Svolta?
Busso alla porta di legno scuro. Il momento successivo, uno dei tanti circuiti neuronali di autodifesa della mia razionalità si attiva prepotentemente nel mio cervello e, a causa sua, rischio davvero di andarmene.
Ma non me ne vado.
Mi sembra di sentir ballare lo scontrino che ho in tasca e temo che, se me la dessi a gambe proprio adesso, lui, esasperato, balzerebbe fuori dalla confortevole fodera della mia felpa, si presenterebbe a Gabriele e gli direbbe, al posto mio, tutto quello che il mio incessante flusso di pensieri credo abbia ormai impresso persino in quello stupido pezzo di carta.
Quindi, no. Non me ne vado.
La porta, ovviamente, si apre.
Dall'altra parte della soglia, però, non appare Gabriele.
"Chi sei?".
Oh. Wow. Sono tutti così ospitali qui?
"Sono un'amica di Gabriele. Mi hanno detto che abita qui".
La ragazza, la bionda ed alta ragazza dagli occhi verdi e dalle unghie della stessa identica tinta, assottiglia lo sguardo, mi squadra da capo a piedi e poi, prima di sparire dalla mia vista, mi fa cenno di entrare.
Io rimango ferma.
"Gabriele c'è?", domando, alzando un po' la voce.
Torna alla porta, quasi infastidita: "No, ma entra".
"Non voglio disturbare, se non c'è ripasso...", sto per aggiungere "un'altra volta, non appena mi si sarà ricristallizzato un po' di sale in zucca", ma lei, gentilmente, ribadisce: "Chiudi la porta quando entri".
Così entro.
Seguo il rumore della televisione accesa fino a quello che intuisco essere il salotto. Vicino alla finestra noto immediatamente un vecchio pianoforte, ma non faccio in tempo a guardare attentamente nient'altro perché il pianto di un bambino mi fa voltare verso il divano che c'è di fronte alla televisione. O meglio, verso il passeggino che vi è accanto.
"Carlotta, non puoi piangere ogni cinque minuti, okay? La mamma sta diventando pazza".
Carlotta? Mamma?
Mi avvicino alla carrozzina e sbircio al suo interno. La bambina paffuta che intravedo è identica a quella che in questo esatto e disarmante momento capisco essere sua madre, la cugina di Gabriele.
"Ma perché mia figlia dev'essere l'unica bambina sulla faccia della Terra a cui non piacciono i cartoni?", esclama la ragazza cogliendomi alla sprovvista, comparendo nella stanza con un biberon in una mano e un bavaglino nell'altra. Mi sposto un po' e non mi azzardo a risponderle. Questo, in ogni caso, non la scoraggia dal continuare a parlare.
"È colpa di Gabriele. Quand'è con lui finisce sempre al parco o da qualche altra parte meravigliosamente aperta, sana e naturale", dice, alzando gli occhi al cielo mentre imita il tono con il quale Gabriele le si deve rivolgere molto spesso, visto che sembra darle ai nervi il solo pensiero.
"Non mi sembra una cosa così orribile", mi scappa. La ragazza mi rivolge uno sguardo seccato.
"Oh no, affatto", ribatte con un tipo di sarcasmo che, mi permetto di dire, odio. "Peccato che il mondo stia girando esattamente dalla parte opposta e che Gabriele non se ne sia ancora reso conto. Farebbe meglio a pensare a cosa farne della sua vita piuttosto che rivangare nostalgicamente il suo passato facendolo rivivere a mia figlia in qualche eden meravigliosamente aperto, sano e naturale".
Rimango paralizzata a fissarla negli occhi. Non è in questo modo che voglio sapere qualcosa in più di Gabriele. Questo modo mi ricorda in maniera spaventosa i modi della gente del supermercato.
Dopo aver rimesso Carlotta nel passeggino la ragazza spegne la televisione e risolleva il suo sguardo nel mio.
Stavolta non le lascio nemmeno aprire bocca.
"Dov'è Gabriele?". Spero che il suo primo acchito nei miei confronti le permetta di non riconoscere ancora la mia espressività, perché temo che, se si accorgesse di quale sguardo ho in questo momento, non mi risponderebbe.
Invece mi risponde. Sfortunatamente, mi risponde.
"Da suo padre, in clinica. Non è stato bene, di nuovo. Era con Carlotta, ma quando l'ha saputo mi ha chiamata e sono corsa qui. Ma sono quasi due ore che aspetto che mi faccia sapere qualcosa, e per arrivare dove abito io ci sarà un'ora di strada, e tra un'ora devo essere a casa. E..."
Smetto di ascoltarla.
Era questo il problema. Il problema che l'ha spinto ad affrontarmi per chissà quale motivo, che rendeva freddi i suoi sorrisi, che c'entra sicuramente qualcosa con i suoi lunedì al supermercato.
"... ti chiami?"
"Cosa?", balbetto, cercando di scacciare la confusione.
"Come hai detto che ti chiami?"
"Sara. Sono un'amica di Gabriele".
"Sara, bene, potresti farlo?"
"Che cosa?"
"Stare qui. Senti, Gabriele ormai dovrebbe tornare a momenti, e io non ho un momento, quindi basta che tu rimani qui e gli apri quando torna, visto che il genio si è dimenticato le chiavi di casa a casa", dice, facendole tintinnare davanti ai miei occhi.
Non so cosa rispondere.
"Posso prenderlo come un sì?", incalza la ragazza, che ha già a tracolla la sua borsa. "Gabriele mi ucciderebbe se sapesse che me ne sono andata lasciando la casa aperta".
Non ci credo nemmeno se mi paga. Il punto è che non ha voglia di passare a lasciargli le chiavi, e Dio solo sa se questo non mi provoca il più grande sforzo di volontà che abbia mai compiuto per impedire a me stessa di oltrepassare la mia linea e risponderle di conseguenza.
"Ti fidi?", le chiedo a denti stretti. La ragazza ride fin troppo per sembrare realistica e infila il biberon nella tasca del passeggino con una grazia da elefante: "Se fossi una piccola delinquente avresti già avuto parecchie occasioni di rubare qualsiasi cosa ci sia da rubare qui, non credi?".
Poi lascia le chiavi su un tavolino in parte al muro, prende il passeggino e si avvia all'uscita.
"Mi fai un favore enorme Sara, grazie!", strilla, e un secondo dopo sento la porta chiudersi.
Rimango un paio di minuti in piedi. È la prima volta che mi ritrovo a non sapere cosa pensare. Cosa pensare di Gabriele, di suo padre, del come sia finita da sola in casa sua senza di lui mentre il mio intento era "semplicemente" quello di chiedergli cosa gli fosse passato per la testa quando mi ha scritto quello scontrino, di quanto possa sembrare originale la mia vita in questo momento, dopo aver appena affermato che un ragazzo ha avuto il coraggio di scrivermi non una lettera, non un messaggio, non una mail, ma uno scontrino, di quanto però, in realtà, non capisca più nemmeno io che cosa sia quello scontrino, di quanto abbia paura di tutto quello che mi è successo, da quel lunedì fino ad oggi, che forse non è neanche un tutto ma un semplice niente, di quanto abbia paura proprio di quel "forse", o... di quanto riesca a pensare anche quando non so cosa metterci, dentro i miei pensieri.
Mi siedo al pianoforte.
Sopra ci sono due fotografie.
Nella prima ci sono i genitori di Gabriele. Li riconosco dal sorriso, perché per il resto non gli assomigliano molto.
Nell'altra c'è lui che mostra uno splendente apparecchio ai denti.
La prendo in mano, per osservarla meglio.
Ora capisco perché era tanto interessato alla mia fotografia.
Mi alzo. Potrei curiosare in giro quanto mi pare, ma non lo faccio. Mi siedo su una poltrona e aspetto. Un'ora e mezza.
Verso le nove, qualcuno bussa alla porta. Dallo spioncino vedo che è Gabriele.
Apro.
La sua reazione nel vedermi mi spaesa completamente. Eppure, credevo di aver avuto abbastanza tempo per prepararmi psicologicamente a questo momento.
"Sara", mormora, con un'intonazione che non identifica né una domanda né un'esclamazione.
Per la seconda volta in un solo giorno non so cosa dire. Dopo un momento mi sposto dalla soglia, sistemandomi una ciocca di capelli dietro l'orecchio. Nel mentre, Gabriele entra.
Si avvia lungo il corridoio e a questo punto la voce improvvisamente mi ritorna.
"Gabriele, credo che farei meglio ad andarmene, adesso".
Silenzio. Passi. Gabriele si riaffaccia al corridoio.
"Da quanto tempo sei qui?"
"Poco", mi affretto a dire, "ero venuta per chiederti una cosa, ma..."
"Sara, tu sei qui dalle sette, se a mia cugina è rimasto ancora qualche neurone per leggere le ore".
Cavolo. Non sembrava che sapesse della mia presenza.
"È...". Punto lo sguardo a terra.
"Una situazione strana, vero?". Lo guardo e mi sorride. Ripenso all'apparecchio.
"Sì".
"Mi dispiace, davvero, non so come abbia fatto a fare una cosa del genere. Insomma, lo so, perché è mia cugina, ma stavolta si è superata, mi ha sorpreso. Credevo stesse scherzando, al telefono, quando mi ha detto... sono mortificato, davvero".
La sua voce trasuda stanchezza, ma al contempo è sincera e più gentile di quanto mi sarei aspettata.
"Non è successo niente, doveva andare e io non avevo nulla da fare, comunque..."
Gabriele, ancora appoggiato al muro, sorride amaramente: "Mia cugina dovrebbe possedere il dono dell'ubiquità per poter andare veramente da tutte le parti in cui dice di dover andare".
Ah. Adesso mi è tutto molto più chiaro.
"In ogni caso, devo andare".
"Ti accompagno".
"No, non ce n'è bisogno, vado a piedi".
"Non credo proprio. I lampioni sono tutti rotti in questa via, ti perderesti dopo due metri".
"Potrai non crederci, ma ho un buon senso dell'orientamento e un cellulare che può fungere da torcia".
"Potrai non crederci, ma ho la patente, e in moto arriveresti a casa nella metà del tempo".
"Non posso, sarai stanco e..."
"Ti prego, Sara, se proprio non vuoi farlo per te, lasciami trovare un pretesto per uscire da questa casa".
La sua ultima frase mi spiazza un po'. Deve accorgersene anche lui, perché, con un sospiro, appoggia la testa contro il muro e chiude per un attimo gli occhi.
Non so cosa sia più giusto fare. O dire. Perciò rimango a guardarlo.
Mi sto lasciando affrontare? Credo di sì. Ma posso fare meglio.
Tiro fuori la chiave dalla serratura e mi avvicino. Quando riapre gli occhi gliela porgo.
"A piedi, fino al limitare del Grande Bosco. È da lì che sono venuta".
Nel suo sguardo, negli attimi di silenzio carico di pensieri che seguono, leggo la consapevolezza che devo avere io stessa nel mio. Io so che ha paura del buio. Lui sa che lo so. Io vorrei che non si fidasse di me, in fondo, per la storia di Luca. Lui sa che non è obbligato a farlo.
Potremmo rimanere in stallo per ore.
Ma, per fortuna o meno, Gabriele non è come me.
"Okay".
∞ ∞ ∞
L'aria è insolitamente fresca. Gabriele non mi chiede di accendere la torcia, così faccio quello che il silenzio mi dice quasi sempre di fare. Lo rispetto.
In ogni caso, il buio non è fitto come mi aspettavo. Riesco a distinguere i lineamenti del suo viso, tesi come le corde di un violino, e le sue mani strette a pugno. Solamente dopo qualche passo mi accorgo che forse non sono io a vedere tutto ciò, che forse tutto ciò è soltanto talmente impresso nella mia memoria da farlo risultare reale persino ai miei occhi.
Gabriele cerca la mia mano e io la lascio scivolare nella sua.
Mi sento a mio agio in questo posto. Forse perché questo, in fondo, è il mio posto, un po' come il quartiere in cui mi ha portato al nostro appuntamento: buio, più freddo del resto della città, per via del bosco, e, in questo momento, complicato dalla presenza di due persone che non si sarebbero mai aspettate di trovarsi in una situazione simile.
È lui il primo a spezzare il silenzio: "Cosa volevi chiedermi?". La sua voce è meno irregolare dell'altra sera, ma è pur sempre la sua voce e, per assurdo, ciò che ha appena detto fa risultare incerta la mia.
"Non lo so nemmeno io, di preciso. Però potresti immaginartelo".
Sento che sorride mentre mi risponde: "Potrei, certo, ma... non so, adesso non ne ho voglia. Mi sa che dovrai aiutarmi proprio tu".
Mi volto verso il suo viso. Sto cercando di capirlo, ma non ci riesco.
Suo padre è stato male e, da quel che ho capito, non è la prima volta che succede, ma lui non vuole pensarci, né parlarmene. È questo il suo problema, dev'essere questo, per forza. Allora perché non mi sta affrontando a tale proposito?
"È per lo scontrino che mi hai lasciato ieri", gli dico improvvisamente, tutto d'un fiato, sorprendendo entrambi. Non voglio stare al gioco, non voglio che con i suoi sorrisi riesca ancora una volta a nascondermi ogni cosa.
Gabriele si ferma. Ora c'è un po' di luce, tuttavia lui non mostra l'intenzione di volersi liberare della mia mano nella sua, e io, sebbene adesso riesca davvero a distinguere il suo volto, faccio altrettanto.
Senza il rumore dei nostri passi mi accorgo che sto trattenendo il respiro. Vorrei chiedergli di dirmi cosa sta succedendo a suo padre, senza più aspettare oltre, vorrei farlo adesso, d'impulso, come non mi era mai successo nemmeno di immaginare. D'improvviso, però, guardando le nostre mani, mi accorgo che non ce n'è bisogno. Il suo sguardo ha frenato la mia lingua, e ora le sue mani frenano in un colpo i miei pensieri.
Non servono né un'intelligenza sopraffina né discorsi particolari per capire ciò che gli sta succedendo. E adesso lo capisco perché è quello che voglio. E che vuole lui. Perché i suoi sorrisi non nascondono niente, in fondo. Sono un po' tipo puri, come lo sguardo di Elisabetta.
"Non ti ho ancora detto cosa mi spaventa del buio", torna a parlare, incatenando gli occhi ai miei.
"No", confermo debolmente.
"Mi spaventa vedere il buio attorno a me mentre sono assieme a qualcun altro. Mi spaventa il potere che il buio ha di separarmi da qualcuno che è distante da me anche solo pochi centimetri. Mi spaventa questo".
Rimango in silenzio, di nuovo. Ha capito che ho capito. Lo percepisco dalla stretta, che si è fatta più salda, della sua mano contro la mia.
"Perché hai scritto che non ti penti di niente?".
"Perché è la verità", mi risponde, semplicemente.
"Lo è anche adesso?", gli chiedo.
Sono pur sempre ancora nel buio, e ho pur sempre le mie paure. E la mia paura, ora, nemmeno a dirlo, è che possa essersi pentito di essersi esposto così tanto.
Gabriele, però, mi rivolge un piccolo sorriso.
"Lo è anche adesso", conferma.
Lascio scorrere qualche secondo prima di esercitare una leggera pressione contro le sue dita per liberare la mano. Faccio un passo nell'erba davanti a me, poi mi fermo.
Ciò che dico in seguito credo passerà alla storia. Precisamente, alla mia storia.
"Penso che tu mi abbia scambiata per una lanterna".
Con la coda dell'occhio lo vedo inclinare leggermente il capo, confuso: "In che senso?"
"Scambiar lucciole per lanterne. Conosci il detto, no? Beh, io non sono una lanterna. Io sono una lucciola. Non sono abbastanza per te, quasi mi faccio buio da sola". Sorrido amaramente, abbassando la testa, mentre mormoro queste frasi sconnesse.
Gabriele non apre bocca, ma lo sento avvicinarsi. Si ferma a pochi centimetri da me, il mento all'altezza della mia guancia.
"Non ti ho scambiata per una lanterna. Mi sono semplicemente meravigliato che tu fossi una lucciola".
Ho le braccia incrociate e strette in vita, ma questa strana sensazione allo stomaco non passa. È dolore, senso di colpa, forse, ma è anche qualcos'altro. Le sue labbra, ora, sono vicinissime alla mia tempia.
"Le lucciole stanno scomparendo. È raro vederne, ormai. Quindi, Sara, potrei pentirmi di qualcosa solamente se fossi un cieco".
L'ultima parola che pronuncia mi fa sorridere. È per quella che sono qui.
"E poi, anche una lucciola illumina", aggiunge, ancora senza sfiorarmi.
"Certo: i due centimetri cubi che occupa", rispondo in un sussurro, incollando lo sguardo a terra e assumendo la disinvoltura di una statua di ghiaccio.
È allora che sento la sua bocca posarsi sulla mia fronte e rimanerci per qualche istante, il tempo di un respiro, prima che si allontani, di pochissimo, per avvicinarsi alle mie labbra e mormorare: "Sono abbastanza. Per me sono abbastanza".
Nonostante avessi potuto prevederlo benissimo, il suo bacio mi coglie totalmente alla sprovvista. Ed è strano. Non c'è alcun sottofondo musicale a coprire il rumore delle nostre labbra che si cercano timidamente, come fanno spesso e stupidamente vedere nei film, e questo mi rende assolutamente incapace di valutare razionalmente la situazione.
L'unica cosa a cui riesco a pensare è che noi non siamo due persone simili, né tantomeno semplici, e se ci fosse un righello idealmente posto tra le nostre vite, e idealmente estendibile a piacere, scommetto che la distanza tra di esse supererebbe l'altezza dell'Everest.
Eppure, è come se entrambi stessimo cercando qualcosa nell'altro per andare avanti.
Non so cosa io stessa cerchi. Forse, però, potrei riuscire a convincermi di aver errato abbastanza da potermi concedere davvero una pausa, adesso.
Gabriele indugia un momento di più sulle mie labbra, come se volesse chiedermi il permesso per andare oltre. Io acconsento con un'urgenza trattenuta che non so come definire, perché di certo non deriva dal romanticismo del momento. Perché questo bacio non è romantico. Il romanticismo non c'entra nulla con me. Sono talmente poche le relazioni affettive che ho stretto durante i miei diciannove anni che non credo nemmeno di sapere che sapore abbia la loro componente zuccherina, quella fatta da abbracci e parole rassicuranti. Nonostante questo, però, credo che la mia acidità, in fondo, non sia davvero acidità. Ed è passato così tanto tempo dall'ultima volta che l'ho pensato, che forse adesso ci credo un po' di più, ossia quel che basta per capire che l'urgenza che provo è semplicemente la fusione tra tutte le mie paure e la dolcezza incrollabile del ragazzo di fronte a me.
"Vuoi chiedermi ancora qualcosa riguardo a quello scontrino?", mi chiede a mezza voce, parecchi minuti dopo.
"No. Credo di no", è la mia risposta.
Gabriele mi guarda, volendo usare un eufemismo, e per un attimo rimane in silenzio.
Nell'osservare la sua espressione, capisco che non aveva mai scambiato meno parole con una persona di quanto abbia fatto con me. Che forse è per questo che ama i posti meravigliosamente aperti, sani e naturali per Carlotta, senza televisori che fanno rumore, amici indiscreti o cugine che lo sono ancor meno; che forse è per questo che ha, come dire, scelto me.
Credo che vivere con un musicista renda i silenzi più carichi di ricordi, più liberi di essere vissuti, arricchiti, compresi, o "semplicemente" affrontati. E credo anche che Gabriele, di quei silenzi senza parole, ne sia fin troppo ricco, specialmente ora che suo padre lo sta lasciando.
"Prima frase", dice alla fine.
Quando capisco ciò che intende sorrido, piano, e spero che lui, questo mio sorriso, non lo interpreti come un "prego", dato che, questo mio sorriso, significa esattamente il contrario.
N.d.A.
Spero che il contenuto del capitolo sia riuscito a rendere l'idea del punto interrogativo del titolo. C'è infatti una svolta"concreta", per così dire, ma per il resto, chissà... si sa quanto possa essere complicata la nostra Sara XD
Ringrazio tutti coloro che hanno letto questo capitolo, che è risultato davvero difficile da scrivere, e ovviamente i precedenti, e chi ha deciso di dare il suo contributo alla storia lasciando un commento: siete davvero importanti.
A presto ;-)
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