Periferie (parte 1)

Quando Gabriele spegne il motore, provo uno strano senso di sollievo: un sollievo laconico, sordo.

Durante il tragitto ha evitato per un pelo di andare a sbattere contro ben due auto e ha tagliato la strada ad altrettanti veicoli, tra i quali persino un'altra moto. Per non parlare degli stop: non ci avevo mai fatto caso, ma ce ne sono veramente tanti qui attorno e rispettarli tutti evidentemente non era nel suo ordine del giorno. Eppure, scendere dalla moto mi riesce difficile. Questo mio entusiastico attaccamento alla vita è preoccupante.

"Allora, come sono andato?", mi chiede togliendosi il casco.

Rispondo la prima cosa che mi viene in mente: "Veloce".

"Davvero?", risponde, per nulla ironicamente.

Lo guardo, aspettandomi che sorrida da un momento all'altro. Non lo fa, anzi: continua a fissarmi con uno sguardo curioso, e con i capelli spettinati, e...

"Beh, se per te i limiti di velocità sono un semplice optional o qualche numero scritto a caso dentro dei cerchi rossi su uno sfondo bianco... no. Non eccessivamente, per lo meno".

Gabriele abbozza un sorriso: "Cavolo, i limiti di velocità. Ecco cosa stavo dimenticando. Sai, per qualche strano motivo non riesco mai a ricordarmene...". Abbassa lo sguardo fino ad incontrare il mio e un lampo divertito saetta nei suoi occhi.

"... eppure non ci hai messo molto a disdegnare le maniglie", conclude con un sorriso canzonatorio.

"L'ho fatto per una semplicissima questione di fisica. A quella velocità il baricentro del mio corpo si era pericolosamente sbilanciato all'indietro. Resta il fatto che mi sono sentita estremamente sicura durante i primi venti... beh, dieci secondi di viaggio", affermo con convinzione, riaprendo i cassetti ammuffiti e cacciati in un angolo polveroso della mia mente chiamati "Ricordi di scuola. Riservato: fisica".

"Rendiamo grazie alla fisica. Per di qua".

È strano. La sua frase dovrebbe essere considerata una stupida sdolcineria. Eppure, è come se non facesse in tempo a diventarlo. Non detta da lui, mentre sorride e mi prende il casco per metterlo dietro la moto. Non mentre, alla luce dei lampioni, noto che arrossisce leggermente, e non mentre mi ritrovo io stessa ad essere d'accordo con lui.

Io che rendo grazie alla fisica e non associo a questa parola ventidue imprecazioni diverse in meno di un secondo... eh sì. È strano.


∞ ∞ ∞


Siamo in una zona di periferia che non conosco. Le vie sono illuminate e piene di negozietti aperti, ma vuoti, e non appena svoltiamo nella strada principale non posso fare a meno di notare che oltre questo isolato si trova, sulla collina che si erge di fronte a noi, un quartiere residenziale non di poco conto, a giudicare dalle auto che si dirigono verso quelle vie addobbate da piante e siepi curate a meraviglia, che circondano giardini rigorosamente tagliati e irrigati, perfettamente verdi nonostante il caldo.

Non che questi dettagli possa riconoscerli alle nove e mezzo di sera, ovviamente. Mi stanno semplicemente affiorando alla memoria.

"Conosci la zona?". La voce di Gabriele mi desta e smetto d'improvviso di fissare la collina. Alzo lo sguardo e lo punto nel suo. È serio. Per quanto tempo sono stata ferma a guardare? O a ricordare?

"No. No, non la conosco".

Mi accorgo di dover riprendere fiato alla fine della mia risposta.

So fin troppo bene il motivo di questa mia mancanza d'ossigeno, ma mi rifiuto categoricamente di ammetterlo.

"Questo quartiere è il residuo di una periferia che una volta ricopriva l'intera collina. Là sopra, adesso, è tutto nuovo di zecca", mi racconta, e percepisco che, per un attimo, studia la mia reazione alle sue parole.

Sono io quella che osservo gli altri. Non sono gli altri che osservano me. Che storia è questa?

"Riservato ai poveracci senza un soldo, immagino".

Gabriele ridacchia. Io respiro e, miracolosamente, non sento alcun peso buttarmi a terra. E stavolta, se di solito non trovo nulla che mi aiuti a ricordare che è successo qualcosa, stavolta c'è Gabriele a ricordarmi che ho appena scampato uno di quei qualcosa.

L'idea di sorridere mi passa di mente non appena mi assale un perfido dubbio.

"La tua casa non si trova sulla collina, vero?"

"Oh no, figurati".

Tiro mentalmente un sospiro di sollievo.

"Là ci abitano solo i miei zii, i miei nonni e i miei cugini. E la figlia dei miei cugini".

Ecco, stavo proprio cominciando a sentirmi a disagio. Per fortuna che posso sempre contare su di loro. Bisognerebbe benedirle, le figure di merda.

"Scusa, non intendevo...". Gabriele mi interrompe con un gesto della mano e comincia a camminare lungo il marciapiede.

"Teoricamente non dovrei condividere la tua sincerità. Ma dato che non mi trovo seduto su uno di quei divani di pelle bianca ad osservare un quadro da mezzo milione di euro che ritrae un vecchio morto non so quante centinaia di anni fa mentre divido in sette pezzettini l'unico biscotto che è permesso mangiare con il thè all'aroma di vaniglia e rooibos delle quattro e un quarto, direi che posso anche permettermi di distanziarmi da quel teoricamente".

Non appena termina il suo monologo, mi ritrovo ad immaginare il lusso e l'agiatezza che avvolgono la sua famiglia. Arrivo persino a chiedermi perché sembra conoscere come le sue tasche questo posto, che sembra agli antipodi del suo quartiere.

E poi dico l'unica cosa stupida che mi viene in mente.

"Un solo biscotto? È la regola?"

"Beh, i miei nonni sono un tantino tradizionalisti. E anche i miei zii. Gli unici a salvarsi sono i miei cugini, che, da buoni italiani, conoscono il significato della parola "dieta mediterranea" e ogni sua possibile coniugazione".

"E come fanno ad arrivare vivi fino a cena?"

"Ci sono altri due spuntini".

"Ah, ecco".

"Che consistono ciascuno in una tazza di thè. Senza l'ombra di un biscotto, chiaro".

A questo punto, mi decido a togliermi la curiosità che mi ha catturata da quando mi ha rivelato il suo cognome. Curiosità che, data quest'onnipresenza di teina nella dieta dei suoi parenti, credo di sapere dove mi porterà.

"Da dove vieni esattamente?".

Gabriele sorride all'aria di fronte a lui: "Io sono nato in Italia, ma i miei nonni sono inglesi. Sono venuti ad abitare in Italia appena sposati e la loro progenie ha pensato bene di mettere qui le radici. Se ti stai chiedendo come mai il mio accento risenta comunque un po' di quello inglese, è perché fino a sette anni ho vissuto là".

"E sei già zio?"

"Sì. Mio cugino si è fidanzato alla veneranda età di diciassette anni con la sua vicina di casa e nove mesi dopo il diploma è nata Carlotta. Ha quasi un anno adesso".

Cavolo. Detto così sembra facile essere felici.

Come se mi stesse leggendo nella mente, Gabriele aggiunge: "Carlotta è un angelo. Vorrei solo che non crescesse all'ombra di due mantenuti che litigano di media due volte al giorno".

Il suo viso s'incupisce. Da un momento all'altro, guardandolo, mi sembra più grande.

"È per questo che non abiti là vicino a loro?"

"... Anche".

"Dove abiti?"

"Dall'altra parte del bosco del tuo paese".

Quasi inciampo nei miei stessi piedi.

"Dall'altra parte del bosco?", mormoro, trattenendo malissimo la mia incredulità.

"Già", conferma, lanciandomi un'occhiata.

"Sì, insomma, non è il paese più cool del pianeta, ma è carino".

"Tu abiti a là e vieni al centro commerciale a fare la spesa?", continuo, ignorando il suo commento.

A questo punto, anche Gabriele si volta verso di me e mi guarda sorpreso.

"Conosci il mio paese?"

Okay. Riprendiamoci, Sara.

"Beh, poco e niente, in realtà", minimizzo con una scrollata di spalle.

"No, intendo: tu hai già sentito nominare il mio paese prima di trenta secondi fa? Va contro ogni probabilità", continua, stupito.

"Benvenuto nel club", mi sbilancio nel commentare.

"Come fai a conoscerlo?", riattacca.

Oh, beh, dal momento che passo praticamente ogni domenica mattina al limitare del bosco che lo delimita, sotto un arco di pietra, per ascoltare un tizio che suona il pianoforte la cui identità mi è assolutamente ignota, la risposta è semplice.

"La gente, in un supermercato, parla di cose che non potresti immaginare nemmeno se avessi una fantasia più sfrenata di quella della Rowling. Basta farci caso", scelgo di rispondergli.

"Effettivamente non riesco proprio ad immaginare cosa ci sia di dire del paese. È il più tranquillo che conosca e l'unico nel quale esista un corso per buone maniere, a quanto ne so", mormora, scuotendo la testa.

Mi si accende una lampadina.

"Beh, non posso credere che non ci sia proprio nessuno di cui si parla...".

Gabriele riflette un attimo: "In effetti, c'è un tizio che gira con quattordici bassotti al guinzaglio ventiquattr'ore su ventiquattro: credo che sia riuscito a beccarsi tipo venti denunce per disturbo della quiete pubblica".

"... e qualcuno di cui si parla in positivo?"

"Oltre a me?", ironizza. Mi scappa un sorriso, e sembra che lui non aspettasse altro.

Scaccio immediatamente dalla mia mente quest'ultima, assurda ipotesi.

"Sì, c'è un pianista che offre lezioni gratuite a chiunque voglia".

Il mio cuore perde un battito.

"Gratuite?", chiedo.

"Già. Non vuole nulla. Dice che ascoltare i suoi allievi suonare lo ripaga già abbastanza". Si interrompe un momento. Continua a sorridere, ma ora il suo sorriso si è fatto lontano, nostalgico.

"L'hai mai conosciuto?".

Gabriele non mi risponde subito. Temo di aver detto qualcosa di sbagliato e, anche se so che dovrei rimangiarmi la domanda, allo stesso tempo mi rendo conto di voler ascoltare la sua risposta più di qualsiasi altra cosa.

"Sarebbe stato impossibile non conoscerlo: ho vissuto con lui per diciotto anni".

Smetto di camminare.

Non è possibile.

"È...".

"Mio padre", conferma. Pronuncia quelle parole senza esitazione, senza alcuna intonazione, come fosse... stanco.

"Purtroppo l'unica cosa che credo di non aver ereditato da lui è il gene del talento musicale, quindi diciamo che non sono mai stato tra i suoi allievi preferiti", mormora con lo stesso identico tono di prima, che, non so perché, ma è come se facesse venire freddo.

La sensazione dura solo pochi istanti, perché, come se si fosse improvvisamente risvegliato, s'infila le mani in tasca e torna a guardarmi con il suo solito sorriso. Sul suo viso non c'è traccia di ciò che ha appena detto.

Eppure sento che è ancora lì, nascosto dai suoi occhi sorridenti. Freddo.

"Sto monopolizzando la conversazione. Tu suoni?"

"No. Più che altro ascolto".

L'ultima volta che ho detto così, Luca mi ha risposto che si vedeva che non ero una grande chiacchierona. In altre parole, mi aveva dato della laconica. Era quello che pensavano tutti, in fondo.

Adesso, quindi, non so cosa potrebbe rispondermi lui.

Di certo, prima che lo faccia, non avevo pensato minimamente a questo: "Sì. Lo sento".

No, è chiaro che non me l'aspettassi minimamente, perché, di colpo, mi fermo di nuovo, come un'ebete, davanti ad un negozietto di non so che.

Fingo di osservarne la vetrina mentre cerco di convincermi che ha detto quello che ha detto non perché io sia davvero una persona "bella" come le sue parole sembrerebbero insinuare, ma soltanto perché gli sono sembrata tale: in realtà io non parlo molto perché sono una persona egoista, che pensa che la maggior parte della gente sia deficiente, acida come poche cose e tendente alla misantropia. Non sono una persona laconica per buoni motivi. Non sono una bella persona.

"Sai, mi stupiscono sempre le vetrine che ti fermi a guardare", dice tutt'ad un tratto, cogliendomi alla sprovvista, dopo essersi accostato al mio fianco.

La guardo veramente e quasi svengo dalla vergogna.

Dietro al vetro sono esposti due completi intimi rosso fuoco, con la stoffa dei quali, messi assieme, ne verrebbe fuori mezzo. Un mezzo eticamente accettabile, intendo.

Prima di fare l'enorme errore di sbirciare all'interno del negozio, dove, mio malgrado, intravedo - perché è praticamente impossibile non notarli - due reggiseni di pizzo nero, che andrebbero posizionati al millimetro per poter svolgere la funzione che il loro nome specifica, prima di spingermi oltre distolgo immediatamente lo sguardo.

"Stavo guardando... la collana al collo della commessa. Non farti strane idee. Ti prego", aggiungo, senza nemmeno accorgermene, riprendendo subito dopo a camminare.

Gabriele ride divertito: "Le mie idee sono normalissime, te l'assicuro. Ad esempio, sto pensando, in modo del tutto banale, che il commesso che stava armeggiando con i manichini deve avere una fidanzata che si fida ciecamente di lui".

Stasera batto il mio record personale. Me lo sento.

Mi fermo di nuovo: "Non era un maschio", affermo risoluta.

"Lo era eccome".

"No".

"Vogliamo tornare indietro a chiederglielo?"

"Oh mio Dio, no. Solo se davanti a noi stesse infuriando un incendio".

"Come vuoi. Resteremo nel dubbio".

"No, resteremo senza alcun dubbio, perché quella, senza alcun dubbio, era una donna".

"Mi spiace, non lo era. Al massimo posso accettare l'ipotesi che fosse un trans".

"E trans sia", concludo.

"Perfetto. Di qui", mi informa, facendomi cenno di attraversare la strada. Prima di entrare nel vicolo che mi sta indicando, lancio un'ultima occhiata alla collina.

È un bene che abbia deciso di portarmi lontano da lì. Non potrei sopportare un altro minuto al ricordo della casa di Luca, né della mia.

La mia non era una famiglia eccessivamente ricca. Era benestante, ma non più della maggior parte della gente del paese. Non mi mancano i lussi che poteva, e che ancora può, senza dubbio, permettersi. Non mi sono mai mancati. Da quando Luca ha avuto l'incidente, li ho odiati ogni giorno di più.

La piscina, i videogiochi, una cucina super accessoriata, una camera tutta mia. Erano tutto ciò che lui non avrebbe mai più potuto usare. Tutto ciò che avrebbe potuto solamente guardare.

Guardare. Come un automa che passa le sue giornate davanti alla televisione, ad osservare le vite degli altri scorrere senza pietà. Senza poter mai più esserne coinvolto.

È questo ciò che ho scelto. Ed è per questo che è un bene che Gabriele abbia deciso di portarmi via da lì. Perché, altrimenti, quel macigno di colpa che mi assale al solo pensiero mi avrebbe già fatta sparire dalla sua vista. So che dovrei farlo lo stesso. Dovrei, perché sono un mostro, e il fatto che Gabriele non lo sappia non cambierà la cosa. Ma...

"Sara?"

Gabriele è un po' più avanti di me. Di fronte a noi c'è un tratto di strada non illuminata. Mi tende una mano.

"Non è proprio ciò che un ragazzo dovrebbe ammettere per fare bella figura con una ragazza, ma... ho paura del buio".

Il suo tono è più dolce del solito e nel momento in cui incrocio il suo sguardo, capisco che non sta mentendo.

Lo fisso, incapace di muovermi: sono talmente combattuta con me stessa da non accorgermi di quanto mi sia vicino.

Non so cosa mi spinga a fare l'esatto contrario di ciò che farei di solito. Forse la sua spontaneità. Forse il freddo che si porta dentro. Non lo so. Con lentezza, tuttavia, appoggio la mia mano nella sua, e poi, senza guardarlo, faccio qualche passo in avanti. Con l'altra mano mi appoggio alla parete laterale, per orientarmi.

C'è silenzio. Le musiche dei negozi sono un'eco lontana. Quando Gabriele parla di nuovo, io comincio ad intravedere, alla fine del vicolo, qualche goccia di luce.

"È stupido, lo so". Riconosco un tono diverso da quelli che ho sempre sentito di lui. È quel tipo di tono irrazionale che prende il sopravvento quando il nostro cervello è annebbiato, quello che ci fa dire cose senza senso eppure per noi irrinunciabili da dire, al momento.

"Non è stupido. Nessuna paura lo è".

Mi secca ammetterlo, ma è così. Magari esistessero le paure stupide.

In un attimo la stretta via lascia il posto ad una strada più grande e illuminata.

Mi volto verso Gabriele. Non appena incontro il suo sguardo, lascio la sua mano. Non posso sostenere entrambe le cose.

"Lo so. Forse la cosa stupida è che non ho paura di tutti i tipi di buio. Insomma, non ho paura quando chiudo gli occhi per dormire", cerca di spiegarsi, mentre il respiro gli torna poco a poco regolare.

"Quello che mi spaventa è...".

La sua voce si spegne. Come se si fosse dimenticato quello che stava per dire.

Infine, accompagnandola con un gesto della mano, conclude la frase: "... beh, nulla di interessante. Andiamo, siamo quasi arrivati".

Il suo discorso mi ricorda molto i miei. Il buio e il freddo. Li conosco. Mi chiedo cosa significhi, e perché si sia interrotto all'improvviso. Tuttavia, non ho il tempo per rifletterci perché, non appena svoltiamo l'angolo, ci ritroviamo sulla riva di un lago.

L'aria è umida, ma fresca, e la spiaggia di sassi è illuminata da decine di lanterne ad olio che circondano una piccola trattoria.

"Hai davvero pensato a questo mentre "guidavi" la moto?", mormoro, leggermente senza parole.

Non è un posto magico o particolarmente romantico, né molto affollato. E si chiama "La Zanzara", il che è tutto dire.

Ma è un posto, e lui l'ha scelto per me.

"Sì. Ho avuto una specie di illuminazione. Ce l'ho fatta", aggiunge alla fine, con una punta di orgoglio.

"A fare cosa?"

"A sorprenderti".

Ce l'ha fatta fin dal primo momento in cui mi ha rivolto la parola di sua spontanea volontà. Ma questo non glielo dico.

"Forse", rispondo con sufficienza, seguendolo giù per la breve discesa che ci separa dalla spiaggia.

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