Fly.
La pioggia continuava incessantemente a cadere dal nero cielo di una notte milanese ingrigito da stracci di nuvole pronti a riversare sulle testa delle persone altro cattivo, dannato tempo. Come se oggi pomeriggio non fosse già stato abbastanza, si era visto costretto a piovere anche la sera; l'unica sera che avrei potuto passare fuori dalle quattro mura di casa.
«Ma sei matto? Mi hai fatto venire un colpo! Che ci fai qui?»
«Sono andato a cena, - ridacchiò- mica ad uccidere qualcuno.» Mi squadrò dalla testa ai piedi. «Diavolo, ti sei beccata un bel gavettone! Non ce l'hai l'ombrello?»
«No, genio, aveva smesso di piovere venti minuti fa, ho pensato di andare a farmi una passeggiata, è sabato, porca miseria! No che non l'ho preso l'ombrello, se l'avessi preso non mi sarei ridotta così, ti pare?» sbuffai. La pioggia torrenziale mi era finita sin dentro le ossa.
Misi le mani in tasca cercando disperatamente un po' di calore per le mie dita congelate.
Il vento freddo mi pizzicava fastidiosamente con i suoi pungenti aghi la nuca, unica parte del mio corpo non coperta dalla giacca autunnale che indossavo sopra il maglione. Sentivo i vestiti ancora umidi per via della secchiata d'acqua che il cielo mi aveva rovesciato addosso poco tempo prima.
«Ti concedo di metterti sotto il mio ombrello per questa volta, considerati onorata.» ribatté lui con un sorriso, la sua voce dolce. Mi piaceva il suo modo di parlare, mi piaceva quel suo accento siciliano così simpatico.
«Grazie mille.» Mi avvicinai a lui trovando finalmente un po' di asciutto. «Ti andrebbe di accompagnarmi a casa?» azzardai, ricordandomi solo dopo che lui non sapeva dove abitassi, e che risiedevo dall'altra parte della città. Riparai immediatamente. «Anzi, no. Potresti accompagnarmi fino alla fermata dell'autobus? Non abito in questo quartiere, dovrei prendere i mezzi.»
Lo vidi pensarci su un attimo mentre il rumore dei suoi passi risuonava sul marciapiedi, le lenti dei suoi occhiali ricoperte di piccole goccioline.
«Uhm...» Si voltò verso di me. «Ti propongo un'alternativa: il mio appartamento è qui vicino, ti va se ti fermi un attimo da me così ti scaldi un po' e permetti alla tua giacca di asciugarsi? Solo finché non smette di piovere, mi rifiuto di lasciarti sotto l'acqua e in balìa del vento.»
Si passò una mano tra i capelli, sfoderando il sorriso migliore che avesse: un sorriso premuroso, ma che allo stesso tempo non ammetteva una risposta negativa da parte mia. Sorrisi di rimando guardandolo come a voler dire 'non posso dirti di no se fai così'.
«E va bene, Pié, però appena smette di piovere, me ne vado, non ti voglio disturbare.» risposi.
Ci trovavamo al quinto piano di un edificio alto e spoglio, grigio come tutti gli altri, che dava su un vicolo poco trafficato normalmente, figuriamoci con un tempo simile. Appoggiando il fianco alla ringhiera del balcone guardai in giù: due ombrelli neri camminavano in direzioni opposte dall'altro lato della strada. Immaginai le vite di quelle due persone, i loro nomi, come mai fossero usciti quella sera con quel tempo. Rivolsi lo sguardo al cielo; le nuvole sembravano squarci grigi su una tela nera, mentre alcune fioche stelle tentavano disperatamente di far notare la loro luce, soffocate senza pietà dall'inquinamento luminoso della capitale lombarda.
Risollevai la testa e vidi il ragazzo che mi aveva dato prova della straordinaria ospitalità del sud Italia, oltrepassare la soglia della porta finestra per raggiungermi sul balcone. La sua mano formava una coppa intorno alla sigaretta che stava cercando di accendere nella fredda aria notturna. Il suo viso fu per un momento illuminato da qualche scintilla prima che comparisse una fiamma completa; la parte iniziale della sigaretta venne bruciata e sprigionò del fumo. Si appoggiò con il gomito alla balaustra.
Le luci giallastre dei lampioni che illuminavano la strada giungevano soffuse al balcone e, unite ai raggi offuscati di una falce di luna nascosta dietro le nubi, creavano un'atmosfera cupa, ma, al contempo, quasi romantica.
«Dai, entra, che aspetti?» mi disse con un sorriso accendendo la luce dell'ingresso.
«Non so, che tu mi dessi il permesso di varcare la soglia?» risposi, anch'io sorridendo.
«Hey, ci conosciamo da quasi due anni, mica non mi fido di te.» esclamò. Fece un ampio gesto con la mano verso l'appartamento.
«Benvenuta nella mia dimora, signorina.» Risi. Sorpassai la soglia della porta, accolta da un piacevole calore e dalla luce di una lampada a soffitto. Attraversai l'ingresso, trovandomi in salotto. Se era bello. A dispetto dell'esterno del condominio, senza alcun colore, spento, l'interno della sua casa era vivace, le pareti dipinte, il tappeto ricco di colori. Un quadro raffigurante un albero dorato simile al famoso Klimt, era appeso a una parete e ne occupava quasi tutta la superficie, facendo da sfondo a ciò che c'era di più bello in quella stanza: il suo pianoforte. Un pianoforte nero, lucido, splendeva come uno specchio.
Soffermai lo sguardo su di lui, sul suo profilo che si delineava nitido nell'oscurità della notte. I capelli neri pettinati con quel ciuffo all'insù che aveva sempre avuto facevano sembrare il suo volto più allungato di quanto lo fosse in realtà. Sui suoi lineamenti era disegnata un'espressione neutra, quasi fredda. I suoi occhi vagavano senza una meta precisa. Li conoscevo bene quegli occhi, molto spesso li avevo guardati. Erano castani, castani chiari, di quel color nocciola che ricordava l'autunno, la frutta secca, a volte, pensai, persino il legno. Quegli occhi che si trasformavano in nero pece quando il loro proprietario era arrabbiato, o che divenivano quasi dorati quando era felice, si illuminavano di una loro luce speciale. Erano particolari e per questo li adoravo.
«Dammi la giacca, su, così si asciuga.» Mi sfilai l'indumento e lo posai sulle sue mani. «Grazie.» dissi, prima di vedere il suo sorriso allargarsi e trasformarsi in una risata divertita. «Che c'è?» chiesi. «Niente, niente. - rispose lui - È solo che i tuoi capelli sono... sono così... ehm... strani.» Scoppiò a ridere. Allora ricordai cosa succedeva ai miei capelli quando si bagnavano: dopo alcuni minuti diventavano come la criniera di un leone.
«Smettila.» dissi, tentando di mantenere un tono di voce autoritario. «Scusa, ma non li avevo mai visti così. Sono buffissimi.»
«Quanto sei scemo.» risi.
Le lenti dei suoi occhiali neri mandavano riflessi rossastri ogni volta che la sua mano portava la sigaretta tra le sue labbra affinché lui aspirasse quel miscuglio di nicotina e catrame. Bello schifo, pensai. Avevo cercato spesso di persuaderlo a smettere, e anche lui diceva che l'avrebbe fatto, affermava di essere forte, che sarebbe riuscito a vincere la dipendenza, ma fino a quel momento, da quasi due anni che lo conoscevo, non me ne aveva mai dato prova, neanche per un breve periodo: era dipendente. Sapevo che non doveva tirare la corda, che avrebbe rovinato il suo stesso organismo, ma, non avendo ottenuto una risposta da parte sua, il mio diavoletto egoista diceva: vuole fumare? che lo faccia! la vita è la sua! E come mi vergognavo quando arrivavo a pensare a questo.
In fondo in fondo, però, adoravo il suo modo di fumare. Adoravo come portava la sigaretta alla bocca e la aspirava, con gli occhi chiusi, producendo una piccola fiammella alla sua estremità. Adoravo il modo rilassato e senza fretta in cui le sue labbra si schiudevano piano per espellere il fumo.
«Siediti, su. Non startene lì in piedi. Vuoi che ti porti qualcosa?» mi chiese con gentilezza.
«No, grazie, non preoccuparti, davvero. Stai già facendo tanto.» risposi.
«Uhm... - fece un sorrisetto - vada per un tè. Si vede che stai morendo di freddo.»
Mi opposi, non volevo si disturbasse così tanto, mi aveva permesso di riscaldarmi un momento a casa sua e ora voleva anche farmi un tè?
«Piero, andiamo, non devi fare tutto questo per me.»
«Le tue parole non mi toccano...» esclamò ridacchiando mentre si dirigeva in un'altra stanza.
Lo osservai ancora buttare fuori il fumo attraverso la bocca, fumo che rimase sospeso a mezz'aria un istante per poi andarsene dolcemente sospinto dal vento. Solo allora notai che la sua espressione era divenuta pensierosa, il suo sguardo si manteneva su un punto fisso nel vuoto, mi parve quasi di sentire il rumore dei suoi pensieri. Chissà a cosa stava pensando. Il suo volto era avvolto in una semi oscurità. L'unica nitida luce che lo illuminava era quella che emanava la sua sigaretta, tra le dita della sua mano destra. Una fiammella rossa che ardeva bruciando tabacco e producendo altro fumo che, fortunatamente, non veniva nella mia direzione.
«Senti, non sono mai stato bravo a fare il tè quindi, se è venuto strano, colpa mia.» esclamò alzando le mani in segno di difesa dopo avermi consegnato una tazza bianca dalla quale spuntava la cordicella della bustina. Sorrisi alle sue parole e dissi: «Grazie, sarà sicuramente buono.» Il calore della bevanda, attraverso la ceramica, giungeva alle mie dita concedendo ad esse un piacevole tepore. Avvicinai la tazza alle labbra e bevvi un sorso di tè. Era buono, ma cosa più importante era caldo, mi aveva riscaldato pian piano tutto il corpo.
Dopo alcuni istanti, trascorsi a fissare un punto indefinito nella sua mente, si voltò verso di me. Gli occhiali dalla montatura nera che contornavano i suoi lineamenti assunsero l'aspetto di finestre attraverso cui il suo sguardo si incontrava con il mio. I suoi occhi sembravano profondi pozzi neri, erano duri, freddi, algidi. Mi guardò per un po', senza dire nulla, la sigaretta abbandonata tra le sue dita, sulla ringhiera del balcone, continuava a bruciare. Sostenne lo sguardo, mantenendolo fisso nel mio. Un silenzio teso si era insinuato tra di noi, costruendo una barriera.
L'unico rumore che potevo sentire era quello provocato dalle gocce d'acqua che precipitavano dalle nuvole. Improvvisamente afferrò saldamente la sigaretta in mano e la gettò oltre la balaustra, lasciandola cadere in strada, sotto la pioggia. Immaginai di vederla sull'asfalto, spenta, probabilmente in una delle pozzanghere che si formavano in quella strada piena di buche.
Finalmente si decise a rompere il muro che il silenzio aveva creato tra di noi.
«A volte ci penso a te. Penso che sei come quella sigaretta che ho appena buttato. Ti hanno consumata, senza pietà, bruciandoti fino all'ultimo, e poi, quando non c'era più nulla da tirare fuori, ti hanno gettata via. Brutalmente gettata via.»
Riflettei su quelle parole, probabilmente aveva ragione, pensai, odiavo sempre quando lui aveva ragione.
«Pié, non sottovalutarti, è buono.» dissi ridendo con la tazza fumante tra le mani. Sorrise, sorseggiando anche lui la bevanda.
«Forse il tuo, il mio sa di acqua calda con dentro un pezzo di gesso.» Era divertente sentirlo parlare con quell'accento.
«Pezzo di gesso?» chiesi.
«Già. Hai presente il gesso per scrivere sulla lavagna? - annuii - Ecco, sembra che io abbia riscaldato l'acqua e invece di farci sciogliere la bustina del tè, ci abbia spezzettato dentro del gesso.» Buttò un occhio all'interno della sua tazza. «Fa schifo 'sta roba. La bevo solo perché almeno è qualcosa di caldo.» Risollevò il mento, facendo leggermente ondeggiare il ciuffo, mentre un sorriso si faceva spazio nella sua espressione. Scossi la testa ridendo.
«Certo che non mi ero mai accorta di quanto fossi così simpatico, sai?» dissi. «Uhm... Che ti aspettavi? Sono siciliano, la simpatia è parte integrante di me.» Alzò un sopracciglio avvicinando nuovamente il bordo della tazza alle labbra.
Fece qualche piccolo passo verso di me. I suoi occhi sembravano buchi neri, davano l'apparenza di volermi risucchiare, e, per timore di doverli guardare ancora, abbassai la testa. «Margherita. - sentii dire - Margherita, guardami.» La sua voce era autoritaria, ma non dura. Riportai lo sguardo su di lui. Lo vidi tirare fuori dalla tasca del piumino che indossava la mano sinistra, avvicinò un po' timoroso le dita al mio viso.
Percepii il suo tocco sulla mia guancia, leggerissimo, premuroso. Percepii il calore della sua mano, nonostante le temperature tanto basse. Mi accarezzò dolcemente sullo zigomo con il pollice, non mi aspettavo assolutamente che l'avrebbe fatto. E quella carezza affettuosa fece comparire sul mio volto un piccolo, piccolissimo sorriso. Oh Dio, sono arrossita, pensai, ma non mi importò. Ero totalmente persa nel suo sguardo, uno sguardo dolce. I suoi occhi tornarono al loro aspetto originario, che avevo sempre visto, anzi. Diventarono più luminosi e la luce al loro interno li rendeva di un colore aureo, brillavano. La freddezza che avevano assunto poco prima sparì lasciando spazio a quel calore che avevo sempre notato quando lui stava bene. Erano così belli. Un sorriso spuntò illuminando il suo volto, i suoi denti bianchissimi fecero capolino da dietro le sue labbra. Spostò le dita dalla mia guancia al mio braccio continuando a farmi qualche carezza, sembrava volesse calmarmi. E probabilmente ci riuscì.
Lo sguardo che mi rivolse era dolce, anche più affettuoso di quelle leggere carezze.
«Presto si accorgeranno che hanno sbagliato a lasciarti andare e torneranno a cercarti con le orecchie basse, ma ora tu hai me.» Fece una pausa. Il suo sorriso divenne ancor più bello di prima, ancor più lucente. «Hai me a proteggerti, non permetterò che ti facciano del male di nuovo, non lo permetterò.» concluse, senza esitazione. Le sue parole, come i suoi occhi castani divenuti così luminosi, mi colpirono dritte al cuore, lo sciolsero esattamente come un pezzo di ghiaccio si scioglie quando viene avvicinato a una fonte di calore. Sorrisi, allora ci teneva davvero a me. Il suo discorso mi riscaldò, dall'interno, partendo dal cuore, più di quanto avrebbe potuto fare un fuoco che scoppiettava in un camino durante una gelida serata invernale.
«Piero, scusami, ho bisogno di un momento...» Posai la tazza sul tavolo e mi diressi verso il balcone. Recuperai la giacca da una sedia e la infilai senza abbottonarla.
«Hey? Ho detto qualcosa di male?» chiese, visibilmente preoccupato.
«No, non preoccuparti, ho solo bisogno di un momento. Una boccata d'aria.»
Spalancai la porta finestra e uscii sul balcone. Sentii gli occhi bagnarsi, rivolsi lo sguardo verso l'alto, guardai la luna nascosta dietro le nubi. Il cielo piangeva, piangeva e io non lo lasciai piangere da solo. Feci dei respiri profondi, avvertii alcune lacrime percorrere le mie guance. Santo cielo, ma perché ne aveva parlato? pensai. Gli avevo detto di non parlarne più da quando era successo, perché me ne aveva ricordato? Non capiva che faceva ancora male? Guardai ancora in alto, cercando di respirare e trattenere le lacrime. No, non potevo dare la colpa a Piero, non era colpa sua, era passato un anno, probabilmente si era sentito di dover riprendere quell'argomento, in fondo erano buoni amici. Stupida io che mi faccio ancora coinvolgere emotivamente, pensai. Ormai è capitato e le lacrime non mi riporteranno indietro nulla. La volte celeste piangeva insieme a me e mi parve che i ruoli si fossero invertiti, ora ero io quella bisognosa di conforto. La pioggia continuava a cadere incessantemente dal cielo.
La sua voce, arricchita da quel bellissimo accento, risuonava ancora nelle mie orecchie. Mi aveva detto che ci sarebbe stato, che avrei avuto lui al mio fianco, che mi avrebbe protetto, e queste, queste molto probabilmente erano le parole che chiunque avrebbe voluto sentirsi dire. Continuai a sorridere, tentai di dire, o almeno sussurrare un misero 'grazie', ma non riuscii a parlare. Mi ero totalmente persa nel colore dorato che aveva assunto il suo sguardo.
Dopo alcuni secondi il suo sorriso svanì. «Preferisco pensare che quella sulla tua guancia fosse una goccia di pioggia, - disse - ma so bene che non è vero. Mi dispiace, non avevo assolutamente intenzione di farti piangere, io non ne avevo idea. Insomma è passato tanto, non credevo ti avrebbe fatto ancora così male...» La sua espressione era preoccupata, premurosa, sembrava veramente dispiaciuto, ma non aveva alcuna colpa.
«Non fa niente...» sussurrai, forse più a me stessa che a lui.
«Mh? Come?» mi chiese, una leggera piega ad increspare la sua fronte.
«Non fa niente, - ripetei a voce alta - non è colpa tua, Pié.» Tornò un sorriso a illuminare i suoi lineamenti, un sorriso dolce, forse però un po' triste.
«Colpa mia che dopo un anno che è successo, appena ascolto il suo nome, mi sento un'adolescente quando realizza che il suo primo amore è finito. E se ci penso piango ancora, come farebbe una ragazzina...» ammisi, avevo la sensazione di dover confessare i miei stati d'animo a qualcuno. Il ragazzo di fronte a me mi guardò e, prima di parlare, parve soppesare attentamente le sue parole.
«Margherita, devi smettere di dannarti, - iniziò - perché non serve a nulla. Basta continuare a vivere nel passato, goditi il presente e piuttosto che ripensarci su e farti venire la tristezza, pensa che ciò che troverai di più bello a questo mondo non l'hai ancora a portata di mano; passerà del tempo, ma finalmente incontrerai qualcuno con cui starai davvero bene, non com'è successo un anno fa. Mi hai capito?» Avevo capito, afferrato il concetto che voleva comunicarmi. Ottimismo, questo era, dimenticare ciò che aveva fatto male. Un sorridere alla vita, cosa che lui riusciva a fare ogni giorno. E infine, dopo aver ascoltato le sue parole e averci riflettuto sopra, riuscii ad articolare quel timido 'grazie' che poco prima non ero stata capace di dire.
La pioggia non si decideva a smettere, ma l'atmosfera si era fatta meno tesa, meno cupa, nonostante la luce dei lampioni in strada arrivasse ancora soffocata al balcone; avrei quasi osato dire che sentivo di meno il freddo dopo aver ascoltato le sue parole di conforto. Guardai il cielo, le stelle inesistenti, coperte dalle nuvole, ma la luna, la luna era lì, non più nascosta, completamente manifesta, una falce d'avorio che brillava inondandoci di una luce bianco latte.
Avvertii una mano posarsi sulla mia spalla.
«Su, torniamo dentro. Fa freddo, non vorrei che ti ammalassi, poi mi sentirei in colpa.» disse con un sorriso. Spalancò un'anta della porta finestra permettendomi di rientrare in casa, per poi chiuderla alle sue spalle.
Dopo aver passato quel tempo fuori, sentii il piacevole calore del salotto avvolgermi insieme alla luce giallastra della lampada da terra, posta in un angolo tra due pareti.
Il mio sguardo cadde, nuovamente, involontariamente, su quello splendido pianoforte. Mi avvicinai ad esso, lo osservai, il legno di ebano aveva un'aria così elegante. Sollevai una mano, sfiorai i tasti e, benché non emettessero alcun suono, mi parve di sentire una musica. Pensai che mi sarebbe piaciuto se Piero avesse suonato qualcosa.
«Bello, vero?» Il flusso dei miei pensieri fu interrotto da una voce.
Mi voltai verso il suo proprietario che si stava togliendo la giacca e, non appena lo guardai meglio in viso, non riuscii a trattenere una risata. I suoi occhiali neri erano completamente appannati per via dello sbalzo termico tra dentro e fuori. Quando capì il motivo del mio divertimento sorrise, si sfilò gli occhiali da dietro le orecchie e, scuotendo leggermente la testa, iniziò a pulire le lenti con un lembo della sua camicia.
Non l'avevo mai visto senza gli occhiali, ma, ora che li aveva tolti, potevo osservarlo bene. Senza quella montatura nera e spigolosa il suo volto sembrava diverso, più naturale, dai lineamenti più morbidi, e le guance davano l'impressione di essere più paffute del solito. In effetti sembrava un po' un bambino. Ciò che mi colpì maggiormente però furono le sue orecchie che in quel momento apparivano leggermente all'infuori, avrei giurato fossero, come si suol dire, a sventola. Quando mi accorsi di ciò che stavo pensando cercai invano di sopprimere una risata, al che lui sollevò la testa, riposizionò gli occhiali sul naso e disse: «Sì, so a cosa stai pensando, so che sembrano le orecchie di un elefante, però fidati, da ragazzino era peggio, molto peggio. Ora non mi posso minimamente lamentare.» Sorrise, temetti di averlo infastidito, ma non sembrava lo fosse. Meno male, non volevo assolutamente offenderlo, aveva solo le orecchie un po' infuori, mica era Dumbo.
Gli angoli della mia bocca si incurvarono a questo pensiero.
Acccarezzai con delicatezza i tasti del pianoforte.
«Mi piace, è elegante. Ti fa quasi sembrare un intellettuale solo averlo qui, in mezzo al salotto.» dissi.
«Era di mio nonno, sai?» ribatté lui avvicinandosi. «Quando ero piccolo mi appassionai al pianoforte, ma i miei non potevano permettersi di darmi lezioni così me le pagò lui, mio nonno.» Vidi spuntare un sorriso. «Se ci penso ora, cavoli, mezza pensione spesa solo per me ogni mese per cinque lunghissimi anni.»
«Il pianoforte te l'ha regalato lui?» chiesi. «Sì, - rispose. - me l'ha regalato quando sono venuto a Milano a studiare. Lui è rimasto giù in Sicilia, disse che sarebbe stato più utile a me, che a lui.»
Osservai le sue dita accarezzare il legno scuro dello strumento.
«Gli vuoi molto bene, non è così?»
«Già, non vedo l'ora di poterlo riabbracciare. Spero che durante le vacanze natalizie potrò tornare a casa.» disse, facendo un sorriso, con gli occhi sognanti.
Non mi aveva mai parlato di suo nonno, non avevo idea di quanto fossero profondamente legati, come d'altronde era legato alla sua regione di origine.
«Ti va se ti faccio sentire qualcosa?» domandò.
A un primo impatto avrei detto di sì, ma poi mi ricordai che non fosse un'ora molto conveniente per suonare un pianoforte, era praticamente notte.
Esitai. «Ehm... sì, certo, per me andrebbe benissimo, mi piacerebbe molto, però...» Avevo una dannata paura di offenderlo.
«Però?» mi incalzò lui.
«Piero, ma lo sai che ore sono?»
Lui aggrottò la fronte e, alzando leggermente la manica della camicia, abbassò lo sguardo sul suo orologio da polso. L'espressione dipinta sul suo volto era così attenta che pareva stesse leggendo qualcosa di molto più complicato di un quadrante con due lancette.
Dopo un paio di secondi alzò le spalle, sospirò passandosi una mano tra i capelli. I suoi occhi tornarono sul pianoforte e sorrise.
«Eh va be', peggio per chi è rimasto a casa sabato sera. Voglio suonare per te e lo farò, non m'importa dell'ora.» La sua voce non ammetteva alcuna contraddizione.
«Okay, okay, - dissi con un sorriso. - ma se ti arrestano per disturbo alla quiete pubblica, io non sono tua complice!»
Rise. «Dai, mettiti comoda.»
«Oh, no, non preoccuparti, resto qui in piedi.» Mi appoggiai allo schienale del divano e lo guardai prendere posto sul sedile.
Fece un profondo respiro, sollevò le mani portandole sui tasti, ma solo a sfiorarli, senza far sì che pizzicassero le corde interne allo strumento.
Osservai le sue mani in quella posizione; allora mi accorsi di quanto fossero belle. Avevano una forma perfetta e la sua pelle abbronzata ne evidenziava tutte le venature e i muscoli. Mi sembrarono così forti, forti abbastanza anche da far del male a qualcuno, ma al contempo così delicate, come avevo percepito dal suo leggero tocco sul mio viso. Erano quel tipo di mani, pensai, che chiunque avrebbe voluto stringere tra le proprie; chiunque, probabilmente anche io.
Lo vidi respirare ancora profondamente, i suoi lineamenti rilassati. Passarono alcuni secondi che parvero durare anni, scanditi dal rumore del temporale che nel frattempo si era intensificato.
Andiamo, Pié, che aspetti?
Infine si mosse, voltò la testa verso di me rivolgendomi uno sguardo d'intesa. Gli feci un cenno, come per incalzarlo, volevo assolutamente sentirlo suonare. Ero certa della sua bravura, ma volevo sentire.
Un sorrisetto comparse sul suo volto, per essere sostituito quasi subito da un'espressione più seria.
E finalmente le sue mani iniziarono a muoversi, a sfiorare e toccare quei tasti bianchi e neri di fronte alla sua figura leggermente ricurva sul pianoforte. L'aria della stanza si riempì di una splendida melodia, non la conoscevo, ma già dalle prima note riuscii ad apprezzarla. Lo osservai chiudere gli occhi e lasciarsi trasportare, colmare da quella musica, da quella passione che nutriva verso di essa. Le sue dita si spostavano velocemente, accarezzava lo strumento come se non volesse fargli del male, come se fosse la cosa più preziosa e bella del mondo e lui volesse proteggerla. Mi impressionò la velocità con cui si destreggiava nel suonare, passando dai tasti più gravi a quelli più acuti. Osservai i suoi occhi vagare per pochi secondi sulla tastiera e poi chiudersi, lo vidi abbandonarsi totalmente alla musica, pian piano lasciò che questa lo conquistasse completamente. Sul suo volto era dipinta un'espressione seria, concentrata. Le sue mani continuavano ad accarezzare i tasti, la cassa armonica dello strumento diffondeva tutti quei suoni sapientemente posti in successione dal compositore del brano. Le note si susseguivano, e gli accordi, gli accordi aggiungevano quel tocco in più che mozzava il fiato. Ormai il forte rumore del temporale cessò, come se si fosse spento per rispetto verso quella melodia, non lo sentivo più. C'era soltanto la musica che volava nell'aria riempiendo ogni spazio possibile, nella stanza come nelle mie orecchie: mi aveva conquistata. Le dita del pianista esercitarono una maggior pressione sui tasti, i suoni crebbero d'intensità. Divenne tutto più bello, ancora più bello, e lasciai che i miei occhi si chiudessero. Ora non vedevo nulla, ma riuscivo a sentire meglio, senza distrazioni. Percepivo tutti i suoni, tutti i virtuosismi, ogni singolo dettaglio di quella musica. Ad un certo punto mi parve quasi che sulla parete interna della mia palpebra fosse delineata la figura di quel ragazzo che suonava, così attentamente, con tanta delicatezza. Piero, ma perché non mi hai mai parlato di questo? Perché non mi hai mai parlato di questa tua passione? Non avrei esitato ad ascoltarti, dico davvero. Perché non me l'hai mai detto? La risposta a queste domande arrivò pochi secondi dopo: perché Piero ha paura, paura di essere giudicato. La paura che abbiamo tutti.
Ma io quella sera non avevo alcuna intenzione di giudicarlo, la sua musica mi stava facendo bene, mi stavo rilassando e allo stesso tempo emozionando. E mi emozionai veramente tanto, ad un certo punto credetti che avrei pianto, era come se quelle note mi avessero abbracciato il cuore.
L'avrei sentito suonare per anni e anni, senza stancarmi mai.
Lasciai che la mia mente si facesse invadere dalla musica; anche ad occhi chiusi riuscivo a vedere la sua immagine di fronte a me. L'immagine del lato sensibile e quasi romantico di quel ragazzo, che mi era sempre sembrato un duro, dal cuore di ghiaccio.
Mi piacque pensare che avesse mostrato quel lato soltanto a me, e a nessun altro. Magari si fida di me, pensai, magari mi vuole bene davvero.
«Presto si accorgeranno che hanno sbagliato a lasciarti andare e torneranno a cercarti con le orecchie basse, ma ora tu hai me. Hai me a proteggerti, non permetterò che ti facciano del male di nuovo, non lo permetterò.»
Sentii la musica interrompersi bruscamente. Aprii gli occhi, scuotendomi da uno stato di semi-trance, non saprei come definirlo. Guardai di fronte a me: Piero era ancora seduto al pianoforte, le mani appoggiate sulle ginocchia. Rivolto verso di me, notai il suo ciuffo disordinato, gli occhiali sulla punta del suo naso.
«Stai bene?» mi chiese guardandomi con un paio d'occhi indagatori. Infilai le mani nelle tasche della giacca che tenevo ancora sulle spalle. Ci pensai per alcuni secondi prima di rispondere; non volevo mentire, mi sentivo meglio di prima, ma non stavo proprio bene, però al tempo stesso non volevo che si preoccupasse per me, con tutto quello a cui doveva pensare.
«Sì. Sto bene, tutto a posto.» dissi, contornando il tutto con un magnifico sorriso forzato.
Il ragazzo che avevo davanti cambiò espressione. Non credo a una sola parola tra quelle che hai appena detto, lessi nei suoi occhi.
«Ma non ti fidi di me o cosa? Pensi di potermi mentire senza che io me ne accorga?» esclamò.
Abbassai la testa, sentendomi come una bambina che aveva combinato qualcosa di sbagliato e ora stava subendo un rimprovero. Feci un respiro profondo. Mi chiesi se i miei occhi mi avessero tradito mentre parlavo o se lui avesse una qualche sorta di potere che gli permetteva di leggere le emozioni delle persone.
Lo sentii sospirare e poi alzarsi, trascinando leggermente il sedile sul pavimento. Mi si avvicinò, appena me ne accorsi il mio cuore iniziò a battere più velocemente del normale. Non so se per timore di cosa avrebbe fatto o per altro.
«Margherì, basta. - disse - C'hai bisogno di confidarti con qualcuno, c'hai bisogno di qualcuno che ti ascolti, che possa capirti e darti una soluzione. So che per te è stata difficile quella storia, che hai perso un punto di riferimento, ma te ne devi dimenticare. Altrimenti non si arriva da nessuna parte.»
Assimilai le sue parole, aveva ancora ragione. Come faceva a non avere mai torto?
«Non farmi andare avanti sennò arrivo a parlare in dialetto e cominci a non seguire più il discorso. Hai capito?»
Annuii. Dovevo smettere di pensare al passato, dava solo problemi su problemi. Decisi che avrei dimenticato tutto, nonostante sapessi quanto difficoltoso sarebbe stato. Amare è breve, ma dimenticare e lasciarsi tutto alle spalle è così lungo, pensai, però non avrei mollato. Non l'avrei fatto per me, l'avrei fatto per lui. Fallo per Piero, risparmiagli tutti questi discorsi, risparmiagli le preoccupazioni, fallo per lui.
«Di me ti puoi fidare, puoi dirmi tutto quello che provi, io ti ascolterò e ti aiuterò, proverò a darti una via d'uscita, io sono qui vicino a te, sono qui per te.» La dolcezza nella sua voce era disarmante.
Tenni la testa bassa, incapace di reagire, spiazzata totalmente dalle sue parole. Un nuovo silenzio carico di tensione si insinuò tra di noi. Il mio cuore continuava a battere forte, potevo quasi sentire il rumore che produceva. Sollevai il mento incontrando un po' più su un paio di occhi castani, luminosi, espressivi. Non mi ero mai accorta di quanto lui fosse alto, mi sentivo così piccola al suo confronto.
«A me puoi dire tutto. - sussurrò - Hai bisogno di certezze e io per te sarò una di quelle. Promesso.»
Ricondussi lo sguardo a terra.
Grazie per essermi vicino, pensai, grazie per tutto questo. Il mio cuore continuava a battere forte, non accennava a calmarsi. E ora cosa avrebbe fatto? Non ne avevo idea, forse si sarebbe allontanato da me, dicendo 'ha smesso di piovere, ti accompagno alla fermata'.
Non fece nulla di tutto questo. Rimase lì, di fronte a me, senza parlare, in un silenzio terribilmente assordante.
Tutta quella immobilità, insieme alla sua vicinanza, mi opprimeva, ma non avevo la forza di spostarmi. In quel momento ci fu un movimento da parte sua. Mi venne ancora più vicino, avvertii le sue braccia avvolgermi il corpo, inizialmente in modo un po' timoroso, poi più deciso. Non avevo minimamente calcolato la possibilità che potesse farlo, era sempre stato così freddo, limitandosi a un semplice saluto o al massimo al circondare le mie spalle con un braccio. Sentii il suo mento posarsi sulla mia testa; mamma mia se era alto, troppo alto. Le sue dita, che prima aveva sfiorato e toccato i tasti di uno splendido pianoforte, ora stavano accarezzando la mia schiena, come a volermi tranquillizzare. E probabilmente ci riuscì.
Esitai per qualche secondo, ma poi sollevai le braccia e circondai il suo corpo. Inconsapevolmente lo strinsi a me, per quanto potevo, con le mani tremanti. Posai la fronte nella curva che il suo collo formava insieme alla spalla e mi abbandonai a quell'abbraccio.
Lo sentivo respirare con calma, sentivo il suo petto alzarsi e abbassarsi al ritmo dei suoi respiri ed era una sensazione magnifica. Tra le sue braccia stavo bene, stavo al caldo, mi sentivo al sicuro, a casa. La sua stretta si fece più forte, quasi a non volermi lasciare. Non avevo mai ricevuto un abbraccio del genere, sembrava carico di affetto e tenerezza, non me lo sarei mai aspettato da un ragazzo a volte così freddo. Però, in fin dei conti, il ghiaccio può essere freddo quanto vuole, si scioglierà sempre se esposto al caldo.
Quell'abbraccio riunì insieme tutti i pezzi rotti del mio cuore, pian piano, uno dopo l'altro, tornarono al loro posto formando, mi piacque pensare, forse un cuore più bello rispetto ad uno completamente sano.
Non volevo separarmi da quella meravigliosa stretta, sentivo un enorme bisogno di restare lì, a farmi cullare dalle sue braccia e dal suo calore corporeo. A farmi calmare dalle sue carezze e dal suo tranquillo respiro.
«Di me ti puoi fidare, puoi dirmi tutto quello che provi, io ti ascolterò e ti aiuterò, proverò a darti una via d'uscita, io sono qui vicino a te, sono qui per te.»
«A me puoi dire tutto. Hai bisogno di certezze e io per te sarò una di quelle. Promesso.»
Come mai aveva deciso di aprirsi con me proprio quel giorno, da tanto che ci conoscevamo? Forse era una persona che non si fidava facilmente, che voleva evitare di affezionarsi troppo e troppo presto. Comprensibile.
Mi apparve così strano il suo comportamento così premuroso, anzi, più che strano insolito, dal momento in cui mi aveva offerto la sua ospitalità: come se volesse rafforzare il nostro legame.
Posai la testa sulla sua spalla; ero così a mio agio che gli angoli della mia bocca si incurvarono spontaneamente in un piccolo sorriso.
Nessuno aveva mai fatto tanto per me, nessuno aveva mai cercato di farmi stare bene, nessuno si era mai curato di cosa provassi. Ma lui sì, lui se ne era interessato e per questo non potevo far altro che volergli bene, un bene immenso.
«Sei speciale.» La sua voce morbida e tenorile risuonò all'interno del suo petto. Speciale io?
«Sei speciale e importante per me.» riprese dopo un breve attimo di silenzio.
Anche tu lo sei, Pié, anche tu.
Ci fu un piccolo movimento da parte sua e istintivamente mi sollevai un poco. Sentii le sue labbra posarsi sulla mia fronte, lasciandovi un bacio pieno di tanta dolcezza e premura, ma forse con un pizzico di qualcos'altro che non seppi identificare.
Tornò con il mento sulla mia testa, continuò ad accarezzarmi dolcemente la schiena.
«Sappi che ho deciso di prendermi cura di te. Ora e sempre.»
Un vortice di emozioni mi investì appena sentite quelle parole. Incapace di reagire mi abbandonai totalmente tra quelle braccia forti e protettive. Le mani mi tremavano, il mio cuore batteva all'impazzata.
Sorrisi.
Improvvisamente sentii bussare alla porta, un bussare alquanto frettoloso e prepotente. Ebbi un sussulto, avvertii il suo abbraccio farsi ancora più stretto. Su, vai ad aprire, che aspetti? La carrozza?
Lui non si mosse, lasciò che la persona dietro la porta si spazientisse e se ne andasse dopo aver battuto un altro paio di colpi.
Pensai che probabilmente era l'inquilino dell'appartamento accanto terribilmente incazzato a causa del piccolo concerto avvenuto poco prima, ma non me ne importò più di tanto.
Rimasi intrappolata in quell'abbraccio più bello di qualsiasi altra cosa esistesse al mondo.
«Sappi che ho deciso di prendermi cura di te. Ora e sempre.»
Presi un bel respiro.
«Ti voglio bene, Piero.» dissi, sottovoce. Lo sentii ridere.
«Anch'io, stupida.»
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