Risposte pensate
Non posso più fuggire.
Non lo dico solamente perché ormai in ogni persona che passa cerco il volto dell'unica a cui so associare una, o forse più, emozioni capaci di risvegliare le mie. Né perché ormai è un tantino tardi per accorgersi che accettare un appuntamento non rientra nella categoria di cose adatte ad un puntino ben volenteroso di errare in santa pace. Né tantomeno perché ormai vedo il freddo circondarmi come un salvagente gonfio non d'aria, ma di sassi, impossibile da ignorare. O, più che impossibile, scomodo. Nel vero senso della parola.
Non è solo per questo.
È perché non posso più ascoltare.
Sono rannicchiata contro il muro dell'arco di pietra da ormai quasi due ore e mezza e nessuna nota è ancora giunta fin qui.
Non so se, ora che ho scoperto la sua identità, e soprattutto che la sua non è una di quelle identità che se anche sai a chi appartengono rimangono comunque lontane e rarefatte, ma è una che, mio malgrado, sento così improvvisamente vicina e assurdamente importante, non so se sarei riuscita a rifugiarmi allo stesso modo nella sua musica.
Forse, in fin dei conti, no.
Dunque, a tutti gli effetti, posso dire che non ho più alcuna forza per muovermi.
Non posso più fuggire.
∞ ∞ ∞
Durante il viaggio di ritorno il mio umore rimane costantemente a livello stradale, per non dire sotto asfalto, e quando scendo alla fermata del supermercato raggiunge praticamente le fondamenta del centro commerciale.
Direi che si sta sforzando per rispecchiare il tempo: è in arrivo il terzo temporale della stagione.
Mi avvio senza troppa fretta all'entrata. Anche se è quasi ora di pranzo, la gente non smette di arrivare, né di comprare. Senza esitazione, salgo sulla prima scala mobile che incontro e, dopo essermi lasciata alle spalle il primo, raggiungo il secondo piano, che è praticamente deserto.
Mi siedo sulla panchina.
Dietro la vetrina di quel negozio d'arredamento c'è un tavolino in vimini con due sedie ai lati opposti fatte dello stesso materiale. Del divano ultra – scontato non v'e n'è rimasta l'ombra. Non so se Eleonora e Giacomo abbiano deciso, alla fine, di comprarlo.
Se considero il fatto che hanno voluto fare una foto con me per ricordarsi quel momento da film, propendo a pensare di sì. Se non lo considero, mi stupisco a sperare che l'abbiano fatto lo stesso.
Apro il libro che ho preso in prestito dalla libreria del supermercato, di non so quale autore, e comincio a leggerlo, gettando nel cestino la coppetta di gelato ormai vuota.
Di solito non leggo mai, escluse le sere in cui devo passare il tempo al supermercato. Leggere mi ricorda troppo il corso di letteratura.
Oggi, però, devo tentare anche questo per cercare di dirottare i miei pensieri da una certa discarica bruciacchiata.
Riesco a trastullarmi tranquillamente con i miei pensieri per la bellezza di cinque minuti. Poi, tre pagine e mezzo più tardi, una voce familiare s'interpone tra me e il silenzio dell'inchiostro.
Sollevo lo sguardo e la vedo sedersi senza troppa cura accanto a me, il cellulare tenuto attaccato all'orecchio dalla spalla e le mani intente a cercare qualcosa nella sua borsa.
Non si accorge minimamente della mia presenza.
Per chi non l'avesse capito, si tratta di un'esemplare di sesso femminile appartenente alla specie degli emotivi, del genere anonimo, inserito nella famiglia dei distratti e incluso nell'ordine dei cronici.
"... Possiamo fare domani? Ah, no, aspetta... domani non posso io... allora... lunedì? ... Come sarebbe a dire che lunedì è domani? ... oggi è domenica? ... oh. Ero convinta che oggi fosse lunedì, e... perché ti ho chiesto di fare lunedì? ... ah, ehm... oddio, forse perché intendevo lunedì sera, cioè stasera, cioè, che però no. ... Se oggi è domenica, stasera non posso. ... No, martedì non credo... intendi dopodomani, vero? Ah, ecco, perché avevo pensato a domani, ma domani non posso perché... no, aspetta, se domani è lunedì, la sera posso... certo, te l'ho chiesto io stessa di fare... anzi, scherzavo... mi pare che Alice avesse rimandato a lunedì sera... sì. ... Agenda? ... sì che mi ricordo che cos'è... so anche cos'è una penna... una borsa dove mettercele? Credo di saperlo... Alby, apprezzo la tua vena ironica, ma credo di sapere perfettamente persino cosa sia una mano, e anche cosa siano le dita, e anche che servono a tenere in mano una penna per SARA!".
Al suo grido il libro mi parte dalle mani: qualcosa di molto meno elevato, in termini linguistici, mi partirebbe dalle corde vocali se, nel sobbalzare, non piombassi con molta poca grazia – sempre che esista un modo non imbarazzante per cadere – a terra.
"Alby, ti richiamo... Sara! Stai bene?"
Mi aiuta ad alzarmi.
"Sì", borbotto.
"Fisicamente? Niente di rotto?".
Vorrei risponderle che se oltre al mio timpano destro mi venisse in mente altro non esiterei a riferirglielo, ma mi suona come una battuta un po' troppo sconfinante nella zona stronza al di là della mia linea, in questo momento, perciò mi limito ad annuire.
"Psicologicamente?". Mi guarda con gli occhi spalancati.
"Psicologicamente, Elisabetta, che ti è saltato in mente?", le chiedo con calma, risiedendomi sulla panchina e riprendendo in mano il libro per chiuderlo e rimetterlo nella borsa, senza curarmi di tenere il segno della pagina a cui ero arrivata, visto che non ricordo nemmeno quale dei due protagonisti fosse intento a descrivere qualcos'altro che non riesco a visualizzare. Né chi fossero i protagonisti.
"Mi hai spaventata!", esclama.
"Ero lì da prima che ti sedessi", la informo. Lei inarca le sopracciglia.
"Oh. Scusa. Stavo parlando con Alby e non ti ho proprio notata".
Vorrei risponderle che ci sono abituata, ma, anche stavolta, mi trattengo. Oggi dev'essere il giorno delle risposte pensate.
"Non scusarti...". Le parole che vorrei pronunciare mi sfuggono di mente e lascio la frase in sospeso, cercando di fuggire, ma al contempo di ricordarmi con esattezza, l'ultimo momento in cui ho detto quell'ultima parola. Non riesco a fare nessuna delle due cose. Come due onde che s'incontrano e producono un'interferenza distruttiva, perché la cresta dell'una si somma al ventre dell'altra.
Ecco, la mia mente in questo momento è una specie di laboratorio per interferenze distruttive.
A pensarci meglio, il più destabilizzante, fra tutti questi, è il fatto che, di nuovo, abbia preso ad esempio per cercare di dare un senso ai miei oscuri processi mentali un argomento di fisica senza vomitare. Come...
Ed ecco che il laboratorio ricomincia a funzionare.
"Sara? Tutto a posto?". Elisabetta mi guarda con quella sua espressione preoccupata e indagatoria.
"Sì. Che stavi dicendo di Alby?", le chiedo, scuotendo impercettibilmente il capo.
"Oh, niente, mi ha chiesto se volevo andare da lui per cucinare qualcosa insieme, visto che in cucina è un disastro, ma il lavoro mi impegna abbastanza, e non so se riusciremo a vederci prima di... mercoledì, giusto?".
"Sì, a quanto ho capito non sarai libera fino a mercoledì, come minimo. Che è il giorno successivo a dopodomani", aggiungo, per sicurezza. Elisabetta lancia uno sguardo assorto al soffitto, probabilmente intenta ad assimilare ciò che le ho detto e ad accettare che oggi non è realmente lunedì, poi torna a posare lo sguardo davanti a sé.
"Okay. Oh. Il giorno successivo a dopodomani?", mormora, incredula e affranta, dopo qualche secondo, voltandosi a guardarmi ad occhi spalancati.
Mi sforzo di non varcare la mia linea, ancora una volta.
"Esattamente", confermo, rivolgendole un sorriso di dubbia identità.
Non l'avessi mai fatto: la sua espressione muta di nuovo, come se le avessi appena comunicato una terribile notizia, alla quale sembra propensa a rassegnarsi senza motivo.
"Cavolo. È così... lontano".
La osservo, leggermente stupita.
Elisabetta sarà anche strana, ma ciò che la lega ad Alby, che è poi ciò che lega Eleonora al suo forse – già marito, lo è, ogni volta che mi siedo su questa panchina, ancor di più.
Un mutismo improvviso la avvolge, lasciandomi spiacevolmente a disagio.
"Okay, beh, non è così lontano come sembra", balbetto, sperando in una qualsiasi sua reazione.
Lei solleva lo sguardo da terra: "Sono più di settantadue ore", mormora, come se stesse annunciando la fine del mondo. Poi torna a fissare il pavimento.
"Se la vedi in questo modo risulterebbe deprimente persino ad un clown. Pensa che è solamente un decimo di mese", le suggerisco, ritrovandomi, qualche secondo dopo, a stupirmi immensamente sia per ciò che le ho detto, sia per la reazione che ciò che ho detto le provoca.
Sta ridendo.
Okay, sarà anche Elisabetta, un'emotiva che, da quanto ho capito, sarebbe capace di piangere a dirotto un momento e di ballare la salsa il momento dopo, ma la sensazione che provo nel vederla sorridere è comunque indescrivibile. È come se mandasse al diavolo i miei nervi e, per un attimo, persino i miei pensieri.
"Che ho detto di così divertente?", le chiedo, cercando di trattenere il sorriso che sta affiorando alle mie labbra.
"Niente, è che... beh, a me sembra tanto comunque. E poi... lo sai che dicono che i clown siano le persone più depresse fuori dal circo?", tenta di rispondermi, soffocando le risate.
Non è che riesca proprio a condividere la sua ilarità, ma, sinceramente, chi se ne frega.
"Allora pensa semplicemente che è un minuscolo e trascurabilissimo centoventidueesimo di anno", ritento, osservando di sfuggita l'ora e alzandomi quasi automaticamente.
Elisabetta è piegata in due dalle risate. Quando riesce a sollevare lo sguardo, spalanca gli occhi per dirmi: "la tua capacità di calcolo è formidabile!", e per poi scoppiare di nuovo a ridere.
Alcune persone rallentano per osservarci, altre ci guardano come se fossimo matte. A questo punto, decido di fare qualcosa per salvaguardare quel minimo di dignità che ci è rimasta.
"Elisabetta, ti consiglio di non sprecare tutte le tue energie adesso, visto che abbiamo appurato in modo abbastanza univoco che hai a tua disposizione ben settantadue ore per ridere", mormoro, un po' a malincuore, tendendole una mano. L'effetto delle mie parole, come in effetti mi aspettavo, è immediato: pian piano le sue risate si affievoliscono, fin quando la musica del centro commerciale torna a prevalere. Allora raddrizza la schiena, si lascia sfuggire un lungo, lunghissimo sospiro e, alla fine, accetta di alzarsi.
"Grazie", dice, con la nostalgica ombra del suo precedente sorriso ancora ben impressa sul suo viso.
"Ti ho messa in imbarazzo?", riprende, schiarendosi la voce.
Dò un calcetto ad un pacchetto di sigarette ormai vuoto.
"No. Credo che la dignità sia sopravvalutata*", mormoro con nonchalance.
Sorride.
Mentre scendiamo continua a parlare di quanto Alby faccia pena ai fornelli.
"... e insomma, se gli chiedi di farti un uovo al tegamino per colazione, puoi star certa di trovare di tutto nel piatto, tranne che un uovo al tegamino. La prima settimana che abbiamo vissuto insieme, però, una mattina ce l'ha fatta. Peccato che poi abbia lasciato bruciare i toast".
"Vivete insieme?", le domando.
"Sì, da quasi due anni. Il suo appartamento mi era comodo per poter finire l'Università... e poi, quando l'ho finita, nessuno di noi ha mai accennato alla cosa. Sono rimasta da lui e basta". Sorride, arrossendo leggermente.
Mi immagino Elisabetta, seduta sul divano, dopo qualche giorno dalla laurea, in ansia per quello che si aspetta che Alby le dica, e poi m'immagino Alby entrare in casa, fermarsi un attimo a guardarla, e dire, alla fine, qualcosa di spensierato riguardo la cena, ed Elisabetta rimanerci di sasso. E chissà quante volte dev'essersi ripetuta la scena.
"Adesso sarà meglio che lo richiami. Si starà ancora chiedendo che cosa sia la "penna per Sara"", mormora, cominciando a frugare nella sua borsa con un certo vigore.
"Certo. Devo andare anch'io".
"Il lavoro?", farfuglia con un pacchetto di caramelle tra i denti, senza staccare gli occhi dalla borsa.
Annuisco, pur sapendo che non può vedermi.
Siamo ormai all'entrata del supermercato quando finalmente estrae con soddisfazione il cellulare.
"Complimenti", mormoro di fronte al suo successo.
"Anni di esperienza. Allora, Sara, grazie della compagnia".
"Di nulla". Sto per voltarmi, ma sento che non si muove. La guardo. Mi fissa.
"Sì. Un giorno o l'altro potremmo provare", dice alla fine, prima di cominciare a camminare.
Rimango leggermente spaesata.
"Provare cosa?", le chiedo, ma ormai è troppo lontana per sentirmi.
*Citazione dal film "Now is good", a sua volta tratto dal libro "Voglio vivere prima di morire".
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