Salti sofferti
La riconosco da quel centimetro quadrato di garza bianca che riesco ad intravedere per miracolo sotto il patchwork di cerotti colorati, disposti in modo da sembrare una sfilza di arcobaleni, che le avvolge la mano destra.
Quando mai le ho consigliato quei cerotti colorati. O quando mai ho nominato lo smalto per unghie!
Facendo leva sulla mano sinistra, che è precariamente poggiata sullo scaffale intermedio delle marmellate, Elisabetta compie un salto sofferto allungando quel tripudio di colori, che sarebbe l'altra sua mano, verso lo scaffale più alto, quello dove vengono defilati i prodotti che si vendono con più fatica di quanta potrebbe impiegarne una squadra di muratori per costruire un albergo a quattro stelle.
Uno di quei salti sofferti, dicevo, che ti fanno rischiare l'osso del collo senza mai risolvere niente, o, nella maggior parte dei casi, provocando solamente la caduta dell'intera popolazione di prodotti dello scaffale che stai cercando di raggiungere o di quello a cui dovresti essere appoggiato, condizionalmente parlando perché, generalmente, a danno fatto si scopre non essere lo scaffale l'oggetto al quale si è affidati un secondo prima lo slancio e la speranza per il successo, in ogni caso irraggiungibile, dell'impresa, bensì l'unico sopravvissuto della popolazione, che ci si ritrova a impresa prevedibilmente fallita stretto inspiegabilmente nella mano. Uno di quei salti sofferti che accomuna i sentimenti di ogni malcapitata commessa che si ritrovi a rassettare le sue conseguenze.
Per questa breve serie di motivi, vorrei tanto che non compisse un altro di quei salti.
Tuttavia, per un'altra breve serie di motivi, del tipo il mio tempismo e la sua sorprendente tenacia e la caramella alla menta che per un soffio non rischia di uccidermi dopo essermi andata di traverso a causa della mia grandiosa idea di pensare al contempo di mandarla giù e di aprire bocca per fermare Elisabetta, finendo per fare a metà tutt'e due le cose, riesco a dire soltanto un misero "El...", prima che i sette vasetti di crema al cioccolato variegata al pistacchio dell'ultimo scaffale per poco non la uccidano.
Per poco, poiché per salvarsi compie un mirabile salto indietro scontrandosi aggraziatamente con la sottoscritta.
"Ma che cavolo, insomma... mi scusi, ma non... Sara!". Elisabetta sorride radiosamente, ma un secondo dopo mi rivolge un'espressione sinceramente mortificata e al contempo dispiaciuta, girandosi a guardare il risultato dei suoi mirabolanti sforzi.
"Sara, mi spiace, non volevo, ma ho preso il barattolo che stava dietro gli altri e mi sono trascinata dietro tutti quelli davanti... sono abituata così, a non prendere mai le cose davanti, è solo che non ho pensato che..."
"Sì, sì, ho capito, non c'è bisogno che ti scusi".
Elisabetta continua a guardarsi indietro, dispiaciutissima: "Si, ma il supermercato..."
"Non ti farà causa, credimi".
"Ma il capo, o il dirigente, quello lì insomma..."
"Oggi è assente".
"E il vicecapo, allora, o il vice..."
"I vice sono le commesse, ovvero io, ovvero Non. C'è. Problema", ripeto con fermezza. Probabilmente noi commesse siamo molti gradini più sotto rispetto al piedistallo del dirigente, ma dettagli.
"Okay", mormora con tono funereo.
Mi viene da sospirare, ma mi trattengo, perché credo che la abbatterebbe ancora di più.
"Vado a prendere lo spazzolone per pulire, tu aspettami pure qui, che..."
"Posso aiutarti?", esclama con risoluta decisione.
No, tecnicamente non potrebbe. Ma oggi il capo è veramente assente e, da come ha espresso la domanda, sembra che la cosa la farebbe saltare in aria un'altra volta dalla gioia, quindi... perché no?
"Sì. Seguimi".
"Grazie!", strilla tutta pimpante. Mi fermo a guardarla per un attimo: è sincera. Non c'è nessun velo o nessun angolo nel suo sguardo dove possa nascondersi nemmeno uno stuzzicadenti di meschinità o superbia. È tipo... limpida.
Le porgo i guanti per riuscire a chiudermi la porta alle spalle, scuotendo leggermente la testa.
Questi emotivi anonimi... rischiano di contagiarti se li guardi troppo a lungo negli occhi.
Mentre mi faccio ridare i guanti per raccogliere i pezzi di vetro, scambiandoli con lo spazzolone, Elisabetta mi indica la mano fasciata.
"Hai fatto un ottimo lavoro. È rimasta soltanto una piccola cicatrice, ma Alby ha detto che se ne andrà presto. Tuo padre dev'essere un gran bravo medico", conclude con riverenza.
"Sì. È un ottimo medico", dico con voce forse un po' troppo forzata.
Non la sento rispondermi. Quando alzo lo sguardo la vedo fissarmi con la testa leggermente inclinata.
"Non abiti con i tuoi?".
Qui mi tornerebbe molto utile quel fantastico motto, che, guarda caso, oggi ricordo alla perfezione, ma che purtroppo con Elisabetta ho già ignorato parecchie volte, a causa delle quali la mia coscienza ora m'impone di continuare a farlo. Forse perché ora non mi va di tornare al punto di partenza. Non anche con lei.
"No. Vivo da sola da quasi un anno. Ma credo che mio padre, nonostante ciò, sia ancora un ottimo medico". Quando le passo il sacchetto con i vetri rotti, scambiandolo nuovamente con lo spazzolone, la sento osservarmi; poi la vedo dirottare l'attenzione verso i barattoli sopravvissuti di quel miscuglio di creme estremamente salutari e leggere, persa di nuovo nei suoi pensieri.
"Chi è Alby?", le chiedo.
Non so precisamente perché lo faccia. Forse non voglio che tra i suoi pensieri ci sia anch'io.
"Oh, il mio ragazzo. Alberto, in realtà, ma Alby suona molto più simpatico, e lui è estremamente simpatico. Stiamo insieme da quattro anni", asserisce sfoderando un sorriso e lasciando perdere i vasetti di creme invendibili.
Sfugge un sorriso anche a me: dev'essere un tipo tosto, il ragazzo, per starle accanto da così tanto tempo. Tosto in senso bello, intendo: se fossi un'emotiva come Elisabetta costruirei una statua a chiunque avesse la pazienza di sopportarmi per più di due giorni.
"E tu?"
"Io che?"
"Vivi sola sola sola?"
"Non c'è bisogno di ripeterlo tre volte", commento, "e comunque sì. Sei giorni su sette".
"E il settimo giorno?", chiede, tutta curiosa.
"Il mio gatto viene a chiedermi ospitalità e a mangiarsi un po' di avanzi", le rispondo, distruggendo ogni sua aspettativa.
"Non hai un..."
"A meno che i ragazzi da oggi si chiamino gatti, no".
Non appena pronuncio quella parola, mi viene in mente Gabriele. Non so perché. È una cosa talmente stupida che potrei non riuscire più a guardarmi allo specchio da oggi fino alla fine dei miei giorni.
"Ma c'è qualcuno", canticchia Elisabetta. Sento la mia faccia scaldarsi e maledico la nostra ingiusta impotenza di fronte al controllo della contrazione o del rilassamento dei vasi sanguigni del viso, controllo che, insomma, dovrebbero donare perlomeno alle commesse per renderle ancora più ferree per quanto riguarda la questione distacco.
"No. Non c'è nessuno".
Elisabetta sembra cogliere che non le conviene canticchiare oltre, se non vuole smettere per sempre di poterlo fare, e rimane in silenzio.
Torna a concentrare l'attenzione sulle creme e alla fine, dopo vari minuti, mi chiede tranquillamente se posso prenderle quelle alla fragola e alla vaniglia, oltre a quelle alla nocciola e al pistacchio.
Stavolta sospiro veramente: conosco il detto "meglio tardi che mai", ma credo che desiderare ardentemente che nessuno lo prenda alla lettera sia un'altra rara cosa che accomuna i sentimenti di tutte le commesse del pianeta quando si ritrovano in situazioni simili alla mia.
E credo sia esattamente quello che mi ritrovo a pensare un secondo dopo averle dato i suoi barattoli, spazzolone sporco in una mano e scaletta richiudibile nell'altra, quando mi giro e incontro lo sguardo di Gabriele che fa sballare totalmente la mia incontrollabile capacità di arrossire o impallidire.
In effetti, non so se faccio l'uno o l'altro, o l'uno e l'altro insieme, ma l'unica cosa che so è che non è assolutamente un tempismo perfetto, il suo.
"Sara? Tutto a posto? Sembra che tu abbia appena visto un...". Elisabetta s'interrompe non appena coglie la presenza del ragazzo sempre più vicina a noi.
"Ciao", dice Gabriele.
"Ciao!", risponde Sara.
No, magari. Sara in questo momento vorrebbe soltanto avere indietro dal mondo delle figure di merda la sua capacità di linguaggio, ma forse è una richiesta troppo esosa, a questo punto. Un record è un record. È giusto che il mondo delle figure di merda voglia tenersi un souvenir, e perché non la sua capacità di linguaggio?
Sara ha un'ottima capacità di linguaggio. Pardon, aveva un'ottima capacità di linguaggio.
"Sara, ma non mi avevi appena detto di non avere un ragazzo?"
Apro la bocca, ma la mia volontà, che sta combattendo contro il mondo delle figure di merda per riappropriarsi della mia capacità di linguaggio, mi riferisce affannosamente che la guerra non è ancora finita, quindi la richiudo.
Riesco a scuotere la testa prima che intervenga Gabriele, che, stranamente, sta sorridendo.
A me le persone che sorridono continuamente generalmente non piacciono. Mi sembra che sprechino i sorrisi, che poi non si riesca più a distinguere quando sorridono sinceramente da quando sorridono per nascondere ciò che pensano veramente. Però – e non c'è nemmeno bisogno di dirlo – Gabriele mi dà esattamente l'impressione contraria.
"Non sono il suo ragazzo, ma mi dispiacerebbe comunque vedermela svenire davanti al naso. Tutto bene, Sara?".
Il suo tono è ancora poco confidenziale. O forse sono io a non volerlo sentire tale.
Eppure mi piacerebbe sentirlo tale.
Ecco cosa succede a non poter parlare. Si pensa a troppe cose contemporaneamente. Deglutisco e opto per una tregua tra il mondo delle figure di merda e la mia volontà.
"Sì".
"Sara era pallida anche la prima volta che l'ho vista. Si vede che sei di qui", commenta Elisabetta stringendo tra le braccia incrociate i barattoli di creme.
"Non sono di qui".
Oh, bentornata capacità di linguaggio.
"Davvero? Ma...". La interrompo con uno sguardo. Non ho voglia di parlare di questo.
"Gabriele, comunque", dice Gabriele, cambiando argomento. Elisabetta gli sorride cordialmente e gli porge la mano: "Elisabetta. È un piacere conoscere il non - ragazzo di Sara. E sapere che non sei un gatto".
Questa conversazione potrebbe realmente uccidermi.
Gabriele la guarda e le stringe la mano, leggermente confuso: "Fa piacere anche a me, credimi".
Proprio mentre sono sul punto di affogare nel disagio più assoluto, Elisabetta prende di nuovo la parola.
"Sara, grazie per la gentilezza. Magari un giorno vengo qui con Alby e te lo presento, anzi, lo farò sicuramente. Ti piacerà, vedrai". Mi sorride animatamente, non notando il mio stato d'animo, che è distante anni luce dall'idea di un sorriso (o, più probabilmente, ignorandolo, perché gli emotivi di solito si accorgono di tutto), e saluta Gabriele.
Rimasta sola, non trovo altro da fare che strofinarmi le mani sulla divisa.
Sii impassibile, mi ripeto. Impassibile, impassibile, impassibile...
"Chi è Alby?", mi chiede Gabriele, con una serenità da far invidia al Sole.
"È il suo ragazzo", articolo. Elisabetta ci passa nuovamente accanto per andare verso le casse e ci saluta con un cenno del capo.
Gabriele si volta un attimo: in quell'attimo ho il tempo per prendere un grande respiro e riconnettermi con il mondo reale.
Mi metto a spostare un po' a caso i barattoli di crema al cioccolato da un lato all'altro dello scaffale, tanto per fare qualsiasi cosa al di fuori di restare con le mani in mano a guardarlo.
"Dev'essere un tipo interessante per stare con lei", dice, sorridendo un po', senza malizia o senza sottintendere qualche tipo di giudizio su Elisabetta.
"Mi hai rubato il pensiero", commento.
"Sembra simpatica. Da quanto la conosci?"
Guardo l'orologio appeso al muro: "Da circa venticinque minuti complessivi, quindici dei quali li ho appena trascorsi a pulire il pavimento dai barattoli di quelle creme strane che lei ha fatto cadere".
Spero di essere sembrata il meno gentile possibile di come Elisabetta prima mi ha dipinto.
Non so il perché.
"E com'è che lo stai facendo sembrare un peccato mentre quindici minuti fa non hai battuto ciglio quando ti sei fermata ad aiutarla invece di andartene, come avresti potuto fare?"
Per poco non faccio cadere anch'io il vasetto che ho in mano.
Il mio dannatissimo sesto senso potrebbe avvertirmi quando fa comodo anche a me, certe volte. Se avessi saputo che mi ha guardato per tutto quel tempo...
"È stato un evento così interessante da invogliarti a stare per quindici minuti nella corsia dei sottaceti per gustartelo?", mormoro, non del tutto decisa e secca come avrei voluto.
"Sono un tipo indeciso. Ho bisogno del mio tempo per scegliere tra i peperoni e i pomodorini sott'olio", declama osservando lo scaffale davanti a sé.
Continuo imperterrita a spostare barattoli. Ma la mia volontà sembra aver preso il sopravvento.
"Mi devi una risposta". Gabriele si volta di nuovo a guardarmi.
"Davvero? Se tu non fossi nulla, o se non sapessi nulla, perché ti interesserebbe sapere qualcosa su di me? Sarebbe uno spreco di energie. Il nulla non si riempie", articola con l'angolo della bocca piegato all'insù.
Sposto quattro barattoli insieme.
"Perché sono un nulla curioso?", butto lì, quasi con rabbia.
"Perché non sei un nulla", dice lui, impassibile.
Dovrei imparare da lui ad essere impassibile. È molto bravo.
"E poi oggi non è martedì. E, in realtà, non mi sembra nemmeno di aver precisato quale martedì. Il futuro è zeppo di martedì".
"Ma il futuro non è zeppo di me. Quindi potresti anche specificare se intendi un martedì di questo secolo oppure no".
"Ti ho già detto di non essere un vampiro, ergo tra un secolo sarei leggermente scomparso anch'io, ergo intendo un martedì un po' più vicino".
"Ma se continui a non farti vivo di martedì, sorge un altro problema".
"Il non essermi fatto vivo questo martedì fa parte del problema, e della risposta".
Sta ancora sorridendo, ma ha di nuovo quel sorriso triste.
Per un attimo ci guardiamo dritti negli occhi. I miei occhi neri nei suoi occhi marroni. Nulla di più statisticamente comune.
Poi un signore ci passa accanto e mi fa tornare alla mente, improvvisamente, il concetto di distacco.
Perciò, distacco lo sguardo dal suo e allungo un braccio con l'intenzione di spostare un altro barattolo, ma afferro solo il vuoto. I barattoli sono finiti.
Mi rassegno e mi convinco a guardarlo di nuovo: "Quindi...", comincio.
Lui aspetta.
"... quindi martedì verrai?".
"Non lo so. Tu vorresti che io venissi?"
Sì, che lo vorrei.
No, no, assolutamente no.
Ecco un esempio di risposte estreme consigliabili per lasciare un segno, e, di conseguenza, non adatte a me.
Cosa c'è nel mezzo?
"Vorrei una risposta", gli rispondo con un'alzata di spalle.
Se io rimango nel mezzo, non rischio di mettere in mezzo lui. Non rischio di metterlo in mezzo a nulla, è questo quello a cui penso mentre gli rispondo. È logico.
Gabriele fa un passo indietro: "Le risposte non sono importanti".
"Mi permetto di dissentire".
"Perché è quello che dice il Supremo Ordine Delle Brave Commesse?".
Mi volto verso di lui e istintivamente mi viene in mente la frase del teppistello. Quella che più o meno diceva che io non sapevo nulla di lui.
Ma non la dico, perché oggi mi sembra che gli altri sappiano molto più di me di quello che so io di me stessa.
Dimenticavo di dire che i puntini erranti spesso sono invidiosi dei cerchi.
"Devo andare", dico, controllando una rabbia irrazionale. Gabriele diventa incredibilmente serio.
Io non so niente di lui, lui non sa niente di me. Dovrei trattarlo come un qualsiasi cliente, come uno delle migliaia di clienti che ho visto in quest'ultimi otto mesi. Potrei trattarlo così.
Vorrei trattarlo così. Ma non sono abbastanza forte.
È questo che succede ai puntini erranti, dopo un po'. Si indeboliscono.
Luca mi ha indebolito, detto fuori dai denti.
Tuttavia, io non odio la gente e so fin troppo bene che Gabriele non ha detto quello che ha detto con cattiveria. È solo che sento di essere andata troppo oltre. E, probabilmente, è quello che percepisce anche lui, perché dopo un momento d'indecisione scuote la testa e dice: "Sara, non volevo..."
Ma ormai sono troppo lontana per sentirlo.
Cosa credo di trovarci, nel mezzo?
Nulla.
Anzi, tutto.
Tutta la stragrande maggioranza della gente che vive e che si è fermata. Che, a un certo punto, si è fermata e ha cominciato a lamentarsi senza muoversi, a desiderare senza muoversi, ad aspirare senza muoversi, o a ricordare, senza muoversi, e a rimpiangere, senza muoversi.
Quel teppistello la sapeva più lunga del numero di canne che si fumava ogni giorno.
E adesso, improvvisamente, stare nel mezzo è diventata una consapevolezza terribilmente pesante da portarsi dietro.
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