Tempi diversi

Mentre pronuncio l'ultimo "arrivederci" della giornata mi assale una strana sensazione, mai provata prima. Non capisco cosa sia, ma so per certo che non è stanchezza, né indifferenza, né amarezza, né tristezza.

Le conosco bene, queste ultime, perché le ho provate così tante volte che riesco quasi a prevederle, ormai. Eppure questa sensazione è diversa: mi ha colto all'improvviso e ora mi stringe il petto.

Chiudo la cassa e vado a riporre la mia divisa nell'armadietto, poi esco nel parcheggio.

Il sole sta calando. Rimango per un attimo ad osservare i giochi di colore che crea nel cielo.

Le mie dita, nel sistemarmi i capelli, incontrano una catenina e d'istinto abbasso lo sguardo.

Mi ritrovo tra le mani il piccolo orologio che indosso ogni giorno senza più nemmeno accorgermene e, improvvisamente, ho un déjà-vu. Ricordo l'ultima volta che l'ho guardato, qui, nel parcheggio.

Me l'hanno regalato i miei per il mio quindicesimo compleanno. Credo l'abbiano fatto perché la smettessi di chiedere l'ora ai miei compagni, finendo immancabilmente per essere richiamata dai professori. Sono sempre stata insofferente agli orologi da polso.

Quelle lancette non si sono mai fermate. Credevo si sarebbe rotto in poche settimane, e invece no.

Ogni volta che lo guardo spero che succeda. Qualcosa, però, qualcosa di maledettamente sfuggevole al mio controllo razionale, quel qualcosa che da quando ho conosciuto Gabriele ha ricominciato a farsi, e a farmi, sentire, questo qualcosa che, dall'ultimo "arrivederci" di questa giornata, è ancora raggomitolato nel mio petto... questo qualcosa, nostalgico quanto la più nostalgica canzone dei Coldplay, mi dice che non accadrà mai, nonostante tutto. Che tutto passa e che, se qualcosa non lo fa, noi ristagneremo per sempre con essa, sperando che, per questo, le lancette possano fermarsi, o addirittura tornare indietro a prenderci.

È sulla scia di questi pensieri che, con la coda dell'occhio, vedo arrivare Gabriele.

Sullo scontrino aveva scritto che mi avrebbe aspettato nel parcheggio alle otto e mezza. Sono le otto e ventinove. Lascio cadere l'orologio contro il mio petto.

So che Gabriele non è la mia destinazione, che la vita non è un film, né un libro, e che la mia, di vita, fa proprio schifo, ma non so che altro fare, adesso, e non adesso alle otto e ventinove del quattro settembre, ma adesso... adesso, se non avvicinarmi e abbracciarlo.

Lo faccio per non rimanere indietro con il tempo. Perché, se non lo facessi, mi sembrerebbe di ristagnare ancora nel mio brodo. Che poi, magari, è comunque così, ma non importa.

Chiudo gli occhi, stringendo le braccia attorno ai suoi fianchi, e li appoggio contro la sua spalla.

Lui non dice niente, ma ricambia l'abbraccio. Potrei seriamente pensare di ringraziarlo a voce, per questo.

Quando mi allontano, tuttavia, mormoro immediatamente, e quasi inconsapevolmente: "Nessun commento, ti prego".

"Mi cucirei la bocca con le mie stesse mani, se tu me lo chiedessi.", mi risponde, tenendomi vicina a lui.

"Se mai ti ricapiterà di pensare ad una frase del genere allora puoi contarci, te lo chiederò sicuramente".

"Anche se, teoricamente, non sai ancora leggere nei miei pensieri, quindi non potresti chiedermelo prima di sentirmela pronunciare, il che riproporrebbe lo stesso problema".

"I pensieri che provengono direttamente da Zuccherolandia li so leggere benissimo, credimi, e questo basta e avanza".

Dopo questo strano scambio di battute insensate mi decido a puntare lo sguardo nel suo.

Gabriele inclina un po' la testa di lato.

"Credevo che non saresti venuta".

Vorrei dirgli che ha fatto bene a crederlo, perché era quello che ho pensato anch'io, per un momento. Invece mi risparmio e gli chiedo il perché, anche se forse lo so già.

"Perché?"

"Perché non abbiamo finito di parlare".

"Questa è una cosa che si sopravvaluta sempre", commento.

"Che cosa?"

"Finire i discorsi. Non eri tu che lo dicevi?"

"Io dicevo che non erano importanti le risposte".

"È la stessa cosa. Più un discorso si continua, più risposte si trovano".

"Allora perché tu hai più paura dei discorsi che delle risposte?"

Rifletto un attimo prima di rispondergli, il che è un po' il colmo, visto che, sebbene Gabriele abbia ragione, sebbene io non abbia realmente paura delle risposte, quella che sto per dargli potrebbe essere un ottimo incipit per un bel discorso.

"Perché non si può mai sapere dove finirà un discorso. Perché non ha un confine preciso. Potrebbe portarti al di là di dove tu vorresti rimanere. Al di là delle risposte che vorresti dare".

Appena chiudo la bocca credo, per un attimo, di aver esagerato, ma poi penso a Luca, alla mia famiglia e alla mia scuola e faccio un respiro profondo. Gabriele non dice nulla.

In qualche modo, sospettavo che non avrebbe giocato sporco, che non avrebbe cercato di intavolare un discorso. Ora che ne ho avuta la piena conferma, mi sento un po' in colpa per averlo soltanto sospettato, per non essermi semplicemente fidata di lui.

"E, a tal proposito, ti ricordo che sto ancora aspettando la tua, di risposta".

"Anch'io". Dopo aver detto ciò, Gabriele ritira le mani in tasca e mi fa cenno di seguirlo. È già qualche passo avanti a me quando si volta e, continuando a camminare, dice: "Le risposte non arrivano mai da sole, né tantomeno le domande. Ogni cosa va a braccetto con un discorso, Sara. Tu vuoi delle risposte senza discorsi, io discorsi senza risposte. Se dipendesse solamente da noi riusciremmo a imbastire una conversazione base nel giro di qualche anno. Ma non dipende solo da noi. Io credo che i discorsi siano il perno di troppe variabili per poter essere controllati dalla nostra piccola volontà. Prima o poi, quindi, arrivano da soli, e prima o poi, con loro, arrivano anche le risposte. E questo dipende unicamente dal tempo che abbiamo".

Quando Gabriele finisce di parlare si gira, dandomi le spalle.

Le sue parole possiedono una mira veramente formidabile: quando rivelo una nuova parte di me (o forse è meglio dire un nuovo dubbio, perché è di questi che sono fatta, e in gran parte, ormai), riescono a stravolgerla sempre.

Adesso, infatti, mi chiedo quanto tempo io abbia.

Rallento: lo sguardo mi cade sul mio orologio. La lancetta dei secondi si sposta di quattro posizioni. Con un gesto istantaneo lo nascondo tirando su la cerniera della felpa.

Raggiungo Gabriele: è appoggiato alla sua moto, nel parcheggio quasi vuoto di fronte all'entrata del centro commerciale.

"Andiamo da qualche parte?", gli chiedo. Lui sorride: "Non con la mia moto".

Lo fisso, stranita. "E come..."

Non faccio in tempo a finire la frase che una voce estremamente familiare solletica il mio animo da commessa, facendomi tornare in mente vetri rotti, disinfettanti e cerotti colorati: "Sara!".

Mi volto: Elisabetta sta camminando frettolosamente verso di me e, nella foga di alzare il braccio per salutarmi, le cade dalle spalle un foulard azzurro. Poi, nel girarsi per raccoglierlo, le scivola dal braccio la borsa, che si apre e rovescia a terra metà del suo contenuto.

Sto per voltarmi nuovamente verso Gabriele con un'espressione sconcertata quando, ora che non è più coperto dalla figura di Elisabetta, china sull'asfalto, scorgo un ragazzo, con in mano il foulard azzurro, che si dirige verso di lei: i capelli biondi e corti, la mano libera mollemente infilata nella tasca dei jeans e una camminata da far invidia al più rilassato dei turisti in vacanza su una spiaggia dei Caraibi.

A questo punto rimango imbambolata a fissare la scena di Alberto che si avvicina a Elisabetta e che, tenendosi in perfetto equilibrio sulle caviglie, la aiuta a raccogliere le sue cose.

"Sorpresa", mormora in quell'istante, accostandosi a me, colui che oggi, se mirava a sorprendermi veramente una volta per tutte, ha davvero superato se stesso.


∞ ∞ ∞


Il viaggio per arrivare in pizzeria è stato il più strano che abbia mai compiuto in carne ed ossa.

Di mentali ne ho fatti sicuramente di peggio, è inutile nasconderlo, ma è proprio per questo che la cosa mi ha sconcertata ancora di più. Credevo di essermi abituata più o meno a tutto, ormai.

Elisabetta non ha smesso un secondo di parlare: per un momento ho provato ad immedesimarmi nel guidatore, Alberto, ma il solo pensiero mi ha letteralmente trasformato in una potenziale assassina, dunque ho abbandonato il mio esperimento mentale e ho pensato, invece, di quante medaglie quel ragazzo sarebbe potuto essere insignito se fossero esistiti dei concorsi di pazienza. Poi mi sono accorta che la loquacità di Elisabetta non sembrava tangerlo per nulla, anzi: pareva divertirlo parecchio. In effetti, gli argomenti che tirava fuori la sua ragazza erano abbastanza spassosi: partiva con il raccontarci incomprensibili e tortuosi aneddoti, nei quali ciò che importava non era tanto il come finivano (perché ora che Elisabetta lo rivelava ognuno di noi aveva già perso il filo quarantadue volte) quanto la maniera che aveva di raccontarli, sporgendosi verso me e Gabriele e imitando la voce del suo superiore di lavoro (o di un suo collega, di una sua amica, ma anche della fotocopiatrice o del suo cane), e finiva per sfogarsi scherzosamente riguardo l'inabilità culinaria di Alberto, intercalando nuovi ed immancabili aneddoti ad essa connessa, farcendo il tutto con sparute, ma curiose osservazioni sui capelli dei passanti più originali o con discutibili interpretazioni canore della playlist in sottofondo.

Credo che nell'ora trascorsa sui sedili di quell'auto abbia sorriso, o addirittura riso, più di quanto abbia mai fatto in un anno intero.

Non sono mai stata abituata ad una compagnia del genere; per esserlo avrei dovuto farne parte, ma per farne parte avrei dovuto fare io stessa battute divertenti o cose così, mentre il massimo che sono sempre riuscita a fare è stato offendere, la maggior parte delle volte senza volerlo, qualcuno con qualche mia uscita sarcastica spaventosamente schietta.

Con loro, però, è diverso. Anche se non sono all'altezza di nessuno di loro, non mi sembra che importi molto. Quindi, anche se per la maggior parte del tempo sono rimasta ad ascoltare, il disagio è passato in fretta.

E questa, forse, è stata la cosa più strana di tutte.

Più che strano, in effetti, esulando dalle mie personali percezioni, il viaggio è stato quasi fatale, perché durante una delle sue imitazioni Elisabetta ha urtato la leva del cambio e la macchina è partita in quinta: per evitare di urtare quella davanti Alberto ha egregiamente sterzato facendola uscire di strada, fortunatamente sull'erba. Inoltre la musica di sottofondo era qualcosa di punk/metal/rock/qualcos'altro che poco aveva a che fare con i miei gusti. Interpretati da Elisabetta, poi, ancora meno.

Per tutto il resto, però, è stata un'ora molto corta.

E anche questo, a dire il vero, è stato piuttosto strano.


∞ ∞ ∞


"Come ti è venuta l'idea di organizzare tutto questo?"

Alberto ed Elisabetta sono usciti da qualche minuto a vedere le stelle sulla terrazza del ristorante.

Non avrei mai creduto che nei dintorni meno abitati del paese potessero esistere dei posti così accoglienti.

La disposizione dei tavoli e il lungo bancone del bar ricordano uno di quei bar di quartiere, quelli che se ne trovano cinque lungo una strada, e in effetti il posto è semplice, senza pretese. Ma è pulito e tenuto bene, e mi ricorda la città da cui provengo. C'era un bar simile, in centro. Forse c'è ancora, chi lo sa.

Gabriele lancia uno sguardo alla finestra alle mie spalle, verso il bosco che delimita la zona.

"Stavo uscendo dal supermercato quando ho incrociato Elisabetta e Alberto. Lei si è ricordata immediatamente di te e mi ha chiesto se ti vedessi ancora. Le ho risposto di sì, ha tirato un sorriso da orecchio a orecchio e mi ha proposto la serata. Ha detto che voleva restasse una sorpresa, così ho collaborato. Ho pensato che questo posto fosse carino e così eccoci qua".

Due signori si alzano dal tavolo accanto al nostro e se ne vanno.

"Lo è davvero". Trattengo uno sbadiglio. Sono quasi le undici e mezza e sono in piedi dalle cinque di stamattina.

Sposto lo sguardo a sinistra e vedo Alberto ed Elisabetta calorosamente abbracciati, che guardano in su.

"Sono carini, quei due", commenta Gabriele.

"Soprattutto perché non si sono messi a fare certe effusioni accanto a noi".

Lo sento ridacchiare: "Sarebbe stato impossibile con un tavolo in mezzo". Gli rivolgo un'occhiata e poi torno a guardar fuori. Adesso si stanno baciando.

"Sai cosa intendo: le mani intrecciate, gli sguardi languidi, i silenzi romantici... sarebbe stato estremamente imbarazzante".

"Sei proprio allergica a certe cose, vero?"

"Intollerante, più che allergica".

Il rumore di un bicchiere che si frantuma ci distrae e insieme volgiamo lo sguardo al malcapitato cameriere che si affretta a raccoglierne i pezzi. Mi ritrovo, quasi in automatico, inginocchiata accanto a lui a premere il mio tovagliolo sulla Coca Cola che ne è fuoriuscita, che, altrimenti, starebbe già inzuppando i piedi dei tre ragazzi lì accanto.

"Grazie", mormora, evidentemente mortificato per la figura, il giovane cameriere.

"Si figuri".

Poi torno a sedermi. Passano alcuni secondi, durante i quali fisso insistentemente il mio, di bicchiere.

"Non guardarmi così", dico infine.

"Così come?"

"Come se avessi fatto chissà che. È stato puro spirito di solidarietà. Prima di lavorare al supermercato ho fatto la cameriera al bar del primo piano del centro commerciale. La sera del terzo giorno mi è successa la stessa cosa, solo che la ragazzina alla quale dovevo servire ha lanciato un acuto da brividi e ha cominciato a lamentarsi a macchinetta dicendo che le avevo schizzato la gonna con il succo d'arancia, così mi sono premurata di chiarirle che, tecnicamente, non ero stata io a schizzarla; lei, poi, ha insinuato che l'avessi fatto apposta e a quel punto... beh, a quel punto ho detto addio al posto".

Abbasso lo sguardo, ma Gabriele mi chiede, con fare divertito: "Cosa le hai detto?"

"Non è una cosa della quale vado fiera", mormoro, spostando lo sguardo da un'altra parte.

"Cioè?", incalza.

Lo guardo: mi sono sempre vergognata di quello che è successo dopo, ma in Gabriele vedo semplicemente un ragazzo che sorride e che ha voglia di ascoltarmi e questo, in qualche modo, mi sprona a continuare.

Così, anche se sembra stupido, rivolgo lo sguardo al soffitto e, torturandomi una ciocca di capelli dietro la nuca, mormoro con fare incerto: "A quel punto mi sono generosamente premurata di chiederle se per caso credesse che, essendo una cameriera, fossi deficiente, e dato che non mi ha risposto in un tempo minimo, facendomi chiaramente intendere che sì, era esattamente quello che credeva, mi sono gentilmente premurata di farle sapere che se avessi voluto farlo apposta glielo avrei volentieri rovesciato direttamente in testa, il suo succo, perché tale semplice movimento, oltre a risultarmi, chissà perché, estremamente più naturale, mi sarebbe costato molta meno fatica e avrebbe avuto conseguenze molto più soddisfacenti di due misere macchiette".

Non appena finisco, Gabriele scoppia a ridere, senza fingere, senza sforzarsi per farlo apposta, e poi, con gli occhi spalancati, mi chiede: "Le hai davvero detto tutto questo?"

Piano, ma incontrollabile, un sorriso affiora anche alle mie labbra, e mormoro, leggermente incredula: "Il succo è questo, sì", ma non faccio in tempo a difendermi, aggiungendo che alle ragazzine petulanti sono davvero allergica, che alla risata di Gabriele, improvvisamente amplificata, si aggiunge quella di Elisabetta e di Alberto, comparsi dal nulla alle mie spalle: "Il succo, Sara!", esclama Elisabetta, tra una risata e l'altra, prima che Alberto aggiunga: "Oh mio Dio, questa è la più bella freddura che abbia mai sentito!".

Mi volto di nuovo verso Gabriele e solo adesso capisco – o, perlomeno, tento di farlo – perché si stia tenendo una mano sulla pancia. Il sorriso si allarga prepotentemente sul mio viso, mentre dentro la mia testa la parte razionale del mio cervello continua a chiedersi cosa possa esserci di così divertente in una così stupida battuta.

Forse è merito del drink che hanno preso. Qualunque sia la ragione di questo momento, in ogni caso, adesso non m'importa.

Continuiamo a ridere per i secondi più lunghi che abbia mai vissuto e alla fine, quando Alberto si risiede accanto a me e Gabriele alza una mano, gridando al cameriere: "Quattro succhi d'arancia, in onore all'ex cameriera più premurosa d'Italia!", la parte razionale del mio cervello decide di andarsi definitivamente a sotterrare sotto la marea di risate che si alzano persino dal tavolo vicino al nostro.


∞ ∞ ∞


"Il coraggio non ti manca, Sara, questo è poco ma sicuro".

"Mi duole contraddirti, ma ti sbagli: la mia è semplice incoscienza, la maggior parte delle volte".

"Immagino che non ti abbiano accolto a braccia aperte quelli del supermercato, dopo l'episodio dei dieci centesimi", aggiunge Alberto, fermando la macchina.

Sorrido, ma abbasso il capo. Si riferiscono al racconto di un altro evento che è saltato fuori verso mezzanotte, prima di pagare: anche quello è risultato abbastanza spiritoso, nonostante tutto (ossia nonostante la mia esitazione iniziale e la mia cocciuta convinzione che non fosse, poi, così divertente).

"Diciamo che dalla mia parte non avevo delle straordinarie credenziali", dico.

"E allora come hai fatto ad essere assunta?"

"Corrompendo l'agente di polizia, ovviamente".

Ora è Gabriele che, sorpreso, si volta verso di me: "Seriamente?"

"Seriamente. Mi è bastato scoprire che soffriva di una piccola dipendenza da M&M's", commento, scuotendo la testa al ricordo.

Elisabetta ride, poi Alberto spegne il motore.

"Sicura di non volere uno strappo fino a casa?", mi chiede.

"Sicura, grazie", rispondo, lanciando un'occhiata a Gabriele.

Sto per scendere quando, non so perché, mi fermo e mi rivolgo a Elisabetta: "Era questo che intendevi quando mi hai detto che un giorno o l'altro avremmo potuto provare?". Ed ecco la prova della mia incoscienza. Nel bene, stavolta.

Elisabetta si gira e mi sorride: "Sì".

Quando gli emotivi anonimi sono di poche parole significa che li hai beccati in qualcosa a cui tengono o di cui vanno particolarmente fieri. È per questo che aggiungo: "Perché?".

Dopo un secondo, continuando a sorridere, risponde: "Non lo so. Ce n'era bisogno".

Mi spunta un sorriso.

Ehi, aspetta: non ero io quella che era tanto ossessionata dalle risposte?

"Grazie", mormoro, poi saluto entrambi ed esco.

Mentre Gabriele mi imita, penso che se domani mi mettessi a considerare come sono in questo momento, con ogni probabilità mi darei della stupida ragazza che guarda il cielo sorridendo alla stessa aria che ogni benedetto giorno da un anno a questa parte maledice perché le scompiglia i capelli o perché semplicemente le permette di arrivare viva al supermercato.

Poi smetto di pensare.

La macchina di Alby riparte e Gabriele si volta a guardarmi.

"Sara? Tutto bene?"

"Fin troppo". Si avvicina.

"Mi sembra sbagliato sentirmi così..."

"... spensierata?", suggerisce, sorridendomi dolcemente. Annuisco.

"Sara. C'è così tanta tristezza in giro. Non vale la pena essere tristi anche per le cose belle".

Lo guardo anch'io, ma in realtà una parte di me rivede Luca.

"Lo so. Ma... se una cosa ti impedisse di vedere tutte le cose belle?", mormoro, cercando di mantenere un tono di voce controllato.

"Dovresti lasciarla andare. Anche solo per un momento".

Non è qualcosa a cui non ho mai pensato. Solo adesso, però, penso che dovrei ascoltarla davvero.

Il problema è che ora sono ferma, e che le pause, ora lo capisco, sono forse più difficili dello stesso viaggio. Perché poi bisogna ripartire e avere la forza di continuare a viaggiare sulla stessa strada, o il coraggio di prenderne un'altra. E al coraggio, io, a quello non confuso per incoscienza, non sono per nulla portata.

Dopo qualche secondo, Gabriele interrompe il silenzio.

"Andiamo", sussurra.

"Non voglio andare a casa mia... al mio appartamento", dico, con un filo di voce.

"Ti capisco", mi confida, lanciando un sassolino con la punta delle scarpe.

Nello stesso momento, allora, ci guardiamo.

È così che finiamo a stenderci in un prato, vicino al Grande Bosco, lasciando che il tempo passi e ci porti con sé fino all'alba del giorno dopo, che ovviamente ci perdiamo, mentre dormiamo alla grande.



N.d.A.

Credo che questo capitolo, come i discorsi di cui parla Gabriele, possedesse una propria volontà, perché è nato e cresciuto da solo, senza che quasi me ne rendessi conto. Non so benissimo, quindi, cos'abbia combinato...

Ringrazio tutti coloro che commentano e i lettori silenziosi: qualunque nuova critica o consiglio è ben accetto ;-)

A presto!

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