11. L'arte della guerra
Per quanto mi sforzi, non riesco ad addormentarmi e nella mia mente si alternano momenti di veglia e di incoscienza troppo brevi per poter essere definiti sonno. Quando ormai non ne posso più di stare sdraiata a letto, scalcio via il lenzuolo in malo modo e mi tiro su a sedere. Mi sento quasi completamente ristabilita: la febbre è passata del tutto e anche il dolore alla spalla è solo un pulsare sordo. Provo con cautela a muovere il braccio e con piacere noto che, ignorando qualche lampo di dolore sopportabile, ci riesco senza difficoltà.
Mi alzo e, con passo deciso, mi avvio all'armadio. I vestiti sono ancora lì, tutti allineati e in posa, pronti per essere scelti e indossati, ma io non ho idea di quale sia il più adatto per una missione all'inferno. Li passo uno dopo l'altro, indecisa, indugiando sui diversi tessuti, finché la mia mano si ferma su un abito nero con decorazioni dorate. La stoffa sembra resistente e la gonna possiede due spacchi laterali per agevolare il movimento delle gambe.
Lo provo e, mentre lego in vita la fusciacca dorata, non posso fare a meno di notare che anche questo mi calza a pennello. Probabilmente si tratta di una qualche magia demoniaca. Memore della mia recente esperienza, estraggo dall'armadio anche un paio di stivaletti dall'aspetto resistente: non ci tengo a farmi venire nuovi tagli e vesciche ai piedi, ora che quelli vecchi sono praticamente guariti.
Raccolgo i miei pochi averi, bisaccia e fagotto, nel quale ho inserito anche il mio abito da sposa che non ho il coraggio di lasciare qui, e mi avventuro nei corridoi cercando Rohkeus. Provo prima in cucina, anche perché è l'unico luogo che sono in grado di raggiungere. Non appena metto piede nella stanza un buon profumo di cibo mi assale, facendo brontolare il mio stomaco vuoto. Ma lui non c'è.
Ricomincio a vagare per i corridoi bussando a tutte le porte, finché sento un ripetuto suono metallico che mi conduce a un uscio socchiuso. Entro con circospezione e mi guardo intorno, sorpresa: la stanza è molto grande, in pietra come tutto il castello, ma non sono le dimensioni a stupirmi. A catturare il mio sguardo sono invece le innumerevoli armi che tappezzano le pareti, alcune tanto strane che non saprei nemmeno come definirle.
— Mai vista un'armeria?
La voce del mezzelfo riecheggia sotto gli alti soffitti, obbligandomi a spostare lo sguardo su di lui, che pare piccolo e fragile in confronto all'ambiente che lo circonda. Stringe una spada nella mano destra ed è così sudato che la camicia bianca gli si è appiccicata al petto tonico e muscoloso, costringendomi a guardare altrove. Gordost si accuccia ai suoi piedi, ansimante.
— Sono pronta per partire — lo informo. Alle mie parole lui mi squadra dalla testa ai piedi, esaminando la mia tenuta.
— Bene. Vieni qui — dice con tono imperioso, avviandosi verso la parete di fondo della stanza, e io lo seguo, finché mi ritrovo faccia a faccia con un'infinita serie di spade. Lui guarda me e poi le armi, continuando a soppesare e valutare.
— Questa sembra perfetta — decide infine, sollevando una spada sottile dall'elsa nera e dorata che poi mi porge con rispetto. Io resto ferma a fissare quella lama così affilata che mi ferisce gli occhi al solo guardarla e l'unica cosa che riesco a pensare è che è perfettamente in tinta col vestito. Stupida! Mi rimprovero subito, ma quell'arma mi fa sentire incredibilmente piccola e indifesa, tanto che il mio cervello non riesce a macinare pensieri intelligenti, e mi odio per questo perché, per tutti i fiumi!, si tratta solo di un oggetto, nient'altro che un oggetto, ma non riesco a convincermi ad allungare la mano e afferrarla.
— Non hai mai usato una spada in tutta la tua vita, vero? — comprende lui, con aria infastidita. — Prendila — mi ordina poi, vedendo che continuo a non muovermi. Riluttante stringo la mano intorno all'elsa e, al solo impugnare quello strumento di morte, mi sembra di star infrangendo un qualche patto stretto tra le ninfe e la vita. Noi non uccidiamo mai, per nessun motivo, così mi è sempre stato insegnato.
Rohkeus si volta, come a voler cercare qualcosa alle sue spalle e poi, all'improvviso, mi attacca. Sorpresa, alzo la spada d'istinto e un suono metallico mi riecheggia nelle orecchie, mentre la forza d'urto delle nostre spade che cozzano una contro l'altra mi attraversa le braccia.
— Ma sei impazzito! — esclamo arrabbiata quando lui abbassa la sua arma.
— Hai dei riflessi molto buoni. Saresti potuta essere un'ottima spadaccina, se solo qualcuno ti avesse insegnato l'arte della guerra. Ora abbiamo poco tempo, appena necessario per un'infarinatura di base. Su, forza, attaccami.
— Cosa?
— Attaccami.
— Ma io...
— Ti ho detto di attaccarmi, ninfa. Come se fossi il tuo peggior nemico.
Chiudo gli occhi cercando di vedere dietro le palpebre serrate il mio peggior nemico e, con sorpresa, mi rendo conto che non c'è nessuno che vorrei infilzare con una spada. Nessuno. Strizzo gli occhi con più forza. Iris. Immagina di attaccare Iris, mi dico, è lei la causa di tutta la tua sofferenza, è giusto che venga minacciata, che rischi la morte. Faccio un affondo verso il mezzelfo, ma il mio è un attacco fiacco e non ne traggo alcun piacere.
— Non ci siamo proprio. Più decisione, più forza. Vedo che voi ninfe siete rimasto lo stesso popolo debole di una volta.
— Tu conoscevi le ninfe?
— Sì, i nostri popoli erano legati da accordi commerciali e di amicizia. Noi vi fornivamo i nostri manufatti, cose tipo ciotole e posate forgiate dai nostri artigiani, e voi in cambio ci aiutavate con la vostra magia.
— E allora perché io non ho mai sentito parlare di voi?
— Non ne ho idea, forse dimentichi che, negli ultimi secoli, io sono stato rinchiuso qui all'inferno.
Resto un attimo ferma a pensare, cercando di ricordare se qualcuno, nel mio villaggio, abbia mai nominato i mezzelfi, ma per quanto mi sforzi la mia mente rimane un foglio bianco.
— Queste spade le hai forgiate tu? — domando poi, quando il luccichio delle armi attira nuovamente la mia attenzione.
— Alcune.
— Quindi eri un artigiano?
— No, non lo ero, lo sono diventato all'inferno. E ora basta perdere tempo.
Ha perfettamente ragione, mi devo concentrare, prima imparo prima partiamo. Faccio un respiro profondo e lo attacco mettendo in quel gesto tutta la rabbia che il mio corpo può contenere. Rabbia per essere finita qui, per aver deluso Alveus, mia madre e tutta la Comunità. Rabbia per sentirmi tanto impotente nonostante i miei sforzi. La concentro tutta in quell'unico colpo che mi pare tanto preciso e letale che per un attimo temo di uccidere il mezzelfo, ma è solo un'illusione perché lui, con un semplice movimento del braccio, mi disarma e prima che io riesca a rendermene conto mi ritrovo con la lama puntata alla gola.
— Non male per una principiante — sussurra lui, lasciandomi andare. — Ci sono però alcune cose che vanno sistemate. Raccogli la spada.
Ubbidisco e lui mi mostra la corretta posizione di gambe, busto e spalle. Mi insegna i punti deboli di un guerriero, dove colpire e come difendermi, mi fa provare più e più volte. Io cerco di imparare il più possibile e non posso che osservare ammirata i suoi movimenti fluidi e decisi, con Gordost che, al suo fianco, lo aiuta in ogni parata o attacco, sempre tra i suoi piedi ma senza mai intralciarlo nei movimenti. Insieme sono così perfetti che mi si riempiono gli occhi di lacrime e non so nemmeno bene il perché. Forse mi ricordano me e Iris da bambine, quando ancora eravamo tutto l'una per l'altra e ci capivamo senza nemmeno aver bisogno di guardarci.
— Credo che così possa andare — stabilisce infine, rimettendo la sua spada nel fodero. — Un ultimo consiglio: legati i capelli, così rischiano di finirti davanti agli occhi limitando la tua visuale.
Mentre lo assecondo acconciando i miei capelli candidi in una coda alta sulla testa, lui si avvia verso la porta.
— Mi cambio e partiamo, prepara la tua borsa.
— Ho solo queste cose — lo informo, indicandogli i miei due fagotti che lui guarda scettico.
— Non puoi mettere tutto in un'unica sacca?
Per un attimo sono tentata di rivelargli l'esistenza del cubo acido, ma non sono ancora del tutto sicura di potermi fidare completamente di lui e così non lo faccio: preferisco tenere un'arma segreta che sia solo mia.
— No — rispondo semplicemente e lui se ne va senza aggiungere altro, lasciandomi in compagnia di Gordost che si accuccia ai miei piedi uggiolando come un cucciolo.
Quando torna, vestito tutto di nero e grigio e con un'armatura leggera a coprirgli busto e avambracci, mi lancia una grande borsa in pelle che io afferro un attimo prima che cada in terra.
— Metti tutto qui dentro — mi ordina, mentre si lega una bisaccia simile sulle spalle. — Ci ho già messo dentro del cibo, dovrebbe bastarci per un po'.
Alla parola cibo il mio stomaco gorgoglia e le labbra di Rohkeus si alzano in un mezzo sorriso. — Intanto mangia questo — dice allungandomi un pezzo di carne essiccata e dei rimasugli di patate. — Non mi interessa se sei vegetariana — afferma senza neanche darmi il tempo di ribattere alla sua offerta. — O mangi quello o è del tutto inutile partire, debole così non resisteresti nemmeno un giorno.
Lo guardo con espressione truce, consapevole che ha ragione ma senza volerlo ammettere, e, di malavoglia, mi ritrovo ad allungare la mano per afferrare il cibo. Il primo morso alla carne mi fa salire la nausea e tutto quello che vorrei è sputare il boccone e pulirmi la lingua con un lungo sorso d'acqua, ma mi faccio forza e, un pezzetto dopo l'altro, mangio tutto. Mi sento in colpa, come se il corpo fatto a pezzi e poi cotto fosse stato quello di mia madre, ma non lo faccio sapere al mezzelfo, tanto non farebbe nessuna differenza.
Appena deglutisco l'ultimo boccone, Rohkeus si avvia verso la porta con il lupo che gli trotterella alle spalle. Attraversiamo il labirintico castello per uscire dall'ampio portone da cui siamo entrati ormai più di un paio di giorni fa e ci ritroviamo di nuovo a camminare in quel cimitero di pietre che è il regno del mezzelfo. Mi guardo intorno perplessa.
— Ma il sentiero si è spostato? — chiedo alla mia guida. — Me lo ricordavo più dritto.
— Sì — è tutto quello che risponde, salvo poi aggiungere un — Te lo avevo detto.
Camminiamo senza parlare fino al grande cancello dorato, poi, una volta usciti, Rohkeus si ferma e mi chiede: — Da che parte?
Mi sfilo l'anello dal dito e lo guardo senza sapere bene che fare. Devo davvero parlare con quel gingillo? O mi basta pensare alla destinazione? Portami da Alveus, gli chiedo mentalmente. Dalla pietra nera compare la stessa freccia argentata che c'era disegnata sopra quando l'ho trovato e che, come allora, comincia a girare per poi fermarsi indicando un punto lontano di fronte a noi.
— Di qua — affermo decisa incamminandomi, ma dopo due passi mi fermo e mi volto, aspettando che Rohkeus mi sorpassi e mi faccia strada, come ha sempre fatto finora. Lui, appena dietro di me, si ferma a sua volta e mi guarda confuso.
— Che c'è? — chiede.
— Niente — affermo, poi mi giro di scatto e ricomincio a camminare. Ovvio, io ho l'anello, sono io che devo fare strada. Stupida! Non capisco come sia possibile che io mi sia già a tal punto abituata ad andare in giro con quel mezzelfo: lo conosco da appena tre giorni, non può essersi già creata una sorta di routine tra di noi. Eppure c'è qualcosa di strano in lui, qualcosa che non mi so spiegare e che, per qualche motivo, me lo fa vedere come socio mio pari ed è una sensazione a cui non sono abituata. È come se, per tutta la mia vita, non avessi fatto altro che cercare di stare un gradino sopra tutti, mentre ora non mi importa di essere la migliore, non sento di dover dimostrare niente a nessuno e stranamente questo mi fa sentire bene. Non ho niente in contrario al fatto che sia Rohkeus a guidarmi, per una volta non voglio essere io il capo a tutti i costi. E questa cosa mi sconvolge.
— Quindi quando eri sulla terra sei stato nel mio villaggio? — chiedo, cercando di concentrare la mia mente su qualcos'altro.
— Una volta sola, come ti ho già detto io non ero un artigiano e non avevo nulla da commerciare — risponde lui, affiancandomi.
— E allora perché mi hai fatto tutte quelle domande sull'acqua corrente? Sono cose che avresti già dovuto sapere.
— Innanzitutto sono passati un bel po' di anni da quando ci sono stato io, le cose avrebbero potuto essere diverse. E comunque all'epoca non ero interessato a questi dettagli.
— E a cosa eri interessato?
— Sai, non ero una bella persona — mi dice invece lui dopo un attimo di silenzio, senza rispondere alla domanda. — Nessuno che sta all'inferno lo è.
— Alveus sì — ribatto decisa.
— E allora come ci è finito qui?
Mi zittisco di botto: non sono ancora pronta ad ammettere le mie colpe.
— Forse neanche io sono una bella persona — mi ritrovo a dire, probabilmente pensandolo sinceramente per la prima volta in tutta la mia vita.
— Forse no — concorda lui.
— Quindi Gordost non era un bravo lupo? — domando, cercando di sdrammatizzare.
— Oh no, lui era un bravissimo lupo — risponde il mezzelfo con un tono monocorde che mi spinge a voltarmi per guardarlo in faccia, ma la sua espressione è impassibile come sempre. E allora come ci è finito qui? vorrei chiedergli, ma sono abbastanza sicura che non mi risponderebbe.
— Descrivimi Alveus — domanda invece lui.
— Perché?
— Vorrei poter riconoscere quello che stiamo cercando, in caso lo vedessi.
— Certo... magro, di una spanna più alto di me, quindi anche più alto di te, capelli plumbei tagliati corti alle orecchie e occhi verdissimi, color smeraldo.
— È tuo fratello?
— No — ribatto indignata, voltandomi a guardarlo. — È il mio fidanzato, stavamo per sposarci. Perché mai...
Non mi accorgo del buco nel terreno finché non ci metto un piede dentro e, se non precipito sul fondo, è solo per la prontezza del mezzelfo, che mi afferra all'ultimo secondo tirandomi in salvo. Mentre mi riprendo dallo spavento Gordost si affaccia al buco, annusando circospetto, subito seguito da Rohkeus.
— È enorme, come hai fatto a non vederlo? — mi chiede sorpreso ed effettivamente non posso che dargli ragione: il diametro potrebbe tranquillamente misurare un paio di braccia.
— Si vede il fondo? — domando quando il mio respiro torna normale.
— No. Che dice l'anello?
Mi alzo in piedi e comincio a girare intorno al buco, accorgendomi con orrore che la freccia argentata continua a puntarlo.
— Temo che dovremo saltarci dentro.
Alle parole del mezzelfo un brivido mi attraversa la schiena. Lui prende un sasso e lo fa cadere nel tunnel nero, ma questo continua a precipitare senza mai arrivare in fondo. Non sentiamo nessun tonfo, è come se fosse sparito nel nulla.
— Non sarà per niente piacevole — mi informa Rohkeus, guardandomi da sotto le sue folte sopracciglia.
— Ma non abbiamo scelta — gli rispondo, manifestando un coraggio che non sono certa di provare. Anzi, la sola idea di sprofondare in quell'abisso mi riempie di angoscia. Come tutte le ninfe, io sono una creatura di luce: adoro il sole, il gioco di ombre che i suoi raggi producono sul terreno del bosco passando tra le foglie degli alberi, l'acqua fresca sulla pelle e l'aria che spettina i capelli. Invece ora davanti a me non c'è altro che buio, una sorta di notte senza nemmeno una stella e in grado di generare solo incubi. Deglutisco, cercando di sciogliere il grumo di ansia che mi si è generato in gola. Gordost intanto continua a camminare avanti e indietro intorno al buco, con la coda bassa, evidentemente preparandosi a quello che lo aspetta.
— Vado prima io — afferma il mezzelfo deciso e, senza lasciarmi il tempo di ribattere, salta nell'oscurità. Il lupo ulula spaventato, poi fissa su di me i suoi occhi gialli, come se fosse in attesa di un mio segnale. Sapere di non essere sola in qualche modo riesce a rincuorarmi.
— Okay, Gordost, adesso andiamo anche noi. Pronto?
Senza darmi il tempo di aggiungere altro, balza nel buco e io lo seguo a ruota.
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