Porte chiuse, porte aperte

Io ho sempre creduto che le risposte fossero fondamentali. Non soltanto perché era una delle regole dell'Ordine, anzi: a prescindere dal fatto che fosse una delle regole dell'Ordine, ci ho sempre creduto veramente. Poi, che sia una delle poche, pochissime norme che condivido tra tutti gli altri obblighi comportamentali cui devo attenermi per poter fare la commessa, è soltanto una coincidenza. Non vuol dire che ogni cosa che faccio sia dettata da quegli obblighi. Quello che penso io lo penso io, non lo pensano coloro che sfornano stupidi slogan da esporre sopra giganteschi cartelloni pubblicitari.

Farmi intendere il contrario è stata, come dire, un po' brusca come cosa, da parte di Gabriele.

Certo, ormai ne sono quasi convinta anch'io. Perché tanto ciò che penso non lo dico e ciò che dico non lo penso, quindi, cartelloni pubblicitari o no, è giusto, alla fine è inutile negarlo: sono una commessa e stop.

Però tutti quei discorsi sul nulla, sul qualcosa, su quello che sono veramente... insomma, che senso avevano? Perché insinuarmi il dubbio che io non sia davvero soltanto una commessa e poi rinnegare tutto con una stupida domanda?

Non è da Gabriele. Però... chi sarebbe Gabriele? Io non lo conosco. Non so nemmeno il suo cognome.

La pallina cade a terra e rimbalza fino a scontrarsi con lo stipite della porta.

Mi tiro su dal letto e mi alzo.

Una volta, una di quelle volte temporalmente più vicine a Luca, quando i miei pensieri erano esattamente così, ossia miliardi di palline che rimbalzavano nella mia testa ad un ritmo vorticosamente incalzante, mi dilettavo a rispecchiarli nella realtà: prendevo una pallina abbastanza "rimbalzosa" e la lanciavo contro il muro. Potevo andare avanti per quasi un'ora senza mai fermarmi.

Certe volte mi aiutava, certe volte no. Il più delle volte, comunque, faceva venire una persistente emicrania alla signora che abitava, e che abita tutt'ora, sotto il mio appartamento.

Per un mese continuò soltanto a lamentarsi, poi, alla prima riunione di condominio (una cosa terribilmente noiosa e deprimente) esplose in una specie di attacco isterico e minacciò di preparare una petizione per sfrattarmi; a quel punto nessun oggetto rimbalzante toccò più il mio pavimento.

Adesso, a distanza di otto mesi, i miei pensieri sono ancora tali a com'erano questo tot di tempo fa, se non peggio (ora come ora in particolare), dunque ho elaborato un altro metodo per cercare di schiarirmi le idee.

Lancio in aria la pallina, sdraiata dal letto, e poi mi guardo bene dal lasciarmela sfuggire.

Alterno le mani, tanto per fare.

Senza il rumore che fa sul pavimento è molto meno stimolante, ma ho un letto da cui poterlo fare e lo considero abbastanza.

Mentre raccolgo la palla da terra vedo Minù che raschia contro la porta d'ingresso.

Non pensate che l'abbia chiamato io così, perché a) è un maschio e non ha mai mostrato alcun segno che potesse essere interpretato come una qualsivoglia incertezza esistenziale sessuale, e b) il nome Minù è il nome più brutto che si possa dare ad un gatto, maschio o femmina che sia.

Se fossi un gatto e mi vedessi appioppare un nome del genere, mi lancerei sotto la prima macchina che passa.

Insomma, gliel'avrei anche cambiato, se fosse dipeso da me, ma a quanto pare Minù è l'unico ex gatto randagio che sapeva benissimo quale fosse il suo nome quando l'ho trovato e che, nonostante i miei immani sforzi, non ha mai avuto il benché minimo accenno di idea di cambiarlo. Non per dire, ma togliergli la medaglietta sulla quale erano incise quelle orrende quattro lettere è stato l'unico momento in cui l'ho visto sfoderare gli artigli: alla fine l'ho avuta vinta io, ma al prezzo di una maglietta letteralmente strappata e di un vaso rotto.

Mi avvicino e lo accarezzo sulla testa.

Ho già la mano sulla maniglia quando sento bussare. Alla mia porta. Da qualcuno che è a pochi centimetri da me.

Aspetto qualche secondo: silenzio. Mi sto spaventando, ma è una cosa stupida. Chi mai vorrebbe cosa da me?

Prendo in braccio Minù e mi ripeto che non c'è nessuno, ignorando il mio sesto senso. E, ovviamente, sbagliando per l'ennesima volta a farlo.

È una sensazione stranissima quella che mi coglie quando vedo Gabriele di fronte a me. Talmente strana che ogni parte di me smette di fare quello che stava facendo (i polmoni di espandersi, il cuore di battere, quel prurito fastidiosissimo al braccio dovuto alla puntura di una zanzara di infastidirmi) per solidarizzare con il mio improvviso senso di straniamento e cercare di trovarvi un senso.

Anche i miei muscoli si rilassano di colpo, facendo cadere a terra Minù.

In un attimo sguscia fuori di casa, spaventato, e lo lascerei anche andare dove gli pare se solo non decidesse di lanciarsi a razzo su per le scale che portano al tetto.

Riacquisto di colpo le mie facoltà fondamentali e mi fiondo all'inseguimento, seguita da Gabriele.

Mentre salgo le scale a due a due non posso fare a meno di pensare al surrealismo della situazione: io che inseguo il mio gatto senza pronunciarne il nome, che sarebbe probabilmente la soluzione ad ogni problema visto il suo attaccamento ad esso, perché mi vergogno immensamente a mettermi ad urlare "Minù!" davanti a Gabriele, quel ragazzo che conosco appena e che è, teoricamente, la causa del problema che mi sono ritrovata ad inseguire.

Quando arrivo al pianerottolo noto, non senza una certa ansia, che la porta è aperta.

L'unico motivo per cui mi sforzo di andare a quelle terrificanti riunioni di condominio è per cercare di inculcare nelle teste di chi ci abita il significato delle parole "Chiudere la porta" scritte su un cartello appeso alla porta del tetto, l'angolo del quale sta ora svolazzando a causa del vento che si è alzato e che preannuncia, probabilmente, il secondo grande temporale del mese, e qual è l'unica cosa che chi ci abita non fa?

Maledizione, lucidano i corrimani e i pomi d'ottone che svettano alle loro estremità e non riescono a chiudere quella stramaledetta porta!

Mi giro a destra e a sinistra, ma non lo vedo. Vado verso destra e giro intorno al muro di cemento che costituisce l'abitacolo dal quale sono appena uscita. Mi sporgo verso la strada.

Non può essere così stupido da essersi buttato. Non può.

Sto per dargliela vinta e gridare il suo nome che tanto gli piace quando sento un miagolio alle mie spalle.

Mi volto.

Gabriele viene verso di me, tenendolo tra le braccia.

Non appena è abbastanza vicino, noto che Minù gli sta spudoratamente facendo le fusa. Noto anche quanto mi senta inspiegabilmente sollevata. E, infine, mi permetto di notare lui.

"Sbaglio, o questo gatto ha tendenze leggermente suicide?", articola con un mezzo sorriso.

"Temo che tu abbia ragione", mormoro.

È diverso. Indossa una maglietta bianca senza maniche e un paio di jeans, ma non è solo quello.

"Volevo provare a chiamarlo, ma non ho colto il suo nome, così l'ho dovuto prendere prima che decidesse di sfidare la gravità", cerca di spiegare.

Mi accorgo soltanto dopo alcuni secondi che lo sto fissando senza dire una parola, risultando un po' banale, in effetti, così mi accingo a dire qualcosa. Quella cosa.

"Non l'ho detto. Il suo nome".

Gabriele riflette un attimo: "Strana reazione. Di solito viene spontaneo gridare il nome di qualcosa che si sta rischiando di perdere".

Mi schiarisco la voce: "Beh, non se la cosa in questione ha un nome estremamente imbarazzante..."

"E per questo dovrebbe rimetterci lui?"

"Non gliel'ho scelto io, il nome", mi difendo. Gabriele sorride: "Se l'è scelto da solo?"

"Sì. Cioè, no, ma in pratica sì", concludo con una scrollata di spalle.

"E allora? Come si chiama?"

"Minù", borbotto, abbassando lo sguardo. Nell'attimo di silenzio che segue mi faccio una mezza idea di portare avanti la sfida bruscamente interrotta del mio gatto.

"È una femmina?".

"No".

Gabriele riflette un istante: "Sbaglio, o Minù è un nome da femmina?", butta lì alla fine.

Evito di rispondere e porto una mano dietro la nuca. Potrei semplicemente dirgli che il nome gliel'ha dato chi l'ha abbandonato, ma, non so perché, questo mi sa tanto di conversazione avanzata: pertanto, e stavolta so il perché, non ho voglia di iniziarla.

"E sbaglio, o tu mi hai appena detto...", comincia, ma, intuendo cosa sta per dire, lo interrompo sollevando lo sguardo nel suo.

"No. Non sbagli".

"Buono a sapersi", commenta, "e sbaglio, o..."

"Ehi", esclamo, "se ti piace fare il finto insicuro per poi azzeccarle tutte, dillo subito, così posso dirti di sì fin quando non ti sento più cominciare una frase con "sbaglio, o..."".

Gabriele sorride: "... o le tue corde vocali hanno qualche problema con me? Ah, non c'è bisogno che tu mi dica di sì, perché posso constatare da solo che, effettivamente, mi sbaglio".

Un rumore assordante mi salva dal rispondergli. Mi avvicino alla porta. Si è chiusa.

Alzo gli occhi al cielo.

"Cos'è successo?"

"È successo che siamo rimasti chiusi fuori". E che comincio ad avere freddo.

In effetti, il tempo non reggerà a lungo, e io indosso un paio di pantaloncini della tuta, i più straccioni che esistano al mondo, e una maglietta a maniche corte larga, la più stracciona che esista al mondo. Perlomeno sono entrambi puliti e profumati, perché i capelli ancora mezzi bagnati mi ricordano benissimo che ero appena uscita dalla doccia prima che...

Mi giro improvvisamente verso Gabriele: "Che ci fai tu qui?"

"Mi godo il panorama", risponde, accarezzando la testa di Minù, che continua sfacciatamente a fargli le fusa.

"Non intendevo qui sul tetto, intendevo...".

Aspetta. Sbaglio o questa l'ho già sentita? E sbaglio o sto usando la formula "sbaglio o..."?

"Lapsus?", mi suggerisce Gabriele, puntando gli occhi nei miei senza però alzare il capo, leggermente rivolto verso Minù.

"Beh, forse, ma non ti aiuterà ad evitare di darmi una risposta, questa volta", ribatto, cercando di non balbettare.

Gabriele si avvicina e mi guarda, lasciando perdere Minù - che, comunque, continua a fargli le fusa.

"Volevo scusarmi per l'altro giorno, per giovedì. Non è stata esattamente la risposta del secolo, la mia. Anche perché, in effetti, non è stata una risposta, ma una domanda, per cui...".

"Non fa niente", concludo, senza lasciarlo scusarsi ufficialmente.

"A Minù sicuramente no. Né a chi abita in questo condominio, né alla rossa che non è rossa. Ma a te qualcosa deve aver fatto di sicuro".

Rimango impietrita.

"Ti sbagli".

"Davvero?"

Mi maledico mentalmente. Mi sono appena fregata da sola. E lui lo sa.

E come fa a saperlo? Tutto quanto, intendo. Insomma, non è soltanto uno stupido gioco di parole. Non sta facendo tutto quello che sta facendo per dimostrarmi che ha ragione, su questo mi sbaglio davvero. Non lo sta facendo nemmeno per dimostrarmi qualsiasi altra cosa, credo.

Non riuscire a capire perché sia qui mi fa impazzire.

"Non ha importanza, comunque. Come hai fatto ad entrare?", domando, liquidando il discorso precedente.

Sento una goccia di pioggia.

"Mi ha fatto entrare una signora anziana, quella del secondo piano. Mi ha chiesto se in cambio potevo aiutarla con la spesa".

Margherita Rossetti. Quella fa entrare chiunque, a patto che la aiuti con la spesa. Prima o poi mi ritroverò i ladri in casa, due borse di spesa al posto dei miei soldi nel primo cassetto della cucina e un biglietto di ringraziamento da recapitarle affisso alla porta scassinata.

"E come hai fatto a sapere dove abitavo?"

"Passavo in moto e ti ho vista entrare qui. Se il fatto che ho salvato il tuo gatto, meglio noto come Minù, dal suicidio è abbastanza per convincerti definitivamente che non sono uno psicopatico assassino, non ho motivo di preoccuparmi per come mi stai guardando, giusto?".

Poco ci manca che mi strozzi con la mia stessa saliva. Ovviamente distolgo immediatamente il mio sguardo dal suo.

"Beh, nel caso non fosse abbastanza, ci tengo a ribadirlo", riesce a concludere, un attimo prima che la pioggia cominci a cadere a secchiate sopra le nostre teste.

"Saresti molto utile se fossi un abile scassinatore di porte, in questo momento. O uno psicopatico assassino dotato di super poteri", commento cercando di tenere a bada i brividi.

Mi avvicino alla porta e provo a spingerla, sperando che non sia ben chiusa. Poi sento provenire una voce dall'interno. Una voce acuta e cantilenante che non può appartenere a nessuno se non alla signora Rossetti.

"Ehi, c'è qualcuno lì fuori?"

"Sì, signora Rossetti. Apra", le dico. Le ordino, in effetti.

"Chi è che parla?", domanda con una lentezza esasperante. Mi accosto ancora di più alla porta.

"Sara. Apra", ripeto, sforzandomi di non urlare.

"Che ci fai lì? Sei con qualcuno?".

Ogni possibile imprecazione si affaccia alla mia mente e carbonizza il rarissimo esemplare di "briciolo di pazienza" ancora presente in me.

"Santissimo di un cielo, la vuole aprire questa porta o devo spiegarle come si abbassa una maniglia?!"

Nessuna risposta. Sbatto il palmo della mano contro la porta e soffoco un grido di frustrazione.

Ho appena fatto la figura di una pazzoide di fronte a Gabriele, che non ho ancora avuto il coraggio di guardare, e non sono arrivata a nulla. Come sempre. Mi sento stanca: appoggio la testa contro la porta e chiudo gli occhi.

"Signora Rossetti, sono il ragazzo che ha fatto entrare prima".

La sua voce me li fa riaprire. Il suo tono è calmo e controllato.

Non m'interessa se rischia di invadere i miei pensieri. Stavolta lo guardo.

Minù gli si sta divincolando tra le braccia, graffiandolo non poco, nonostante lui stia tentando di proteggerlo come meglio può.

"Sta piovendo a dirotto e né io né Sara abbiamo un ombrello. Se ci fa entrare le potremo spiegare".

Sollevo la testa. Non ho pensato nemmeno per un secondo al fatto che i gatti odiano l'acqua, né al fatto che Minù fosse in braccio a Gabriele.

Sento dei passi: la signora Rossetti ci ha ripensato.

"Gabriele...". Mi avvicino, letteralmente mortificata, e prendo quella palla di pelo bianco e nero che Minù è diventato dalle sue braccia. Il mio cuore probabilmente accelera, ma sono davvero troppo mortificata per farci caso.

Poi la porta si apre e ci fiondiamo dentro in un batter d'occhio.

Supero la signora Rossetti, scendendo in fretta le scale, ed entro in casa, afferrando un asciugamano e strofinandolo sul pelo ispido di Minù.

Lascio la porta aperta.

Quando Gabriele raggiunge l'ingresso, gli dico semplicemente di entrare.

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