10. La retta via

Percorro a passo spedito i cupi corridoi di pietra senza sapere dove andare ed è solo grazie a un pizzico di fortuna che riesco a ritrovare la mia camera. Mi lascio cadere pesantemente sul grande letto a baldacchino, sprofondando nelle coperte morbide, e mi afferro la testa con le mani, artigliandomi la pelle con le unghie spezzate. Continuo a ripetermi che il mezzelfo ha torto, che mi ha mentito, che forse anche lui è un po' sadico e si diverte a vedermi impazzire. Magari ha passato così tanto tempo nel regno del demone che ora è diventato crudele come lui.

Me lo ripeto nel tentativo di convincermi che sia così perché l'alternativa è troppo terribile da accettare, non ci riesco, non sono pronta e forse non lo sarò mai. Il pensiero che Alveus è perduto per sempre, che io sono perduta per sempre, è tanto devastante che mi annienta del tutto. Qualunque cosa Rohkeus mi dica so che non posso arrendermi. Non posso.

Il pulsare sordo della spalla fa da sfondo ai miei pensieri ed è tanto intenso che potrebbe benissimo essere il battito del mio cuore che si è spostato. Nella stanza fa sempre più caldo e io mi sento tanto stanca da non riuscire più a tenere gli occhi aperti. Cerco di convincermi ad alzarmi, devo prepararmi a partire di nuovo, anche senza il mezzelfo, ma le mie palpebre non vogliono saperne di restare sollevate e così precipito tra le braccia del sonno senza nemmeno accorgermene.

Passo da un sogno confuso all'altro, sequenze di immagini senza senso in rapida successione, finché all'improvviso mi ritrovo nella sala ad anfiteatro dove si riunisce il Consiglio della Polla. Sono seduta sulle dure e scomode panche in legno, nella fila più alta, e da qui riesco a distinguere tutti i rappresentanti delle famiglie che, sotto di me, sono impegnati in un'animata discussione.

So che sto rivivendo la prima volta che mi è stato concesso di assistere a una riunione, la settimana dopo il compimento della mia diciottesima primavera, l'inizio dell'apprendistato che mi porterà a sostituire mio padre come rappresentante della famiglia nell'assemblea più importante della Comunità.

Alla mia destra è seduta Nox, la sorella di Callàis, troppo piccola e delicata rispetto alla severità delle massicce panche di legno. I suoi capelli neri come la notte, così diversi dai boccoli biondo pallido del fratello, le incorniciano il volto sottile, da bambina, e per un attimo mi sembra più piccola delle sue sedici primavere. Al suo fianco mi sento a disagio, inadeguata; mi sembra strano che una ninfa giovane come lei abbia già iniziato l'apprendistato, cosa che normalmente non avviene fino al compimento del diciottesimo anno di vita.

Ovviamente so che c'è una valida motivazione, so che dalla morte del padre non c'è più nessuno a rappresentare la famiglia nel Consiglio e sono anche consapevole del fatto che nessuno vorrebbe che a sostituirlo fosse Callàis, sebbene maggiore della sorella di tre primavere.

Eppure, vicino a lei mi sento fuori posto, non riesco a non pensare a come entrambe siamo delle imbroglione, due fantocci che sostituiscono chi in realtà dovrebbe stare su queste panche. Perché, come so che il posto di Nox sarebbe dovuto essere di Callàis, sono anche cosciente del fatto che, se non avessi stretto quel patto, ora qui ci sarebbe stata Iris. Lo so, ma, nonostante il disagio, non è senso di colpa quello che provo, ma piuttosto un bruciante trionfo. Sento di aver vinto su tutti i fronti: contro mia sorella, che ora cammina nella mia ombra, e contro Callàis, che non si è mai dimostrato abbastanza forte e che ogni giorno mi mostra quale sarebbe stata la mia vita se mi fossi limitata a subire.

Accarezzo la panca, fiera di come sono riuscita a ribaltare l'immagine che le altre ninfe avevano di me in così poco tempo. Raddrizzo la schiena, con l'orgoglio che spazza via tutto il mio precedente senso di inadeguatezza, e mi maledico in silenzio per aver permesso alla vecchia debolezza di cui soffrivo da bambina di fiaccare ancora la mia anima. Riporto lo sguardo sui membri del Consiglio nelle file più in basso e non posso fare a meno di sorridere compiaciuta.

Questa parte del sogno è l'unica che riesco a ricordare quando qualcosa di freddo e bagnato mi riporta nel mondo reale. Riapro gli occhi con fatica e per un attimo non riesco a distinguere nulla nella luce accecante, tanto intensa da costringermi a serrare nuovamente le palpebre.

— Ah, sei sveglia — dice una voce dura e sincopata al mio fianco. Tento di riaprire gli occhi e questa volta riesco a intravedere la sagoma di un uomo con le spalle squadrate seduto di fianco al mio letto. Per un attimo non capisco di chi si tratta, come se il mio cervello stesse macinando le informazioni al rallentatore, ma poi lo riconosco: Rohkeus. Cosa ci fa il mezzelfo in camera mia? Vorrei chiederlo, ma la gola è troppo riarsa per funzionare e dalle mie labbra secche esce solo un mugolio incomprensibile. In realtà sento caldo ovunque, come se il mio corpo fosse immerso nel fuoco.

— La ferita sulla spalla ha fatto infezione — mi informa lui, forse vedendo la mia espressione confusa. Alzo una mano tentando di raggiungere il punto incriminato, ma solo sollevarla di una spanna dal letto richiede uno sforzo eccessivo e così la lascio ricadere mollemente sul lenzuolo. Intanto la stanza intorno a me è tornata pian piano ad avere i contorni nitidi e ben definiti. Sono sdraiata nel letto a baldacchino, con la testa sul cuscino e una leggera coperta bianca sul corpo vestito con una morbida camicia da notte ricamata. Con orrore mi rendo conto tutto d'un tratto che il mezzelfo deve avermi cambiata e adagiata poi in maniera più composta rispetto a come mi ero lasciata cadere io sul letto.

— Cosa ci fai qui? — riesco ad articolare a fatica, mentre cerco di tirare la coperta il più su possibile, fino a coprirmi il mento.

— Dopo la cena sei scomparsa. Quando sono venuto a vedere che fine avevi fatto ti ho trovata che deliravi in un bagno di sudore. Te l'avevo detto che la ferita andava disinfettata subito.

Detto questo si sporge a togliermi una pezzolina bagnata dalla fronte e la immerge in una vaschetta posta sul comodino accanto al letto, poi la strizza e me la riposiziona sul capo. Per un attimo una sensazione di fresco mi ristora, ma dura troppo poco e ricomincio subito a bruciare. Una goccia mi cola dalla fronte e non so dire se si tratta di sudore o acqua.

— Deliravo?

Lui annuisce brevemente con il capo.

— E cosa ho detto? — chiedo preoccupata. Vedo contrarsi i muscoli del suo viso, come se gli avessi fatto una domanda a cui non vuole rispondere.

— Perlopiù cose senza senso.

Non mi guarda negli occhi e io non riesco a credergli.

— E le cose sensate, invece? Cosa hai capito? Dimmelo.

— Blateravi di poteri magici e patti con i demoni. Ogni tanto facevi qualche nome.

— Chi? Chi ho nominato? — domando mentre il cuore comincia a battere più forte. Lo sa. Ora sa cosa ho fatto.

— Iris, il più delle volte. E Callàis.

Callàis? Lo guardo a occhi spalancati. Perché avrei dovuto chiamare Callàis nel sonno? Va bene, ricordo vagamente di aver pensato a lui, ma in realtà non era nemmeno presente, nel sogno ero con sua sorella. Nella parte che ricordo, almeno. Un brivido mi percorre le membra. Mi succede spesso quando penso a Callàis, il semplice immaginare i suoi occhi pungenti mi riempie di inquietudine.

— Hai freddo? — mi domanda Rohkeus con una sfumatura strana nella voce che potrebbe essere identificata come preoccupazione.

Scuoto la testa per negare, ma non appena lo faccio sento il mondo cominciare a girare intorno a me.

— Riesci a metterti seduta? Ti ho portato della zuppa con un infuso di erbe mediche, dovrebbero farti stare meglio. — Il tono grezzo della sua voce contrasta con la gentilezza delle parole.

Tento di tirarmi a sedere, ma i miei muscoli sono troppo deboli e così lui è costretto a sollevarmi con le sue braccia forti, sistemandomi poi il cuscino dietro la schiena. Tutta questa manovra mi imbarazza, sia perché odio sentirmi un'invalida sia perché le mani che hanno toccato il mio corpo cercando di aiutarmi sono quelle di uno sconosciuto. Dalla ferita sulla spalla partono stille di dolore che cerco di ignorare.

Rohkeus prende una ciotola dal comodino e fa per passarmela, salvo poi fermarsi a metà movimento, con espressione pensosa. Restiamo un attimo a fissarci, finché lui riavvicina a sé il piatto e, dopo aver immerso un cucchiaio nella zuppa, lo avvicina alla mia bocca. D'istinto serro le labbra, imbarazzata. L'ultima persona ad avermi imboccato è stata mia madre quando non avevo nemmeno quattro primavere. Tuttavia sono costretta ad assecondarlo e così mangio tutta la zuppa senza mai guardalo in faccia. Un morbido tepore mi avvolge la mente e, senza poter opporre resistenza, scivolo di nuovo nel sonno.

Quando, tempo dopo, riapro gli occhi di scatto so con assoluta certezza di aver sognato Callàis, anche se non riesco a rammentare nient'altro. Mi guardo intorno, ma la luce nella stanza è sempre uguale e così non so dire quanto tempo io abbia dormito. O almeno, non lo so finché non abbasso gli occhi sul mio braccio, dove quattro cerchi completamente anneriti fanno bella mostra di sé. Due giorni, sono stata incosciente per due giorni interi.

D'un tratto sono sveglissima, consapevole di ogni attimo andato perduto. Mi metto a sedere e questa volta ci riesco da sola, nonostante la spalla continui a pulsare, seppur in modo molto più attenuato. In realtà nel complesso mi sento molto meglio rispetto a prima. Mi chiedo cosa ci fosse in quella zuppa.

Se svegliandomi mi ero convinta di essere sola, ora che sono seduta mi rendo conto che non è così: Rohkeus è ancora accomodato al mio fianco, anche se adesso la sua sedia è posizionata a qualche passo dal letto. Lo guardo dormire per qualche attimo, coordinando il mio respiro al ritmico e rilassante abbassarsi e alzarsi del suo petto, e mi accorgo che indossa ancora la camicia bianca che aveva mentre preparava la cena. Mi viene il dubbio che da allora abbia passato praticamente tutto il tempo al mio capezzale e, benché la cosa mi imbarazzi, non posso fare a meno di provare una piacevole sensazione di calore nel petto.

Osservo il suo volto, curiosa di vedere com'è quando non sa di essere osservato, quando il sonno lo priva delle sue difese, e mi sorprende notare che l'espressione dura che caratterizza il suo viso da sveglio non lo abbandona nemmeno quando dorme. Sorpresa... non che io abbia ragione di esserlo: in fondo di lui non so nulla, è solo uno sconosciuto che mi ospita nella sua casa sconosciuta in un mondo sconosciuto.

Con cautela mi alzo e non so nemmeno io cosa sto facendo finché non mi ritrovo in bagno, davanti alla grande tinozza, e vedo la mia mano girare la rotella. Per immergermi non aspetto nemmeno che si riempia d'acqua e, privatami della camicia da notte, mi lascio scivolare nel liquido gelato che sale piano piano. Chiudo gli occhi e immagino di essere a casa, nel mio fiume. Non credevo che la nostalgia avrebbe fatto così male.

Dei colpi ripetuti alla porta mi fanno spalancare gli occhi.

— Ninfa, sei in bagno?

A malincuore esco dalla tinozza, sgocciolando su tutto il pavimento.

— Ninfa? — chiede di nuovo il mezzelfo dando altri due colpi sul legno, prima di cominciare ad abbassare la maniglia.

— Sì, sono qui. Ora esco — gli dico per bloccarlo prima che irrompa nella stanza, non voglio che mi veda ancora senza vestiti.

Quando ritorno in camera lo trovo che mi volta le spalle, con il viso girato verso la finestra.

— Ti senti meglio?

— Sì. Cosa c'era in quella zuppa? Erbe magiche?

— Più o meno.

Lo guardo stupita. — Non pensavo che tu sapessi fare incantesimi.

— Infatti non ne sono capace. Mi ha lasciato le sue erbe una strega che ho ospitato per qualche tempo.

— Ti capita spesso di ospitare gente?

— No. Quasi mai, in realtà.

C'è una tale tristezza nella sua voce che mi sento quasi in colpa a dirgli che ho intenzione di andarmene al più presto. All'improvviso si gira a guardarmi, in volto un'espressione seria e solenne.

— Ninfa, dimmi una cosa: dove l'hai trovato questo? — mi chiede allungando la mano verso di me. Tra le sue dita squadrate luccica l'anello che avevo lasciato in bagno, deve averlo trovato mentre riempiva d'acqua la bacinella che sta ancora sul mio comodino.

— Era al dito di uno scheletro su cui sono inciampata appena entrata nell'inferno.

Le sue mani si chiudono di scatto sul piccolo gioiello e l'espressione del suo viso diventa indecifrabile e tesa. Si volta di nuovo verso la finestra, come se non volesse guardarmi.

— Se lo vuoi te lo regalo, tanto a me non serve. Ho intenzione di partire subito.

— Sei ancora troppo debole per andartene. Partiremo domani mattina.

Non sono sicura di aver capito bene. — Partiremo? Avevo capito che non volessi partecipare a questa missione suicida.

— Tu non mi avevi detto di avere l'anello. Questo cambia le cose.

— Non capisco.

— Sai cos'è? — mi domanda, girandosi nuovamente verso di me e mostrandomi ancora il piccolo cerchietto metallico.

— Un anello? — rispondo cauta.

— È un manufatto del mio popolo, preciso e delicato eppure resistente, riconoscerei ovunque la squisita fattura. — Mentre parla si perde ad ammirare il gioiello, come se i suoi occhi non ne fossero mai sazi. — E poi io l'ho già visto, questo anello in particolare. So chi ha battuto i metalli che lo compongono e so che era amico di una strega, più che amico in realtà.

Fa una pausa, come se ricordare gli facesse male, e io aspetto in silenzio, tesa e ansiosa.

— È un gioiello incantato, ti indicherà sempre la retta via.

— La retta via per dove?

— Per ovunque tu voglia andare.

Resto un attimo zitta, temendo di non aver compreso bene. I miei occhi sono attratti dall'oggetto, inesorabilmente, così come i fiumi lo sono dai mari. Poi risposto lo sguardo su Rohkeus: voglio fissarlo negli occhi, voglio essere sicura che non mi stia mentendo.

— Questo anello può portarmi da Alveus?

— Sì, se è quello che vuoi.

— Mi può portare da lui? — Devo chiederglielo un'altra volta perché ancora non ci credo.

— Ti ho già detto di sì, ninfa.

Un sospiro mi esce dalle labbra socchiuse e io mi sento d'improvviso più leggera, come se fossi riuscita a scrollarmi dalle spalle un masso che non sapevo mi stesse opprimendo.

— Adesso riposati, dormi ancora un po'. Quando ti sveglierai ci metteremo in marcia — mi ordina mentre si avvia verso la porta.

— Rohkeus? — lo richiamo un attimo prima che scompaia oltre l'uscio. Lui si immobilizza e vedo che le spalle gli si irrigidiscono a sentire pronunciare il suo nome. — Perché vuoi venire con me?

Mi risponde senza voltarsi a guardarmi. — Perché sei la mia chiave per uscire da qui.

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