Strade diverse

Per un attimo ho sperato di rivederlo. La fermata non era quella dell'altra volta, ma l'ho sperato lo stesso. Avrei voluto ringraziarlo. Ho persino indossato la "sua" maglietta. Invece, non l'ho incontrato.

L'autobus si ferma, ma io rimango seduta, con il cuore in subbuglio e un formicolio costante allo stomaco.

Alcune persone scendono. È più difficile di quanto pensassi, ma alla fine riesco a far zittire la mia mente e a far reagire il mio corpo: mi alzo, facendo leva sulle ginocchia, e afferro appena in tempo il sedile davanti al mio, riuscendo a non cadere a causa della brusca accelerata di quell'autista dotato della grazia di un elefante. Con passi incerti lo raggiungo e, ignorando il cartello che dice di non disturbarlo mentre guida, gli chiedo: "Scusi, potrebbe fermarsi? Mi sono dimenticata di scendere alla fermata precedente".

Lui non mi risponde, ma un secondo dopo schiaccia il piede sul freno come se dovesse spiaccicare sotto la suola uno di quegli insetti giganti che temi sempre non muoiano e che quindi, per la paura di vederteli sgusciare via da sotto la scarpa una volta sollevata, spappoli impietosamente sul pavimento con un colpo che farebbe rimanere secco anche un cane.

Non vado a sbattere contro il vetro per non so quale miracolo, e, per una buona volta, mi prendo pure la briga di farglielo sapere, prima di scendere senza voltarmi indietro.

Lo faccio perché non prenderò più quell'autobus.

Entro nel centro commerciale come se fosse la prima volta, come se fossi la stessa diciottenne che oltre un anno fa varcò la soglia aspettandosi che la terra le venisse a mancare sotto i piedi e la lasciasse cadere all'inferno. O meglio, un po' aspettandoselo, perché aveva una paura folle che tutti potessero leggerle in faccia che era scappata di casa e che dovesse essere punita per questo, e un po' desiderandolo, forse.

L'unica differenza tra me e quella diciottenne è che adesso, mentre oltrepasso la soglia d'entrata, ringrazio il cielo, e qualsiasi congiunzione astrale sotto la quale sono nata, perché posso farlo, perché posso dirigermi al supermercato camminando su un pavimento perfettamente integro, senza traccia, ovviamente, di voragini dantesche.



All'entrata, Giovanni mi saluta con un cenno della mano. Violando la mia solita routine, mi avvicino e gli allungo un pacchetto di M&M's. Lui inarca le sopracciglia, sorpreso.

"Non me li hai mai voluti dare di prima mattina".

"Oggi ho deciso di fare un'eccezione".

"E tutti quei discorsi sulla totale ingiustificabilità delle eccezioni che mi rifilavi quando io ti chiedevo di farne una?"

"Erano ingiustificabili essi stessi, Giovanni. Prendevo esempi a caso e li mettevo insieme formando periodi incomprensibili. Certo, alla fine mi uscivano talmente bene che anche se erano senza senso risultavano, effettivamente, abbastanza giustificabili. Però, se ci pensi, anche in questo modo ti ho sempre dimostrato l'ingiustificabilità delle eccezioni con argomentazioni insensate, il che è proprio un'eccezione nel campo della dimostrabilità, che deve necessariamente funzionare soltanto con ragionamenti logici, no?"

Giovanni rimane per qualche secondo serissimo, probabilmente ancora in dubbio sul significato della mia prima affermazione, ma poi scuote la testa e appoggia un gomito alla sbarra dietro di lui.

"Lo stai facendo di nuovo, vero? Mi stai confondendo".

"Ce ne hai messo di tempo per capirlo. E adesso, prima che cambi idea, farai meglio a farli sparire, quegli M&M's".

Scuote di nuovo la testa e apre la confezione con un mezzo sorriso sulle labbra. Mi fermo a guardarlo per un secondo.

Vorrei ringraziare anche lui per tutto quello che, inconsapevolmente, ha fatto sì che accadesse, ma non ci riesco, al momento, e faccio per andarmene. Soltanto dopo alcuni passi mi giro, lo chiamo e glielo dico: "Grazie".

E poi me ne vado davvero, lasciandolo lì, con l'espressione un po' stanca che lo contraddistingue e un cipiglio confuso nello sguardo.



So che a Maria scoccia essere interrotta mentre si sta truccando davanti allo specchio che c'è nell'angolo riservato alle commesse per cambiarsi, ma, in vena d'eccezioni, è proprio quello che faccio quando apro la porta e richiamo la sua attenzione con un colpo di tosse.

"Sara", fa lei, senza smettere di stendersi il correttore sotto gli occhi. Ovviamente crede che le passerò dietro la schiena e andrò a mettermi la divisa in silenzio, come ho fatto tutti e quanti i giorni che hanno preceduto questo.

E invece dico: "Grazie per le brioches del venerdì. Credo che me ne sarei andata molto prima se non ne avessi avuto la certezza. Se non avessi avuto la certezza delle brioches del venerdì".

Ed è così che per la prima volta non la vedo scocciarsi, mentre si gira verso di me, ma sorprendersi.

E chiudere immediatamente, e con mirabile premura, il tappo del mascara, onde evitare che si secchi.



Al capo non do molte spiegazioni. Mi licenzio con poche parole, come si addice alla Sara che ha sempre conosciuto.

"Mi dispiace", dice. Per un attimo vorrei risponderle: "A me no". È solo che non è così. Non del tutto, almeno.

E poi, il suo "mi dispiace" probabilmente riguarda il fatto che non troverà tanto in fretta altre commesse disposte a fare doppi turni a destra e a manca, mentre il mio avrebbe tutto un altro sapore, quindi rimango zitta e me lo faccio passare, quel sapore, dopo che, con una riluttanza che qualche settimana fa non avrei minimamente provato, le consegno il mio cartellino.



Mentre esco dall'ufficio incontro Patrizia.

"Oh, Sara, bentornata! Passato un bel lunedì?", esclama non appena mi vede, con quel tono sarcastico da quattro soldi che proprio non sopporto.

"Spero che il capo ti abbia fatto un bel discorso, perché fra il nascondino nello sgabuzzino e questo, non so se...". Si ferma da sola non appena nota che le sto beatamente sorridendo in faccia, come se mi stesse raccontando una barzelletta divertentissima. Sconcertata per il fatto che non mi stia osservando le punte dei piedi come un cagnolino bastonato, ma anche sorpresa di non avermi vista reagire nel mio modus operandi, ossia rivolgendole uno sguardo omicida e chiudendo le mani a pungo lungo i fianchi, (riassumendo: profondamente irritata), la CC8 molla uno sbuffo e fa per riprendere a parlare. Stavolta, però, tronco la sua intenzione sul nascere.

"Non è stato esattamente bello, come lunedì. È meglio dire... illuminante", affermo. Patty apre la bocca, ma non dice nulla. Io continuo a sorridere, perché la persona che ho davanti, attaccata ai soldi come una sanguisuga ai piedi di un malcapitato bagnante, è l'unica a cui sento di non dovere niente. Se non...

"Grazie per avermi fatto sistemare il vino, qualche settimana fa. E... mio padre non ha l'Alzheimer. È sua figlia a dimenticarsi sempre delle cose importanti. Ma questo non credo t'interessi", faccio in tempo a dire prima che, con una spallata, mi superi ribollendo dal nervoso per fiondarsi nell'ufficio del capo a dirle qualcosa che non saprò mai.



Susanna ha delle borse sotto gli occhi che le arrivano fin quasi agli zigomi. Quando, dopo aver registrato quello che ho comprato, solleva la testa e mi vede, ci rimane un po'.

"Che ci fai dall'altra parte del nastro? Il tuo turno sarebbe già dovuto essere iniziato. Perché diavolo mia madre fa la predica soltanto a me quando..."

"Me ne vado", la interrompo, con un tono di voce molto più incredulo dell'espressione che le dipinge il viso stanco dopo qualche attimo. Più che d'incredulità, in effetti, il suo sguardo appare carico d'invidia. Un'invidia che non sembra avere né origine né speranza di fine, come il moto di pena che m'assalì il giorno in cui conobbi Elisabetta. Un'invidia che tre parole hanno acceso in un lampo e che in un lampo mi appare come una voragine che se l'è divorata, Susanna, tanto tempo fa.

Non sono mai stata tanto ipocrita da pensare di poter capire le persone o di sapere come fossero fatte. Mi sono sempre e soltanto imposta di credere che le persone fossero fatte da due braccia, due gambe, un collo e una testa, e punto. Il che, in effetti, è la verità, ed è una verità che molte volte mi ha evitato un sacco di problemi che se mi fossi messa a maneggiare in altro modo avrebbero finito col distruggere del tutto i miei già fragili e disperati tentativi d'interazione con loro, con le persone, in men che non si fosse detto.

Se avessi fatto più attenzione, però, forse mi sarei accorta prima di quella voragine e forse avrei capito prima che pensare di poter capire le persone, o come siano fatte, certe volte non è questione d'ipocrisia o di presunzione, ma di buon senso. Avrei trattato meglio Susanna, che mi ha rispecchiato molto similmente in tutti questi mesi senza che me ne rendessi conto, e mi sarei trattata meglio, e...

"E vorrei potessi farlo anche tu, davvero", mormoro, concludendo mentalmente ciò che spero potrà un giorno capire da sola e sperando invece che possa capire subito quello che le sto dicendo esplicitamente.

Susanna abbassa lo sguardo, strappa lo scontrino e lo mette nel sacchetto che mi porge immediatamente dopo.

Quando ormai penso che non mi dirà più nulla, sussurra: "Lo so, okay. Ciao".

Non credo mi abbia mai detto un okay prima d'ora. Per non parlare di un ciao.

Lo considero il momento più pacifico che ci sia mai stato fra di noi.

Superate le colonne dell'antitaccheggio del supermercato, infine, mi permetto di considerarlo la mia prima porta chiusa.


∞ ∞ ∞


Apro la porta del mio appartamento e lo trovo seduto sul divano, con Minù accoccolato sulle sue gambe. Prima di uscire gli ho chiesto: "È necessario, vero?", e lui mi ha risposto: "No, ma se non lo facessi non avresti capito proprio nulla". Mi sono girata, l'ho guardato e ho capito molte cose. Gli ho dato un leggero bacio sulla guancia e poi, senza voltarmi, mi sono alzata, ho infilato le scarpe senza star lì a sistemare la linguetta, né tantomeno ad allacciarle, e sono uscita, con i capelli spettinati, afferrando al volo la maglietta artisticamente modificata dal teppistello e cambiandomela mentre camminavo verso la porta. Ho perso un po' di tempo nell'aprirla, perché la mia valigia, preparata nel modo meno appropriato del termine – ossia riempita gettandovi dentro tutto ciò che ho trovato in giro – era un po' in mezzo alle scatole. Poi mi sono precipitata giù per le scale, scendendo due gradini per volta e saltandone quattro per atterrare sui pianerottoli tra una rampa e l'altra.

È come se la fretta si fosse impossessata di me da quando, ieri sera, ho capito quello che avrei dovuto fare.

Forse perché ho più paura adesso di tutta quella che ho avuto quest'anno. Forse soltanto perché il coraggio per fuggire non eguaglierà mai la somma di tutto il coraggio che bisogna raccogliere per tornare.

Forse perché quest'ultima parola mi insinua l'ultimo dubbio, un dubbio che di fronte a Gabriele non mi permetto di tacere.

"Sto tornando indietro", gli dico con il fiato in gola non appena alza lo sguardo.

"Sì, ma lo stai facendo guardando avanti", replica.

"Questo è soltanto uno stupido gioco di parole, io...".

"Lo è, ma è anche la verità". Sembra sicuro delle sue parole. Anzi, lo è davvero, come se fossero talmente ovvie da risultare banali. Le capisco solo quando mi rendo conto che, dopo avermi accompagnato a casa, anche lui tornerà da sua madre e incontrerà la sua famiglia e farà come me, in un certo senso. In un senso molto più difficile, in realtà. Perché quando perdiamo qualcuno a noi caro, il dolore è talmente grande da risultare inesprimibile. Indicibile. Quasi... irraggiungibile: è un dolore che potenzialmente potrebbe distruggerci, ma che non arriverà mai a farlo, che non si attuerà mai del tutto. Ci lascia vivere per fare da sottofondo costante alla nostra vita. È il corpo di fondo delle soluzioni sature che non si scioglierà in alcun modo mai del tutto, ed è molte, molte altre cose, ma fare una lista non può servire a sentirsi meglio. Niente può servire a sentirsi meglio e, in effetti, è difficile che qualcuno ci provi, a sentirsi meglio. La porta è chiusa e si è vivi e si sta bene, si è in salute. Si va avanti per inerzia e prima o poi, senza che lo si voglia realmente, si dà le spalle a quella porta e ci si allontana a piccoli passi. Un giorno triste, un ricordo, un pensiero, e in un attimo, con un salto, le si è di nuovo davanti. È inevitabile. E lo sarà anche per Gabriele.

"Sara", mormora. Rialzo lo sguardo.

"Gabriele".

"Sento le rotelline del tuo cervello che girano incessantemente".

"Carino da parte tua chiamarle rotelline. È segno di una spiccata sensibilità nei confronti del gentil sesso", dico, sforzandomi di non lasciar tremare la mia voce. Lui sorride, accarezza Minù, poi torna a guardarmi.

"Sara", dice, più serio. Io rimango ferma, ancora sulla soglia.

"Ho un'ipotesi sul cosa tu sia. Vuoi saperla?"

Mi chiudo la porta alle spalle.

"Posso dire di no?"

"No".

"Immagino di sì, allora".

"Sei qualcosa di affilato. Come la lama di un coltello di cui non hai ancora trovato il manico".

"E quando lo troverò finirò per usarlo per far del male agli altri?". Le parole escono dalla mia bocca senza il mio permesso, spinte da un senso di preoccupazione improvviso e troppo forte da contenere. Quasi ingenuo, di fronte a Gabriele, che, senza incertezze, mi risponde semplicemente: "No. Finirai per usarlo per proteggere gli altri".

"Te l'ho già detto: pensi troppo in grande per una come me".

"Ma io non penso per te. Io penso a te. E non posso sbagliarmi, in questo modo".

Il silenzio riempie gli attimi che seguono le sue ultime parole, e in quel silenzio, per la prima volta, non penso a niente mentre sorrido, perché sono semplicemente, unicamente e genuinamente in imbarazzo.

"Ce n'è voluto di tempo", è l'ultimo commento che Gabriele pronuncia. Sorridendo.


∞ ∞ ∞


Viaggiamo ad una velocità tale da convincermi che non ci sarà un domani. Che tutto quello che conta è adesso, nel vento che mi scompiglia i capelli, nell'adrenalina che mi contorce lo stomaco, nel subbuglio di cose che provo in questi momenti indistinguibili gli uni dagli altri.

Tuttavia, quando superiamo il cartello che segnala il confine del paese, per un attimo Gabriele rallenta, e in quell'attimo la realtà, annegata in tutti quegli altri momenti indistinguibili, torna a galla, portando con sé la consapevolezza di un pallido domani.

Poi, l'attimo finisce. Gabriele accelera di nuovo e ricomincia a sfrecciare ad una velocità da paura, guidando come se non ci fosse, quel domani.

Ma io ora lo so.

Quel domani ci sarà, e sarà completamente diverso da oggi, da ieri e da tutti i giorni precedenti.

Mi chiedo come reagiranno mio padre, mia madre, mio fratello e mia sorella, o come reagirà il quartiere. C'è di buono che, fortunatamente, quest'anno ho imparato a non aspettarmi troppo, quindi, qualsiasi cosa mi aspetta, non la temo più di tanto.

Temo, invece, il tempo che ci vorrà perché riesca ad andare a trovare Luca. La sua espressione. La mia.

Ma non importa, mi dico. Ora importa che riesca ad arrivare sana e salva nel luogo in cui, da domani, salva, dal freddo e dal buio, lo sarò di sicuro.

Nel luogo in cui sarò salva perché, standone lontana, ho imparato cosa significhi esserlo davvero.


∞ ∞ ∞


Gabriele spegne il motore. Sembra un po' il colmo, ma siamo nel parcheggio del supermercato in cui venivo sempre a fare la spesa. Dista un chilometro a piedi da casa. Sono le due del pomeriggio e in giro non c'è anima viva.

"Posso accompagnarti, fin dove vuoi tu?", mi chiede. Annuisco. Prima di incamminarci, però, gli porgo il sacchetto della spesa che ho fatto al supermercato stamattina.

"Non sono riuscita a salutare Elisabetta e Alberto, e... è una cosa stupida, ma non sapevo che altro prendere. Sono sicura, però, che le piaceranno da morire. Potresti darglieli? So che sai dove abitano".

Lui guarda dentro: cinque confezioni di cerotti colorati. Mi vergogno solo a pensarci, ma spero che lei capirà.

"Dille che mi dispiace di non averla salutata".

Stiamo già camminando, adesso.

"Glielo dirò. Lei li guarderà con emozione e mormorerà che vi rivedrete, un giorno".

Non sono sicura si riferisca soltanto a Elisabetta.

"E come farà a saperlo?"

"Lo saprà e basta".

Mi fermo all'inizio del viale alberato in cui vivo. Si sente qualche cicala che canta, anche se ormai non fa più così caldo.

Mi prendo un attimo, un attimo soltanto, per guardare il suo viso e imprimerlo nella mia memoria. Non credo ce ne sia bisogno, ma lo faccio lo stesso. Forse perché so che, se lo rivedrò, non sarà più il viso di una circostanza. E io desidero ardentemente ricordarmi di questa meravigliosa circostanza in ogni suo più piccolo dettaglio.

"Dille che spero davvero che succederà", mormoro.

Gabriele non mi risponde subito. Mi osserva, come ho fatto io qualche secondo fa. Mi chiedo se anche lui stia pensando a come potersi ricordare di tutti i più piccoli dettagli della ragazza che ha davanti a sé, qualsiasi cosa lei abbia significato per lui in queste poche settimane. Ancora una volta, tuttavia, le mie labbra rimangono sigillate, trattenendo ogni mia domanda, ogni altra mia parola, mentre le sue ne pronunciano una soltanto, in un tremulo sospiro: "Succederà".

Lo abbraccio più forte che posso. Lui mi stringe a sé allo stesso modo, lasciando cadere a terra il sacchetto che gli ho dato prima, e, istintivamente, penso di aver fatto proprio bene a comprare a Elisabetta i cerotti invece di quel set di bicchieri.

Rimaniamo così per un tempo indefinito e indefinibile. Poi, prima di lasciare che quel momento sprofondi nella tristezza, gli prendo una mano e vi poso sopra un pezzo di carta ripiegato in quattro.

Non ha bisogno di aprirlo per sapere cosa c'è scritto. Nessuno dei due, ormai, ne ha bisogno.

Ce lo leggiamo negli occhi a vicenda.

Infine mi volto e ricomincio a camminare.



N.d.A.

Ed ecco qui, l'ultimo capitolo. Sara è tornata a casa, così come Gabriele, e come chiunque, nelle difficoltà, vorrebbe fare. Non so se fosse prevedibile: nel corso di questa storia mi sono venute in mente idee completamente diverse. Poi, però, ho capito che non potevo che concludere in questo modo.

Chi mi ha accompagnato in questo piccolo viaggio sa che non saprò mai come ringraziarlo abbastanza.

Ogni commento ed ogni critica mi hanno aiutato tanto, e spero che, un poco, lo stesso abbia fatto Fly By con coloro che hanno letto, anche in silenzio, la piccola storia di Sara e Gabriele.

Io ho concluso, non ho più altro da dire. Un grazie enorme a tutti ;-)

E chissà... alla prossima!

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