Vetri rotti e dimenticati
Quando le prime lettere che la tua collega pronuncia non appena mette piede nel supermercato costituiscono una frase formata da un unico verbo all'imperativo e da un soggetto sottinteso alla seconda persona singolare, quelle lettere possono voler dire solamente due cose: a) la tua collega si è alzata col piede giusto e ora ti porge sorridente la colazione; b) la tua collega si è alzata col piede sbagliato, in ritardo, e ora ti ordina di sostituirla.
Questo accade in generale. Se si parla di Susanna, invece, le due opzioni si riducono ad una sola certezza.
"Sostituiscimi".
Buongiorno anche a te, penso mentre mi limito a inarcare le sopracciglia per rivolgerle uno sguardo di sufficienza. Non per essere ricambiata, ovviamente, anzi: non per essere nemmeno degnata dello stesso sguardo da parte sua, o di uno ancor più insulso, o di una leggera rotazione del collo tendente allo spazio vitale che occupo o di un qualsiasi altro segnale che possa essere interpretato come una semplice conferma che abbia appena rivolto la parola a me e non all'aria fritta davanti al suo naso.
Non lo faccio certo per questo.
Sono abbonata al programma "Sostituisci Susanna E Rivoluzionati: Smetti Di Pensare Che La Gente Debba Guardarsi Negli Occhi Per Comunicare!" (che ormai nella mia testa appare come una specie di messaggio propagandistico Whatsappiano) praticamente da quando ho cominciato a lavorare.
La novità di oggi è oggi. Di solito succede la domenica. Per questo alzo lo sguardo.
Poi mi ricordo della variazione genetica del suo virus sabbatico e tutto torna a combaciare alla perfezione.
Sto per tornare a fissare lo schermo del computer di cassa quando un rumore di vetri infranti mi fa cambiare improvvisamente idea: punto gli occhi su una donna sgomenta che, dopo una paralisi momentanea, li punta a sua volta in quelli dell'infervorata Susanna.
La donna riesce a spiaccicare parola dopo che almeno un'altra quindicina di persone hanno fatto in tempo a far danzare i loro sguardi gli uni negli occhi degli altri, anche se delude un po' le aspettative dell'attesa.
"Ma cosa...". Punto.
Dieci secondi di stallo a guardare come ebeti lo sguardo omicida della donna per un misero "ma cosa". Peccato. Un pugno in faccia non le avrebbe fatto male. Magari così il prossimo "sostituiscimi" me l'avrebbe chiesto gentilmente, memore di quella che avrebbe sicuramente interpretato come una punizione divina.
Per un attimo sposto l'attenzione su di lei: è furibonda, e credo non si sia nemmeno accorta di quello che ha fatto. Dev'essersi alzata col piede più sbagliato del solito. Eppure non capisco perché si comporti in questo modo: il capo è sua madre, non potrebbe farsi licenziare nemmeno se la implorasse in ginocchio.
Improvvisamente provo un moto di pena per lei. Per Susanna. Non so perché. Viene su come un'onda senza né origine né direzione.
Dura il tempo che impiego a notare la causa per cui la donna non le ha potuto effettivamente sferrare un pugno in faccia: la mano le sanguina copiosamente.
Senza aspettare oltre, spengo la cassa e mi avvicino, allontanando i pochi clienti che se ne sono accorti prima di me. Maria mi raggiunge, ma non appena mette a fuoco la ferita fa qualche passo indietro e balbetta: "Ci penso io ai vetri, tu pensa al... alla mano".
Maria odia la parola sangue, ciò che significa e tutto ciò che è annesso a ciò che significa. Basta chiederle se è a conoscenza del fatto che dentro di lei ne scorrono costantemente quattro litri, goccia più, goccia meno, per farle rischiare lo svenimento. Se ci tengo alle brioches che ci porta il venerdì, però, faccio direttamente meglio a non rivolgerle la parola, dato che la mia voce la scoccia colossalmente.
Così come la scoccia il clima, i clienti che puzzano, gli scaffali troppo bassi, gli scaffali troppo alti, le unghie rotte, le monete opache, il sole, la pioggia, l'Universo e Tutto Quanto.
Non dico che non sia gentile: dico che se non fosse per il fatto che le scoccia persino respirare, o ascoltare la gente respirare, forse se ne accorgerebbero più volentieri anche gli altri, magari dopo un educato "buongiorno" o, se proprio, dopo un semplice "arrivederci".
Torno a guardare la donna: adesso che le sono vicino mi accorgo che non può avere più di venticinque anni. Se solo si decidesse a smettere di tremare come se avesse il Parkinson e a tornare di un colorito un po' più tendente al rosa pallido piuttosto che al bianco latte, forse riuscirebbe a dimostrarli.
"Non è niente", le dico.
Nessuna reazione. Penso che non mi abbia sentito, allora ripeto, a voce più alta: "Mi segua. Le disinfetto il taglio".
Stavolta ottengo qualche effetto: rivolge improvvisamente i suoi grandi occhi grigi nei miei, che si spalancano automaticamente quasi a voler reggere il confronto, e annuisce impercettibilmente. Colgo la palla al balzo, volendo usare una metafora esageratamente turbolenta paragonata al suo gesto millesimale, e la accompagno verso il reparto medico.
A metà strada mi giro a controllare che sia dietro di me, e meno male: la fermo un attimo prima che si schianti contro un parallelepipedo di flaconi di shampoo.
La ragazza sembra non accorgersene minimamente. Ogni traccia della vecchietta striminzita alla quale assomigliava un attimo fa è sparita, lasciando spazio ad uno sguardo curioso e attento, degno di una ricercatrice scientifica intenta a scrutare con interesse la ferita.
Tossicchio. Nessuna reazione.
Mi avvicino fino a quando non sono a dieci centimetri dalle sue orecchie. A questo punto esclamo a gran voce: "Vuole seguirmi o ha intenzione di creare un nuovo Mar rosso per farci un pediluvio?"
Questo sembra scuoterla. Per qualche attimo mi guarda con lo stesso sguardo da investigatrice di prima, come se avessi anch'io una ferita aperta da qualche parte, poi sorride e ricomincia a seguirmi finché non raggiungiamo la nostra destinazione.
Prendo dal ripiano più alto un disinfettante e lo apro.
"Ma... dovrei pagarlo", balbetta alle mie spalle.
"No, lei dovrebbe denunciare la ragazza che l'ha travolta rischiando di farle davvero male", ribatto, aprendo contemporaneamente una confezione di garze.
Ovviamente è un'assurdità, nemmeno Hitler in persona denuncerebbe una ragazza per una cosa del genere. Però questa tipa potrebbe essere talmente strana da prendermi sul serio e farlo veramente, e quando mi ricapiterà un'occasione simile per vendicarmi di come mi tratta Susanna?
Con la coda dell'occhio guardo l'espressione della ragazza dopo la mia uscita.
Sta beatamente confrontando il prezzo di due confezioni di cerotti colorati.
"Io prenderei quelli con su gli animaletti. Costano di più, ma sono molto più carini degli altri, non trova? Magari per ripagare quello che userà per curarmi la mia ferita..."
Scrollo le spalle. Occasione sfumata.
"A me piacciono di più quelli colorati. Si possono intonare allo smalto per le unghie", le dico. Senza sapere il perché. Io odio, pardon, non uso smalti per unghie.
La cosa però sembra sorprenderla immensamente.
"Davvero?" mi chiede, quasi emozionata.
La guardo e non posso fare a meno di sorriderle.
Si dice sempre che la gente è strana, e forse è così. Ma se questa ragazza non fosse strana, probabilmente oggi non avrei avuto altri motivi per sorridere.
"Certamente", e così dicendo schiaccio per bene, e a tradimento, il batuffolo di cotone impregnato di disinfettante sulla sua ferita.
Lei sobbalza, ma trattiene il respiro e non si lamenta. Poi mette il broncio e borbotta: "Non me ne sono nemmeno accorta subito".
"Adrenalina", dico semplicemente, mentre comincio a fasciarla. "Per la voglia di dar...di dirne quattro alla commessa che l'ha investita".
"E invece non ci sono riuscita", commenta risentita.
"Se ha perso la parola, credo che la colpa sia solamente di una cosa chiamata emotività".
"Lei dice?", mi chiede con ribollente curiosità.
"Io dico".
"Ed è una cosa buona, per lei?"
Essere molto più sensibili degli altri e riuscire a sentire ogni emozione che vibra nell'aria e non riuscire a non farsi trasportare da quell'emozione e percepire i più piccoli cambiamenti come un maremoto pieno di... emozioni?
Dev'essere una cosa terrificante.
"Credo di sì", borbotto.
"Quindi lei non mi considera... strana. Solo emotiva", mormora, quasi stesse convincendo sé stessa della cosa.
Alzo la testa.
"Sì, probabilmente è così".
Tira su col naso un'ultima volta mentre finisco di arrotolare la garza.
"Gli emotivi, comunque, sono considerati deficienti, dalla maggior parte della gente", commenta. Mi sfugge un sorriso amaro.
"La maggior parte della gente è deficiente".
Comincio a farmi schifo prima ancora di terminare la frase. La linea, porca miseria. Quella stupida linea.
"Mi scusi. Non intendevo...", comincio, ma lei mi blocca.
"Piacere, io sono Elisabetta". Mi porge la mano che ho appena finito di fasciare e la guardo confusa.
Inizialmente la cosa è reciproca, poi sposta lo sguardo in basso e lascia cadere la mano.
"Che deficiente", ironizza, sorridendomi con... cos'è, complicità?
Mi porge l'altra mano. Io rimango estremamente confusa.
Quale persona sana di mente si presenterebbe amichevolmente alla commessa di un supermercato che per tirare avanti mette in sconto persino i paté di olive, dopo aver rischiato di rimanere monca?
"Ehm... piacere. Il mio nome è scritto sul cartellino...".
"Oh". Si avvicina e lo legge.
"Sara. Sara?"
"È una domanda?"
"Sì. Non mi sembri una tipa da Sara".
La ragazza guadagna punti.
"Non sono una tipa da Sara, infatti", affermo con sicurezza, "ma nessuno ha chiesto il mio parere quando mi hanno dato questo nome".
Ride. "È un piacere comunque, Sara. Grazie per la mano. Te ne intendi, vero?"
Ora sta pendendo dalle mie labbra.
"Mio padre è medico".
Elisabetta stira gli angoli della bocca tanto da farmi temere che gli si strappino.
"Che forza! Voglio diventare medico, sai?"
Siamo passate al tu? Aspetta, quand'è che siamo passate al tu?
"Ehm... oh... bene...?".
"Perché lo dici in quel modo?", domanda circospetta, sempre con quell'aria da investigatrice dell'assassino del gatto del vicino.
Proprio non mi ricordo l'ultima volta in cui ho dato del tu a qualcuno. Come si fa?
"Perché... beh, non è che sembrava... cioè, non sembravi molto disinvolta alla vista del sangue. All'inizio", aggiungo pensierosa.
Lei torna a sorridere come se mi avesse beccato sulla scena del crimine.
"Esattamente. All'inizio. La prima impressione non è mai quella che ci si aspetta. È questione di superare la prima impressione. Lo so fare? Sì", dice con semplicità.
"Già... magari evita la medicina in prima linea", le consiglio mentre afferra due confezioni di cerotti colorati.
"Come in prima linea?".
Sospiro mentalmente.
"Il pronto soccorso".
"Oh, di sicuro. Ci vediamo, Sara!", esclama, a voce un po' troppo alta.
Sparisce prima che possa risponderle ed è meglio così, perché sono certa che se l'avessi salutata a mia volta, il mio ego, intollerante a qualsiasi formula relazionale convenzionale, non avrebbe retto il colpo.
N.d.A.
Elisabetta è un personaggio nato al 100% a caso, cioè - detto meglio - di getto. Non esisteva fino ad un'ora prima che finissi il capitolo, nemmeno nella mia mente. Spero che vi sia piaciuto. Fra poco si scoprirà anche il nome del ragazzo...
Grazie e a presto ;-)
Bạn đang đọc truyện trên: AzTruyen.Top