Periferie (parte 2)

"È un peccato non essere arrivati prima. Il tramonto qui è qualcosa di spettacolare".

Ogni volta che Gabriele apre bocca, tra un morso alla sua piadina e l'altro, mi sembra che si sia preparato per tutta la vita a dire le cose giuste, al momento giusto e con il tono giusto. Se non mi chiamassi Sara Marchesi sarei già all'opera per costruirgli una statua, in onore del fatto che da quando siamo seduti ha sempre fatto qualche commento mentre stavo mandando giù, in modo tale da evitarmi quell'imbarazzantissimo momento in cui avrei dovuto portare avanti la conversazione facendogli una domanda con il boccone in bocca, rischiando di sputargli spudoratamente in faccia mostrandogli il magnifico bolo che nel frattempo sarei stata intenta a creare, o, in alternativa, in modo tale da evitarmi quelle imbarazzantissime attese che avrebbero dovuto rimpiazzare quegli imbarazzantissimi momenti, attese durante le quali, però, avrei rischiato il trapasso parecchie volte e sarei diventata paonazza (una prospettiva altrettanto poco allettante, dal punto di vista estetico), perché, ovviamente, avrei saputo che lui mi stava guardando e che io, essendomi ficcata in bocca un pezzo di piadina immancabilmente grande il doppio della mia stessa faringe, nella speranza di finirla il più presto possibile, sarei stata lì lì per soffocarmi nell'ardua impresa di ingollare il boccone.

Dopo aver ripassato mentalmente la mia abilità mangereccia, mi pulisco la bocca e osservo sconfortata la situazione sul tavolo.

Io, pur essendomi impegnata nel prendere i bocconi più grandi possibili e pur non avendo praticamente aperto bocca, se non per fargli qualche domanda, sono ancora a metà, mentre lui, che ha praticamente sempre parlato e che non mi sembra aver mangiato in modo indecente, l'ha già finita.

Perché? Perché i maschi mangiano sempre tutto così in fretta?

"Vieni qui spesso?", decido di chiedergli, tanto per rompere l'imbarazzo.

"Venivo. Quando abitavo sulla collina fuggivo quasi sempre qui".

"Quindi abitavi là?"

Perché stasera la conversazione continua a tornare a quel quartiere?

"Sì. Poi, a sedici anni, mi sono trasferito con i miei, e dopo, quando ho cominciato l'università, mi sono trasferito da solo appena fuori dal paese".

"A che anno saresti?"

Gabriele sorride: "Saresti?"

"Hai detto di essere uno studente in crisi. Pensavo che ti fossi preso una pausa dagli studi".

"È così, ma non credevo te lo ricordassi. La tua memoria non fa così schifo come dicevi".

Quanto si sbaglia. La mia memoria fa schifo. È infida, e crudele.

"Dipende da che tipo di memoria, ne abbiamo molte. Cosa studiavi?"

"Economia".

Economia, economia, economia... no, non ce lo vedo proprio uno come Gabriele che studia economia.

"Sì, è la stessa reazione che ho avuto io e per la quale sono andato in crisi. Non è la mia università", afferma con nonchalance.

Finalmente finisco la mia cena.

"Perché ti...", comincio, ma m'interrompo. Vorrei chiedergli perché si sia iscritto, ma la mia potrebbe essere una domanda o troppo sciocca, o troppo importante da fargli.

"Sarebbe una bella domanda, ma otterresti una pessima risposta, te l'assicuro", dice infatti Gabriele voltandosi ad osservare il lago.

Lo imito.

Queste due ore sono state le più strabilianti dei miei ultimi anni. A parte quella che mi sembra ancora una situazione surreale, ciò che mi fa più effetto è il ragazzo con cui la sto vivendo. Vorrei chiedergli un sacco di cose e questo non è affatto da me. Cioè, lo è, ma non in questo modo. Di solito imparo dalle persone ciò che le persone mostrano. Non mi sono mai azzardata ad andare oltre. È come se Gabriele mi avesse fermato, come se in questo momento fossi un puntino fermo, non errante. Penso sia pericoloso, eppure non riesco a muovermi.

Lo è, in effetti, perché i pensieri e i ricordi mi stanno sommergendo a tal punto da confondermi le idee e farmi dimenticare quasi come mi chiamo.

Questo quartiere, è come se mi rappresentasse. Così vicino, eppure così lontano dalla ricchezza, dimenticato, abbandonato persino da se stesso, ricco solamente di ricordi che evaporano incessantemente e obnubilano l'aria.

Mi chiedo perché Gabriele sia in cerca di un posto del genere. Di una persona del genere.

"Sara?"

Sussulto e lo guardo. Mi sta porgendo qualcosa.

"L'ho trovata nella tasca della felpa che mi hai dato".

La prendo. È una patente. Per la precisione, è la patente di mio fratello.

Mi scappa da ridere. Gli ho rubato la felpa, e, involontariamente, pure la patente: deve avermi ingiuriato talmente tanto da farsi andar giù la voce.

"È tuo fratello?", mi chiede. La mia euforia svanisce.

"Sì. Insomma, qualche mese fa lo era. Non so se abbia deciso di ripudiarmi dopo questo piccolo inconveniente", mormoro, sollevando la patente e rigirandomela tra le dita.

"Se davvero avesse potuto farlo, ne saresti felice?".

Il mio sguardo si fissa nel suo.

"È una domanda a trabocchetto?". Gabriele sorride: "Se ti sei posta il dubbio, lo è di sicuro".

La realtà è che così, di getto, direi di sì. Ma non voglio sembrare un mostro.

Però lo sei, Sara.

"Sì. Ne sarei felice", affermo scostando lo sguardo.

"Ne hai altri? Di fratelli, intendo".

"Ho una sorella". Mi stringo nelle spalle e incrocio le braccia. Non parlo mai di me con gli altri e farlo è talmente strano che vorrei solamente smetterla.

"Scusa. Non ti va di parlarne, avrei dovuto capirlo prima".

Non appena sento la parola "scusa" è come se la mia mente si bloccasse di colpo.

"No, non scusarti, ti prego. Non è colpa tua". Le parole mi escono di getto dalle labbra senza passare da nessun centro operativo di controllo del mio cervello (che ne è pieno zeppo).

Il viso di Gabriele si fa serio. Senza nemmeno l'ombra consueta di un sorriso, noto quanto i suoi lineamenti siano duri, quasi scavati, in confronto al suo fisico che non è proprio una mozzarella. Quanto siano impressi.

"Okay", dice, cauto.

Stupida. Ho appena buttato l'intero appuntamento nel cestino, e poi ho buttato l'intero cestino nel camion dei rifiuti e ho guidato fino alla discarica, e poi mi sono accertata che l'intero camion venisse buttato direttamente nell'inceneritore, e...

"Non pensarlo nemmeno. Non hai rovinato un bel niente".

Se le braccia potessero cadere, in questo momento le mie sarebbero già bell'e inviate verso il centro della terra.

"Non avevi ribadito due volte di non essere un vampiro?"

Sorride, senza staccare gli occhi dai miei.

"L'ho fatto e lo rifaccio. Sei tu quella estremamente espressiva".

"Non è vero", ribatto immediatamente.

Gabriele solleva un sopracciglio: "Allora so leggere nella mente. Decidi tu".

Io, espressiva?

"Forse non si capisce di primo acchito, ma poche cose si capiscono in questo modo, in fondo".

Sbatto le palpebre un paio di volte. Avrei giurato di essere una pietra, prima delle sue parole.

"Nessuno me l'aveva mai detto. Come dovrei prenderlo?"

"Io lo prenderei come un complimento. Significa avere spontaneità di pensiero. È una cosa difficile da mantenere".

Mentre cerco disperatamente di non arrossire, penso che sarebbe stato difficile non mantenerla. Non mi sono mai confrontata granché con gli altri. Sono quasi tentata di dirglielo. Di parlargli ancora. Le mie intenzioni, però, vengono sommerse da un profumo dolciastro e pesante che rischia di farmi starnutire. L'untrice, ossia la cameriera, ci chiede se vogliamo un dolce. Io le rispondo di no.

A quel punto, come se considerasse quel "no" il coronamento di un appuntamento fallito, si volta allegramente verso Gabriele e sfodera un sorrisetto alquanto affabile.

"Gabriele?"

Con una calma invidiabile, Gabriele risponde: "Se non lo prende la mia ragazza, non lo prenderò certamente nemmeno io".

Non faccio in tempo a sbiancare che mi ha già preso per mano, facendo in modo di dare le spalle sia al lago, sia alla dolce cameriera.

Quando siamo abbastanza lontani, avvicina la testa alla mia e mormora, a voce bassa: "Scusami, e stavolta fallo davvero. Dovevo togliermi la soddisfazione di vederla scontenta, per una volta".

Mi accorgo che sto trattenendo il respiro.

"Ma avevi appena detto che sono una espressiva... se avesse visto la mia faccia, non credo che la teoria del "primo acchito" avrebbe... ".

"Era già troppo impegnata a contare il resto che le avevo lasciato, non preoccuparti".

Mi sa molto di frase significativa, ma non riesco proprio ad analizzarla. Non adesso, con Gabriele a dieci centimetri dal mio viso. Riesco solo a farmi sfuggire un sorriso. Poi lui mi lascia la mano.

"Chi era?"

"Una mia vecchia compagna di corso, Debora. I suoi hanno smesso di prestarle soldi dopo aver scoperto che nel tempo libero si dilettava a prosciugare le loro carte di credito, così, un bel giorno, mi ha rivolto la parola per la prima volta e mi ha chiesto se conoscevo qualche luogo in "quel quartiere là", dove potesse fare un "lavoro semplice e poco impegnativo". Io le ho risposto che se fosse esistito un lavoro del genere non sarei di certo stato lì a parlarle, ma non ha colto l'ironia... quindi l'ho portata alla Zanzara. Poi, quando ha cominciato a lavorare, si è improvvisamente resa conto che esistevo ontologicamente anche fuori dalla scuola e che ero un ragazzo. Tutto qui".

Camminiamo per un attimo in silenzio, finché io non mormoro: "Mi chiedo come se la sia cavata con le zanzare...", e Gabriele si lancia in un nuovo racconto.


∞ ∞ ∞


È quasi mezzanotte quando Gabriele spegne il motore.

Scendo dalla moto, lasciando la presa sui suoi fianchi. Stavolta non ho voluto rischiare. Lui si toglie il casco, ma non scende.

Forse da qualche altra parte, per qualche altro ragazzo, ciò significherebbe che questo non è stato quel perfetto primo appuntamento tanto agognato da qualche altra ragazza.

Effettivamente, non lo è stato.

C'è qualcosa che Gabriele ha detto, però, che è riuscito a rendere questo "appuntamento" migliore di quello che mi sarei aspettata.

"Se mai prenderò la patente, pregherò di non dovermi mai confrontare con la tua guida".

Gabriele sorride: "È più o meno quello che mi ha detto il mio istruttore il giorno dell'esame".

Sorrido anch'io, mio malgrado. "Grazie per la serata", mormoro, lanciandogli una brevissima occhiata, prima di avvicinarmi per rimettere il casco al suo posto.

Quando mi volto, noto che mi sta guardando.

"Che c'è?", gli chiedo, tornando seria.

"Mi stavo chiedendo cosa abbia spinto una ragazza come te a lasciare la scuola".

Sa di aver appena fatto qualche decina di passi falsi con quella frase. Lo sa benissimo. Eppure l'ha detta. È come se volesse avvicinarsi a me nonostante tutto.

"Non è qualcosa che abbia voglia di raccontare".

"Io penso sia quel qualcosa che ti impedisce di aver voglia di raccontare qualsiasi altra cosa".

Mi allontano di colpo.

"Pensi troppo in grande per una come me".

Gabriele scuote la testa: "Sara..."

Ma ormai mi sono già chiusa la porta alle spalle.

Mi appoggio alla parete. Dopo qualche istante sento il rumore del motore che si accende e rimango immobile fin quando non si affievolisce per poi scomparire del tutto.

Ho il cuore che mi esplode nel petto.

E adesso posso tranquillamente affermare di aver bruciato del tutto anche l'intera discarica.



N.d.A.

Ed ecco la conclusione di questo strano appuntamento... diciamo che ho voluto dividerlo in due parti perché in quest'ultima, o meglio, nell'ultima parte di quest'ultima, si capisce che, a dispetto di quello che Sara ha appena affermato, lei non si è ancora fermata. È ancora un puntino errante: un po' diverso da prima, ma pur sempre errante. Diverso in che senso? Ditemi voi ;-)

A presto!

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