lontananza.
— Muoviamoci, prima che ci raggiunga, qualunque cosa sia — mi ordina Rohkeus, a bassa voce, e riprende a camminare con passo felpato. Lo assecondo, standogli il più vicino possibile. Mi volto giusto un attimo, attratta da un movimento repentino che percepisco con la coda dell'occhio, e rimango sorpresa nel notare che i fuochi fatui dietro di noi sono scomparsi, spenti come candele su cui qualcuno ha soffiato non appena li abbiamo superati.
D'improvviso il mezzelfo si arresta davanti a me e io per poco non vado a sbattere contro le sue ampie spalle, i cui muscoli sono tesi e pronti allo scatto. Guardo oltre di lui, cercando di capire cosa lo ha messo in allerta. Qualcosa si muove sul sentiero davanti a noi e strizzo gli occhi nel tentativo di metterlo a fuoco.
All'inizio non sembra essere niente più che un'ombra confusa, ma poi riconosco la figura alta e possente di due guerrieri con le armature nere.
— Cosa sono? — sussurro all'orecchio di Rohkeus.
— Non ne ho idea — risponde lui, senza distogliere lo sguardo. Vedo la sua mano destra guizzare in cerca della spada, ma senza sfoderarla.
Forse dovremmo scappare: non sono un'esperta in fatto di combattimenti, ma è quello che farei io in questo momento. E invece resto ferma perché Rohkeus e Gordost non si sono mossi di un palmo, immobili in mezzo al sentiero a scrutare le creature in arrivo. Probabilmente hanno ragione loro, tanto ormai i due guerrieri ci hanno visti di sicuro e intorno a noi è talmente buio che se uscissimo dal sentiero non riusciremmo ad andare molto lontani. Non ci resta che aspettare e sperare che non abbiano cattive intenzioni.
Quando sono ad appena un paio di braccia da noi, si fermano. Credo ci stiano squadrando così come noi stiamo facendo con loro, anche se non riesco a distinguere gli occhi in quei volti tutti neri.
— Viaggiatori erranti, tornate da dove siete venuti — ci ordina uno dei due, con voce metallica. Do una rapida occhiata all'anello, per accertarmi che la direzione sia quella giusta.
— Non possiamo — ribatto, tentando di sembrare più coraggiosa di quanto non mi senta in realtà. — Vi chiediamo la gentilezza di lasciarci passare.
Per tutta risposta loro tirano fuori due grandi spade nere.
— Tornate indietro, viaggiatori, da qui in poi si snoda la nostra landa e nessuno la può attraversare.
Sento un fischio metallico accanto al mio orecchio. Anche Rohkeus ha estratto la sua spada, e questo mi ricorda che adesso anch'io ne possiedo una e forse è il caso di usarla.
Il primo a fare un passo avanti è il mezzelfo e si tratta proprio di un passo, niente di aggressivo, ma basta per scatenare la furia dei due guardiani. Uno attacca me e l'altro si avventa su Rohkeus, ma hanno fatto male i conti non considerando il lupo, che subito accorre in mio soccorso, consapevole che il mezzelfo può farcela anche senza di lui mentre io non ho speranze.
Mentre la grande la lama nera si abbatte su di me, alzo di scatto la mia spada e le due armi cozzano una contro l'altra in un fragore metallico. Subito però il guerriero ritrae la sua e mi attacca di nuovo, questa volta dal basso, senza darmi nemmeno il tempo di riprendermi dal colpo precedente. Tento di schivare la lama buttandomi di lato, a terra, ma se non vengo ferita è solo per merito di Gordost, che si avventa sul braccio del nemico deviando la traiettoria dell'arma.
Il guerriero fa un giro su se stesso, sfuggendo alle fauci del lupo, ed è subito pronto a sferrare un nuovo colpo. È instancabile, a ogni attacco ne fa seguire un altro, preciso e letale, come se in testa avesse l'esatta sequenza di movimenti e non dovesse fare altro che eseguirli, senza nemmeno pensare.
Io invece non capisco. Il combattimento è confuso, un'accozzaglia di gesti che si mischiano davanti ai miei occhi senza alcuna logica. Tento di muovermi come mi ha insegnato Rohkeus, ma il guerriero è forte e veloce e riesco a malapena a non farmi ammazzare.
Rispondo d'istinto ai suoi fendenti, troppo rapidi perché io riesca a creare una qualunque strategia. Sotto la sua pioggia di colpi non riesco a pensare proprio a niente, tranne che devo vincere, devo assolutamente perché la vita di Alveus dipende da chi vincerà questa battaglia.
Poi, d'un tratto, il guerriero cade in terra. In qualche modo Gordost è riuscito a sbilanciarlo, non so come.
Il lupo salta subito sulle braccia dell'uomo approfittando della sorpresa di quest'ultimo, disarmandolo, e ora lo tiene fermo con le possenti zampe. Mi fissa con i suoi occhi espressivi e con quello sguardo pare dirmi: ora, Lympha, finiscilo ora.
Mi avvicino in fretta, scivolando sulle foglie, mentre Gordost lotta per tenere fermo il nemico. Ho le mani sudate e l'elsa minaccia di sfuggirmi, così la stringo saldamente con entrambe le braccia. Appoggio la spada sul petto del guerriero, dove immagino si trovi il cuore, e affondo.
All'inizio non succede nulla. La punta della lama stride sull'armatura, mentre l'uomo cerca di sottrarsi al suo destino. Gordost lo immobilizza di nuovo, e io ci riprovo. Metto nelle braccia tutta la forza della mia disperazione, ma sembra non bastare.
Poi qualcosa cede.
Sento la lama che si incastra tra due placche dell'armatura, una punta tra le valve di un'ostrica, e incontra la carne morbida al di sotto. Penetra con facilità, rompendo le ossa della gabbia toracica e poi affondando nel cuore.
Un conato di vomito mi sale in gola, ma lo rimando giù, mentre una lacrima mi solca il viso e lui muore.
Muore, con un gemito impercettibile.
Muore, e ad ucciderlo sono stata io.
Io.
Noi ninfe non siamo fatte per uccidere, non lo facciamo mai, per nessun motivo, così mi è stato insegnato.
Poi, d'un tratto, un'immagine si infila violenta nella mia testa, un ricordo che avevo accantonato in un angolo oscuro del cervello e che mi palesa quanto io una buona ninfa non lo sia mai stata. Perché io avevo già ucciso, e senza motivo.
Era un giorno di fine inverno e io non avevo ancora compiuto dodici primavere. Il tempo prometteva pioggia, ma fino a quel momento non era ancora caduta nemmeno una goccia d'acqua. Me ne stavo seduta sulla sponda del fiume poco fuori dal villaggio, con i piedi nudi a penzoloni appena sopra la superficie trasparente, e accanto a me, in silenzio, c'era Callàis.
Talvolta ci capitava di passare il tempo insieme, anche se in realtà non so spiegarmi il perché. Io lo odiavo e lui a sua volta odiava me, ma ciononostante quel giorno eravamo seduti fianco a fianco a specchiarci sull'acqua in un'unica immagine. Forse, giacché nessun altro amava passare le giornate con noi, era inevitabile che finissimo per farci compagnia nei momenti vuoti. Credo che ci sembrasse brutto escluderci a vicenda, come se ci sentissimo in colpa a trattare l'altro come facevano tutti. A unirci era una sorta di affinità simile a quella che lega due naufraghi su un'isola deserta, un sentimento che solo due compagni di sventura possono comprendere.
Comunque, a me non piaceva per niente passare il tempo con lui. Mi sentivo a disagio perché da Callàis non sapevo mai cosa aspettarmi, era imprevedibile, fuori da qualunque schema.
Quel giorno però restare a casa mi era insopportabile, tantopiù che Iris aveva passato tutta la mattina a tediarmi con le sue prospettive per lo splendido pomeriggio che l'aspettava, quando lei e Alveus avrebbero aiutato la vecchia Aranea nella raccolta dei primi pollini. Un'attività che io non avrei mai scelto, e invece loro due si erano persino offerti volontari.
La mia pazienza era finita quando, subito dopo pranzo, mia sorella aveva cominciato a chiedermi con quale pettinatura stesse meglio e quale vestito le consigliassi di indossare. Non avevo retto ed ero uscita di casa sbattendo la porta. E poi, in qualche modo, mi ero ritrovata lì con Callàis.
— Lympha — aveva bisbigliato lui a un tratto, mentre con le mani accumulava sassi. — Lo vedi quel coniglio?
— Cosa? — avevo risposto io, sorpresa che avesse spezzato il silenzio.
— Il coniglio, sull'altra sponda.
Avevo aguzzato la vista e lo avevo scorto proprio nel momento in cui si avvicinava al fiume saltellando. Noi eravamo immobili da talmente tanto tempo che forse ci aveva scambiato per componenti del paesaggio e sembrava non avere alcun timore.
— Facciamo una gara — aveva continuato Callàis con un sorriso beffardo. — Vince chi lo becca.
— Lo becca?
— Sì, con i sassi.
Il sorriso gli arrivava ormai da un orecchio all'altro e gli illuminava il volto mentre mi depositava in mano un sasso.
— Dobbiamo prendere a sassate il coniglio? Ma si farà male.
— Non fare la piattola, ché mi sembri Iris.
Touché. Sapeva perfettamente come farmi cedere. Avevo stretto il sasso con più forza e mi ero alzata con lentezza per non spaventare l'animale.
Odiavo essere paragonata a mia sorella, ero stanca della gente che guardandomi pensava a quanto era perfetta lei e quanto bacata io. In quel momento pensavo che, se proprio la gente doveva giudicarmi male, almeno le avrei dato un motivo per farlo.
Avevo cominciato a far saltellare il sasso in mano, soppesandolo. Volevo fare bella impressione davanti a Callàis, non sapevo bene nemmeno io perché. Per fortuna mi avevano sempre detto che avevo un'ottima mira. Speravo fosse vero.
— Al mio tre lanciamo insieme — aveva bisbigliato lui, alzandosi a sua volta. — Uno. Due...
Sentivo l'aria carica di elettricità che ci sfrigolava intorno e che mi faceva correre più forte l'acqua nelle vene. Ormai era una questione di principio, avrei vinto io.
— Tre.
Avevamo scagliato il sasso in contemporanea, con violenza, galvanizzati dalla sfida, e lo avevamo colpito entrambi, lui al fianco e io alla testa. Il coniglio aveva provato a saltare via, ma era subito ricaduto in terra, stordito, mentre un fiotto di sangue gli colava dal capo. Lo guardavamo mentre si contorceva, agonizzante. Avrebbe dovuto farmi pena, ma in quel momento ero solo contenta di aver vinto.
— Lympha, sta morendo. Ora dobbiamo finirlo.
Avevamo attraversato il fiume su un ponticello di legno poco distante, di corsa perché volevamo arrivare prima di altri predatori affamati. Ci eravamo accovacciati uno di fronte all'altro e tra di noi, in terra, stava disteso il coniglio morente. Callàis aveva tirato fuori dalla tasca un coltellino di ferro e io lo avevo guardato sorpresa: da noi non circolava quel genere di cose, tutti i nostri oggetti erano di legno e di pietra, gli unici metallici ancora presenti arrivavano da un passato lontano di cui nessuno parlava mai e comunque erano pochissimi, possederne uno era quasi impossibile.
La lama aveva ammiccato subdola e invitante, con la luce grigia che traspariva dalle nuvole che ne faceva luccicare il filo tagliente. Avevo allungato la mano per togliere il coltello dalla presa di Callàis, ma lui lo aveva allontanato con un gesto rapido.
— Non così di fretta, ora ce lo giochiamo.
— Come? — avevo chiesto io, trepidante.
Lui mi aveva guardata negli occhi e aveva sorriso compiaciuto. Ho sempre trovato bellissimi gli occhi di Callàis, azzurri come lapislazzuli e quasi liquidi. Da piccola ero convinta fossero fatti con l'acqua della polla.
— Adesso lancio il coltello: se cade dalla parte liscia vinci tu, se cade da quella decorata vinco io — aveva spiegato mostrandomi l'altra faccia del coltello, fittamente incisa con motivi geometrici e tondeggianti. — Chi vince uccide il coniglio.
Le mani mi tremavano mentre lui lanciava l'oggetto, e non era per la paura. O meglio, un po' di paura l'avevo, ma non come quella che pervade il corpo quando a rischio c'è la propria vita. Era quel tipo di paura che attanaglia le viscere durante i giochi pericolosi, che mette in guardia le persone avvisandole che stanno oltrepassando il limite, ma che al tempo stesso dà l'adrenalina necessaria ad andare avanti.
Il coltello era caduto rivolgendo al cielo la parte levigata. Toccava a me. Lo avevo afferrato con presa sicura, nonostante il tremito alle mani che però avevo prontamente messo a tacere.
— E adesso? — avevo chiesto a Callàis, senza però distogliere gli occhi dalla lama. — Come faccio?
— Molto semplice. Senti qui, sul collo? La senti, l'arteria che pulsa? Tagliala.
Avevo poggiato il ferro freddo sul corpo ansimante dell'animale, che, gemendo, mi aveva puntato addosso i suoi occhi spaventati e supplicanti. Per un attimo avevo esitato.
Tu non sei Iris, mi ero detta poi, e con un colpo secco avevo reciso l'arteria. Il sangue ci era schizzato addosso macchiandoci i vestiti, il viso e l'innocenza. La mia, quantomeno, per Callàis di sicuro non era la prima volta.
Lui si era alzato in piedi e mi aveva allungato una mano, per aiutarmi ad alzarmi a mia volta. Senza parole ci eravamo lavati nel fiume e poi ce n'eravamo andati, lasciando lì quel che restava del coniglio.
Vorrei poter dire che mi sentivo in colpa, tanto da non riuscire a dormire la notte, ma mentirei. In realtà per una volta mi ero sentita potente, come se avessi avuto anch'io un potere magico, quello di decidere della vita e della morte degli altri, e questo mi faceva stare bene.
È facile dire che odiavo Callàis, ma non è del tutto corretto. Ciò che davvero odiavo era me stessa quando ero in sua compagnia, le cose che facevo e come mi sentivo dopo averle fatte. Sembrava quasi che lui avesse la capacità di scoprire i miei più segreti desideri e fosse poi in grado di realizzarli nel modo più macabro possibile. Forse non lo faceva nemmeno apposta. Forse in realtà a lui non dispiaceva passare il suo tempo con me perché ero l'unica disposta ad assecondare i suoi giochi perversi. Forse nemmeno a me dispiaceva passare il tempo con lui perché era l'unico in grado di soddisfare quella parte di me di cui non volevo nemmeno ammettere l'esistenza.
All'improvviso una mano calda mi atterra sulla spalla, facendomi sobbalzare. Ero così persa nel ricordo da non essermi accorta di star piangendo sul cadavere del guerriero, con le mani strette sull'elsa della spada ancora affondata nel suo petto.
— Ehi, ninfa, tutto bene?
Alzo gli occhi su Rohkeus, ma distolgo subito lo sguardo perché non voglio che mi veda piangere.
Lui allenta la presa delle mie mani sull'elsa e mi fa alzare con delicatezza, poi estrae la spada al posto mio e la pulisce dal sangue azzurro e brillante del guerriero passandola sulle vesti di quest'ultimo. Io mantengo gli occhi bassi, non voglio guardarmi intorno rischiando di vedere anche l'altro cavaliere riverso al suolo ad annegare nel suo stesso sangue.
Infila la mia spada nel fodero che porto legato in vita, poi mi guarda in volto e si immobilizza, esitante davanti alle mie lacrime. Si tocca prima i capelli e poi il marsupio, senza sapere comportarsi. Guarda Gordost in cerca d'aiuto e mi sembra talmente buffo che, nonostante tutto, non riesco a trattenere un sorriso. Alla fine, dopo aver soppesato tutte le possibilità, mi allunga un fazzoletto bianchissimo con ricamate le solite lettere, RTT.
— Era una creatura infernale, non preoccuparti, ninfa. Dovevamo eliminarli per forza o loro avrebbero eliminato noi — cerca di consolarmi mentre mi asciugo gli occhi. Mi mette di nuovo una mano sulla spalla, spingendomi lievemente in avanti, come per incoraggiarmi a camminare, ma poi la ritrae subito.
— Dobbiamo andare, o non faremo in tempo.
So che ha ragione e quindi non mi oppongo. Avanziamo uno di fianco all'altro, Rohkeus alla mia destra e Gordost alla mia sinistra. Cammino per inerzia, con la mente ancora invasa alternativamente dal coniglio morto e dal cavaliere, finché questi due non si fondono in un'unica grottesca creatura che mi scruta minacciosa con occhi ardenti.
A un tratto Gordost mi si avvicina, forse percependo il mio turbamento, e porta il capo sotto la mia mano invitandomi ad accarezzarlo. Affondo le dita nel suo pelo morbido, e la sua presenza calda e confortante riesce a placare i battiti impazziti del mio cuore.
Avanziamo fino a quando ci ritroviamo sulle sponde di un ampio lago azzurro e luminoso che rischiara la foresta nera che lo circonda. Lo guardo, meravigliata da tale splendore.
— Cosa dice l'anello? — mi domanda pratico il mezzelfo.
— Indica in mezzo al lago.
Non appena mettiamo piede nell'acqua una forte brezza increspa la superficie turchese e la terra comincia a tremare.
— Che succede? — Spaventata, mi aggrappo al lupo, artigliandogli il pelo.
Dal centro del lago si innalza una piattaforma nera, sulla quale spiccano due porte e una bilancia a bracci. Poi tutto torna immobile e silenzioso.
Dopo un attimo di esitazione, ci avviciniamo circospetti, salendo infine sulla liscia superficie di ossidiana. Le due porte sono uguali, tranne per le incisioni che le attraversano: "Prova del fuoco" su una e "Prova dell'acqua" sull'altra.
— E ora che dobbiamo fare? — mi domanda il mezzelfo, analizzando la bilancia tra le due porte.
— Semplice — sussurra una voce sibilante.
Ci guardiamo intorno, spaventati, finché non scorgiamo una piccola creatura azzurra come l'acqua da cui emerge appena. I suoi grandi occhi senza iride né pupilla ci fissano, mentre Rohkeus le domanda brusco: — E tu chi sei?
— Come siamo scortesi, mezzelfo, sto solo cercando di aiutarvi.
— E perché lo staresti facendo?
— Sai, non tutte le creature che si trovano all'inferno sono necessariamente cattive.
La fisso, senza sapere che ribattere.
— Come vi stavo dicendo, è molto semplice. Sotto questa piattaforma si nasconde una porta, per poterla aprire dovete superare le prove dell'acqua e del fuoco. Vi basterà entrare prima in una porta e poi nell'altra e seguire le istruzioni che vi verranno date. Dalle due prove dovrete portarvi dietro due oggetti da mettere sulla bilancia. Se il peso è quello giusto, vi si aprirà il passaggio.
— Che tipo di prove sono? — domando, un po' preoccupata.
— Non lo so, io non le ho mai fatte, e poi si dice che cambino da persona a persona.
— Grazie mille, piccola creatura — la ringrazia Rohkeus.
— Non c'è di che, in cambio vi chiedo solo un piccolo favore: se per caso, durante le prove o in qualsiasi altro momento, vi dovesse capitare di incontrare una fata come me di nome Laality, vi prego, ditele che sua madre la ama e non aveva nessuna intenzione di abbandonarla.
Detto questo scompare nelle acque azzurrissime dellago, veloce come è apparsa, lasciando dietro di sé solo una serie di onde concentriche.
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