Strade segrete
Non ho mai detto a nessuno quanto mi piacesse camminare. Quando tornavo a casa tardi, dopo la scuola, ai miei raccontavo sempre che ero rimasta ad aspettare che la madre di qualche mia compagna di classe venisse a prenderla per farmi dare uno strappo e non dover camminare per due noiosissimi chilometri. La realtà era che facevo tardi perché finivo sempre per percorrerne praticamente il doppio, di chilometri, cercando ogni volta strade nuove che potessero comunque condurmi a casa, ma in maniera più... dolce. Perché adoravo camminare.
Non so perché abbia sempre mentito: per tenere segreta una parte di me, suppongo. Per evitare che qualcuno potesse usarla, me compresa; ho avuto innumerevoli occasioni per rivelarla: sarei riuscita persino a far tacere mio fratello, una volta tanto, perché se l'avesse saputo si sarebbe tirato una zappa sui piedi pur di non ammettere di avermi sempre paragonata ad un'adolescente passiva e pigra.
Ma era proprio questo il problema: così facendo, l'avrei usata.
Ho tenuto segrete molte strade, per giungere fin qui.
Quella del pranzo della domenica, ad esempio: il pranzo della domenica era sempre un terno al lotto. C'era da sperare che tutti, me compresa, fossimo dell'umore giusto, altrimenti una parola o un silenzio sbagliati al momento sbagliato (in ogni momento, a dir la verità) e le cose precipitavano, lentamente, ma inesorabilmente, seguendo un percorso che a forza d'esser battuto s'era quasi perfettamente impresso nella mia memoria.
Non ho mai parlato di quella strada. Di quella strada lungo i bordi della quale crescevano ogni settimana nuove erbacce.
Quella per giungere qui, insomma, è stata soltanto la ciliegina sulla torta.
Troppe strade. È lungo di esse che sono nati, spiccati ed esplosi tutti i miei pensieri. È in mezzo a ognuna di queste strade che ho costruito porte mai completamente aperte, né il contrario. Sono sempre fuggita con i pensieri. Peggioravo solamente la situazione, lo sapevo, ma non me ne curavo. Per quante porte lasciassi socchiuse alle mie spalle, riuscivo sempre a trovare nuove strade davanti a me, segrete e al sicuro nella mia testa.
Ma non ho mai pensato a loro. Ho pensato a tutto, ma non a loro.
Forse perché, quando giravo incerta la testa e con la coda dell'occhio osservavo il labirinto alle mie spalle, solo i ricordi brutti spiccavano sugli altri, s'illuminavano di una luce asettica e mi sorridevano freddamente.
Mi stringo al petto le ginocchia: i ricordi non possono essere controllati.
È così che mi sono persa nel mio stesso labirinto. Poi è sempre successo tutto in fretta: l'egocentrismo dei miei pensieri spiccati, e dei brutti ricordi, ha sempre preso il sopravvento. E io non ho mai pensato ad altro che ai miei ricordi, che a me.
Adesso, come inorgogliti da questa mia confessione, me lo dimostrano i ricordi stessi: mi sembra quasi di sentire il loro sorriso macchinatore sulla pelle.
Eppure, non riesco a piangere.
Fisso il muro del mio appartamento, che è del colore più allegro sulla faccia della terra: grigio.
Mi riconosco, in quel grigio. Lo fisso ancor più intensamente: il grigio è un colore da lacrime, è il colore delle nuvole cariche di pioggia, è il colore del cemento, è il colore delle vecchie strade asfaltate, è il colore di una diciannovenne che fa la cassiera in un supermercato, maledizione.
Niente. Non ci riesco. Perché il grigio non è solo questo. È anche il colore degli occhi di Elisabetta. È il colore del casco che Gabriele mi ha sempre prestato per andare in moto con lui.
Solo ora mi rendo conto che non avrei avuto bisogno di chiedermi quanto tempo avessi, la sera in cui sono uscita con Gabriele, Alberto ed Elisabetta, se mi fossi subito resa conto che il mio tempo era scaduto nel momento in cui incrociavo gli occhi di Elisabetta e in cui Gabriele mi sorrideva per la prima volta: perché loro si sono affiancati a me nonostante ormai mi fossi ridotta ad un insieme di pensieri e dubbi silenziosi. Avrei dovuto essere meno egoista. Avrei potuto capire fin da subito il modo per contrastare il freddo che mi portavo dietro, letteralmente.
E invece lo capisco solo ora, nell'unico momento in cui, forse, non avrei dovuto voltarmi per vedere quell'ormai lontanissima porta lasciata aperta oltre un anno fa, che dista da me molte strade segrete e molte altre porte socchiuse. Quella porta da cui sono fuggita, inconsapevole di quel quasi stampato a caratteri cubitali sopra di essa; quella che ora sto guardando, consapevole del silenzio di quella tra Gabriele e suo padre.
Sono dovuta arrivare a quel silenzio per accorgermi del mio quasi. E questa è la cosa più terribile di cui mi sto rendendo conto.
Ognuno di noi, Gabriele ed io, ha deciso di lasciarsi affrontare. Ma io, ancora una volta, sono fuggita.
"Mi dispiace".
"Lo so. Tu lo sai?"
Si, lo so. Ma forse non mi accorgo di quanto questo mi distrugga.
∞ ∞ ∞
Qualcuno bussa alla porta.
"Chiunque sia, può tornare domani".
"Mi dispiace. Non ho intenzione di tornare, domani".
Gabriele apre la porta.
Il sole è tramontato da un pezzo. Io non mi sento più la testa. Si è trasformata in un casino silenzioso che non voglio più ascoltare.
"Perché sei venuto?", gli chiedo, senza sentire realmente la mia voce.
"Perché sono una circostanza, ma non svanirò lasciando che tu ricominci ad errare in balia di ciò che ora ti sta facendo ristagnare qui. Qui, in questo appartamento, in questa città, in quel qualcosa che ti tieni dentro, ma che non centra nulla con te".
Il mio corpo ha un fremito. Ignoro la sua natura, o, comunque sia, mi rifiuto di considerarlo conseguenza di qualsiasi emozione.
"Vattene".
"No. Non hai capito? Sei tu che devi andartene. Sei tu che devi muoverti".
"Vattene", ripeto. Gabriele non se ne va.
Dopo qualche attimo, anzi, ricomincia a parlare.
"Ti ricordi quando ti ho detto di aver paura del buio? Tu hai detto che la mia non era una paura stupida, perché le paure stupide non esistevano. Ci credi ancora?"
"Non lo so", dico, ma poi ci ripenso: "Sì".
"Allora smettila di pensare che quello che provi sia stupido e insignificante, perché non è così. Tu hai paura di quello che provi, e di quello che gli altri potrebbero pensare riguardo a quello che provi, e se questa non può essere una paura stupida, allora non puoi esserlo nemmeno tu. Che tu lo voglia, o no. Le tue paure fanno parte di te".
Qualcosa, improvvisamente, mi dice: eccolo qui, quel discorso che, prima o poi, doveva arrivare.
"Forse il problema è che pensi troppo a ciò che tu non vorresti per gli altri, e non a ciò che vorrebbero gli altri per se stessi. E per te".
"Smettila. Gabriele, vai via. Ti prego".
Non ho mai pregato nessuno in questo modo in vita mia. L'ho fatto per lui, non per me, e questo è un enorme controsenso. Così grande che nemmeno a Gabriele, stavolta, riesce a sfuggire.
"No. Sarà sempre no, finché non te ne andrai tu".
Ha detto finché. Non ha detto se.
Come se stesse ricambiando la fiducia.
Mi degno, finalmente, di guardarlo.
Qualche attimo dopo, quando torno a fissare le mie ginocchia, i miei occhi sono già lucidi, e fin quando non sento le sue braccia stringermi non distinguo nient'altro se non il grigio sbiadito dei miei pantaloni.
Solo quando non può più vedermi, perché il mio viso è ormai premuto contro il suo petto, iniziano a scendere, le lacrime, a scuotermi, i singhiozzi, e a piangere, alla fine, dopo tutti quegli sforzi, io stessa.
Ho quasi paura a smettere. Ma è un quasi. Sì, questa paura è un quasi, e, adesso, lo riconosco.
Perché la felpa di Gabriele sente ancora di ospedale, e nella mia testa c'è ancora l'immagine degli occhi di Elisabetta, pieni di tutta la vita che mi hanno trasmesso – che io lo volessi o meno – e della morte che ha appena guardato in faccia questo ragazzo che, nonostante questo, è qui con me, con un quasi.
E allora, devo smetterla.
Perché in funzione di un quasi non posso fare nessuna delle due cose, né vivere, né morire; perché il fly by è un volo non abbastanza vicino per farmi toccare la realtà, che riesco però benissimo a vedere, né abbastanza lontano per farmi sentire svincolata da quella stessa realtà e affidata completamente al buio.
Non so come faccia a tenermi così stretta a lui. Davvero, non so dove trovi le ragioni per rimanermi ancora accanto, persino adesso. So per certo, però, che non mi azzarderei mai a rompere il delicato silenzio che è ormai costitutivo del nostro rapporto per chiederglielo.
Perché forse è proprio in questo silenzio che si nasconde la risposta. È questo silenzio che ci ha resi forti.
L'unica cosa che gli dico, prima di lasciarlo entrare nella mia camera per sdraiarci sopra un letto dotato di un meraviglioso materasso a molle insacchettate ed evitare in questo modo che venga ad entrambi un'artrite vertebrale acuta, potrebbe sembrare stupida: "Minù finirebbe sotto una macchina nel giro di due secondi, il che appagherebbe i suoi istinti omicidi, ma non gioverebbe alla sua salute, credo. Non basta molto per prendersene cura. Basta qualche carezza ogni tanto. E tenerlo lontano dai tetti. Io... tu potresti...".
Eppure, sciocca o meno, sento che sorride mentre mormora: "Sì. Assolutamente sì, Sara".
E quel sorriso dimostra che non c'è davvero alcun fondo nelle persone che non danno per scontata la vita delle lucciole.
N.d.A.
Come avevo accennato da qualche parte (non ricordo più dove, in effetti... forse non l'avevo fatto... okay, lo dico ora), in questo capitolo Gabriele ha svolto una parte abbastanza importante. Sara, da sola, avrebbe continuato a fuggire, anche da Gabriele, forse (questo non lo so nemmeno io), ma è stato proprio Gabriele, un po' più stringato di lei sul versante argomentativo (perché il versante argomentativo di Sara, me ne rendo conto, è un vero e proprio soqquadro di idee ingarbugliate...), a dirle la cosa più ovvia, in fondo, che Sara però non sarebbe mai riuscita a dirsi: muoversi. Ma muoversi davvero, non a caso, con le proprie gambe, smettendola di volare radente (e finalmente mi sono decisa ad inserire il titolo della storia nella storia... meglio tardi che mai).
Non so dire come sarà il prossimo capitolo: forse troppo semplice, o scontato, o poco "affilato" e troppo "morbido", forse deluderà un po': ma non si può sempre sperare nei fuochi d'artificio finali, e spero che qualcosa, il succo di questa "forse – storia", sia comunque riuscito ad essere spremuto da tutti i suoi precedenti e deliranti capitoli. Sarei leggermente ipocrita, ovviamente, a dirvi quale sia 'sto succo (ucciderebbe Fly By, praticamente): nessuno può dirlo, insomma. In ogni caso, spero non vi sia risultato insapore. Un grazie gigante a tutti i lettori silenziosi e a quelli che si sono fatti sentire, regalando a Fly By un po' del loro tempo: grazie.
All'ultimo capitolo!
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