Nulla di personale

"Sono centoquaranta euro e dieci".

"È una bella giornata oggi, vero?"

Per una volta sono tentata di rispondere alla signora che ha appena parlato, e che ora è impegnata nell'ardua impresa di trovare il suo portafogli nella borsa: sì, oggi potrebbe essere esattamente una bella giornata.

Però il martedì è ancora lungo e non voglio rendere la mia illusione ancor più reale di quanto non lo sia già, perciò le rivolgo semplicemente un sorriso e mi perdo ad osservare l'ondata di felicità sprigionarsi dai suoi occhi inaspettatamente allegri – intuendo l'ora a cui si devono essere aperti per aver fatto in modo che la sua proprietaria si sia trovata davanti alla mia cassa alle otto e mezza del mattino con una spesa che spazia più o meno tra tutti i reparti del supermercato – mentre ricambia il mio semplice sorriso con una risata soffocata rivolta a chissà cosa, ma, sicuramente, a qualcosa di bello.

È questo che si dovrebbe provare, almeno una volta nella vita. Svegliarsi e ridere, animati da quella forza potentissima che è il ricordo: il ricordo di qualcosa di bello appena vissuto, qualcosa di semplice che non ha bisogno di nulla per tornare a provocare le stesse sensazioni di quando è stato provato, se non di un nuovo giorno per poter essere ricordato.

Ed è proprio questo ciò a cui aspiro.


∞ ∞ ∞


Gabriele Alessandro Stevens è un tipo puntuale.

Me ne rendo conto non appena lo vedo superare le porte automatiche del supermercato alle dodici e mezza in punto, come, d'altronde, ha sempre fatto. In effetti, è un dettaglio di cui non mi sono mai curata prima d'ora. Forse perché prima ero troppo concentrata su me stessa.

Non mi vede. Riporto lentamente lo sguardo sulla spesa di un signore leggermente in sovrappeso, volendo usare un eufemismo bello e buono, e leggo automaticamente, senza nemmeno rendermene conto, il prezzo.

Mentre aspetto che riempia la borsa con la spesa, mi giro verso la cassa dietro la mia.

"Patty, non è che c'è qualcosa da sistemare in corsia?", chiedo a Patrizia, la veterana del gruppo commesse, che ormai passa la maggior parte del suo tempo firmando scartoffie al fianco del capo piuttosto che restando seduta per ore su una sedia sfondata.

"Sul serio? Me lo stai chiedendo davvero?", dice distrattamente, appoggiando molto poco delicatamente il palmo delle dita sul piano di vetro di fronte a lei, nell'atto di depositarci – o spiaccicarci, se preferite – la carta fedeltà di una signora che se la riprende immediatamente, mal celando un'aria decisamente stizzita.

Patrizia, oltre ad essere ormai predisposta alla scoliosi grazie alla comodità delle sedie, è diventata anche leggermente predisposta ad un'ossessione compulsiva per il denaro: per questo non sopporta più o meno chiunque faccia una spesa inferiore ai cento euro (tipo la signora stizzita di prima) e apprezza invece a dismisura chi supera, preferibilmente di almeno cinquanta euro, questa cifra.

Inoltre, essendo un'acuta osservatrice, per non dire una pettegola spiona ficcanaso, sa sempre tutto di tutti, e, in particolare, di me ha sempre sottolineato la costanza nell'osservare i doveri dell'Ordine con un entusiasmo e una collaborazione degni del peggior condannato a morte il giorno della sua esecuzione; dovevo aspettarmi questa reazione da parte sua.

Leggermente innervosita, afferro il bordo della cassa, pronta a girarmi: "Fingi che non abbia aperto bocca", borbotto.

"Aspetta, ehi, ma come siamo permalose", brontola, fermandomi. La guardo di nuovo, sollevando il sopracciglio sinistro.

"Ho qualcosa... mi pare che ci siano dei prodotti da smistare nella taverna".

Consegno lo scontrino al diversamente magro di prima e mi alzo in fretta, dirigendomi al magazzino.

Quando torno, noto lo sguardo scrutatore di Patty scannerizzarmi da capo a piedi e ringrazio chiunque abbia voglia di essere ringraziato per il fatto che la taverna non si possa vedere dalle casse.

Quando apro la scatola, noto con disappunto che vi sono dentro soltanto dieci bottiglie. Se le sistemassi nel modo in cui sono abituata, tra dieci secondi dovrei tornarmene in cassa.

Maledicendomi per quello che sto per fare, estraggo la prima bottiglia con una lentezza esasperante. Poi raddrizzo pigramente la schiena, faccio fare qualche esercizio di stretching al collo, tiro un gran sospiro e infine osservo, tenendo per il collo il fiasco di vino, la parete di fronte a me. So benissimo dove vada sistemata, ma fingo, anche a costo di sembrare deficiente – dato che la targhetta della marca del vino che ho in mano mi è davanti al naso – di non saperlo.

Dopo qualche secondo di troppo mi assale quella sensazione, quella che il mio sesto senso mi fa percepire sempre in ritardo, e, improvvisamente, capisco di aver esattamente fatto la figura della decerebrata di fronte a Gabriele.

Che stupida.

"Ottima scelta. Dicono che i francesi siano i migliori", esordisce, avvicinandosi. Se non possedessi un ammirevole autocontrollo, sarei già diventata dello stesso colore del vino.

"Buon per chi li comprerà. A me il vino fa sinceramente schifo".

"Beh, ad essere sincero credo di poter affermare che faccia schifo anche a me, visto che l'ultima volta che ho tentato di berne una bottiglia per una scommessa ho vomitato anche l'anima".

Trattengo un'esclamazione di sorpresa e appoggio il fiasco sullo scaffale.

Gabriele che accetta questo genere di scommesse? Non lo facevo il tipo. In ogni caso, c'è qualcosa, sia nel fatto che non sia quel ragazzo tutto casa – supermercato che credevo ingenuamente che fosse prima di cominciare a conoscerlo, sia nella sua spontaneità, che mi rassicura: c'è qualcosa, in questi due elementi connessi tra loro, che mi rende, paradossalmente, più sicura di quanto non potrei sentirmi se questi elementi fossero separati. Come lo erano in Luca.

"A quanto eri arrivato della bottiglia?"

"Tre quarti", ammette inarcando le sopracciglia e sorridendo in modo autoironico.

"Non dev'essere stato un bello spettacolo".

"No, probabilmente non lo è stato, comunque hanno continuato tutti a ridere per un meraviglioso paio di minuti, quindi... beh, in fondo lo spettacolo ha riscosso un enorme successo di pubblico. Pubblico totalmente e rigorosamente ubriaco, ma, a parte questo dettaglio, pur sempre pubblico. L'unico a cui ha fatto schifo è stato il sottoscritto, che purtroppo non è riuscito a tener giù per più di un minuto abbastanza alcool da cogliere l'ilarità della situazione". Mentre parla tiene lo sguardo fisso in un punto imprecisato, leggermente più a destra dello scaffale del vino che ha scatenato la questione, e sorride distrattamente.

"Quindi si può dire che alla fine la scommessa tu l'abbia persa", commento.

"Ci puoi scommettere", afferma risoluto.

"Anche no, considerato che in questo momento hai a portata di mano almeno sei diverse qualità di vino", ribatto, scostando lo sguardo.

Gabriele ridacchia: "Non è un'esperienza che tengo particolarmente a ripetere, non preoccuparti". Poi aggiunge: "Comunque sì, l'ho persa alla grande. E questa è l'unica cosa che si sono ricordati tutti, la mattina dopo".

"E cosa avevi scommes..." mi blocco. Non so cosa mi abbia spinto a non vagliare ogni minima possibilità prima di aprire bocca, eppure l'ho fatto. Scuoto la testa, come a voler cancellare quella domanda rimasta monca: "No, non credo di volerlo sapere", concludo.

"Niente di memorabilmente grandioso", mi risponde lo stesso, dopo qualche secondo.

Riconosco quel tono di voce. È lo stesso che uso io stessa praticamente in ogni momento della mia vita. È quel tono che punta a sminuire qualsiasi cosa non per modestia, bensì perché chi lo usa è sinceramente convinto della banalità di quella cosa, qualsiasi cosa sia. Qualsiasi cosa realmente insignificante, ma, molto più spesso, qualsiasi cosa assolutamente non insignificante.

Ciò che ha fatto Gabriele è quello che "i più" definiscono assolutamente degno di nota: bere, scommettere e fare altre cose che non specifico. Eppure per lui sembra non significare nulla.

"Diciamo che ancora adesso qualcuno ha il coraggio di chiamarmi "l'eroe mancato del bevuta-party". Ecco l'unica cosa che può essere considerata memorabile", sospira, alzando gli occhi al soffitto.

"La memoria è la cosa più infida che esista", commento, ripensando a qualche giorno fa.

"Concordo pienamente", afferma. In quell'istante finisco di sistemare le bottiglie di vino sullo scaffale.

Adesso si presume che dovrei tornare in cassa...

"Sei libera una di queste sere?"

... ma oggi la giornata ha veramente voglia di scherzare con me.

Quale infernale sconquasso si liberi nel mio povero cervello nel sentire quelle sei parole uscire dalla sua bocca e fermarsi lì, immobili nell'aria, come fossero attaccate ad un filo sopra la mia testa e pesassero ciascuna mezza tonnellata, così da provocarmi in sincrono una terribile voglia di scappare e una terribile paura di muovermi, lo sa e lo saprà per sempre solo lui, il mio cervello, o meglio lei, la mia famosa amigdala, dato che credo che la sensazione che mi ha provocato tale sconquasso sia già stata presa in ostaggio dalla mia incredibile memoria. Tutto quello che rimane concesso di sapere al povero capitano della "nave" ormai in balia della ribellione più fervente – tradotto: a me – è che per poco non gli scoppio a ridere in faccia.

"Chi?"

"Tu".

"No, intendo dire... cosa?"

"Libertà. Tu associata ad un concetto di libertà una di queste sere", spiega, trattenendo a stento un sorriso, con un controllo invidiabile.

"Mi stai chiedendo di uscire?"

"Veramente non ero ancora arrivato a quella parte. Avevo intenzione di chiedertelo nel caso mi avessi risposto di sì".

Io sono sempre libera la sera. Il che, di per sé, è una cosa abbastanza deprimente, quindi direi che non è il caso di sottolinearlo.

"Beh...".

Sì.

No.

Sì.

No.

Sì. Sì. Sì... alla fine, la microscopica parte affermativa e propositiva del mio cervello, evidentemente sfuggita al controllo di quest'ultimo – il quale, come ho detto poc'anzi, in questo momento è come se fosse appena uscito da un frullatore – quella parte spudoratamente fuori controllo ha la meglio.

"Sì".

E addio, mio ormai piccolo frappè di materia grigia.

"Quindi... ti va di uscire?". Il suo sguardo, fisso nel mio, vacilla leggermente. Ed è incredibile, perché è proprio questo dettaglio che registro con maggiore attenzione e che mi fa perdere parecchi battiti cardiaci.

"Se prometti di non portarmi in un'enoteca con un'orda di ragazzi dalla pessima memoria selettiva...".

In parte scherzo, ma in parte sono seria. Ho un solo e brutto ricordo dell'unica festa alla quale abbia mai partecipato.

Immancabilmente, Gabriele sembra cogliere proprio quest'ultima parte.

"Lo giuro solennemente", dice infine, guardandomi per due lunghissimi secondi, durante i quali, anche se so che, come fa male guardare direttamente lo spicchio di Sole apparso all'improvviso nel freddo della mia notte, così fa male, ma mi è al contempo impossibile evitarlo, guardare lui, non scosto lo sguardo dal suo.

Non potrei mai dirgli di no.

Non lo ammetterei nemmeno sotto tortura, ma ogni fibra del mio essere già quando mi ha chiesto se fossi libera è andata completamente in visibilio.

Non ha molta importanza quanta paura il mio cervello stia sfornando, viste le condizioni in cui è ridotto.

Non ha molta importanza anche perché l'unica sua parte che è riuscita a rimanere integra, quella parte affermativa e propositiva di prima, mi sta convincendo con tutte le sue forze a dire di sì, e sta assumendo (egregiamente, devo dire) il ruolo di mediatore tra quel milk shake che mi è rimasto in testa e i rimanenti ribelli della "nave" nel farmi presente che il motivo per cui Gabriele può avermi chiesto di uscire potrebbe essere collegato al suo problema, e che non ci sarebbe alcun pericolo se dicessi di sì, non rischierei di rompere il mio delicato equilibrio da puntino errante, perché qualunque cosa dovesse andar male, non la prenderei sul personale, perché non c'è assolutamente nulla di personale, nulla che possa lasciarmi coinvolgere da quel cerchio.

"In questo caso, sì".

Gabriele sorride e solo adesso mi accorgo che, nel farlo, le sue spalle abbandonano una posizione... ansiosa, oserei dire, e si rilassano improvvisamente.

Anche questo particolare mi rimane, non so perché, impresso.

"Bene. Allora... venerdì?"

"Okay".

"Alle nove?"

"Alle nove". Non gli chiedo di non essere troppo puntuale, perché, come ho già capito, Gabriele è un tipo puntuale, e, comunque, non sono certo il tipo di ragazza che ci mette quattro ore e mezza a truccarsi e trentasette minuti a scegliere che scarpe abbinare al vestito o...

"Aspetta. Come devo vestirmi?"

Gabriele mi guarda e sorride. Non è un sorriso superbo o che nasconde un ghigno della serie "quale ragazza che possa essere definita tale chiede a chi le ha appena chiesto di uscire cosa deve mettersi?", cosa che sarebbe giustificata, vista la mia geniale domanda.

È un sorriso quasi curioso.

"È sconsigliabile la gonna"

"Ah, beh, non c'è pericolo", commento.

Gabriele ride: "Tutto il resto va bene".

Poi si allontana dallo scaffale.

"Allora a venerdì".

"Okay", confermo, quasi come se stessi ancora cercando di convincere me stessa.

Lui si spettina i capelli prima di girarsi e avviarsi all'uscita.

Nello stesso istante in cui si volta, mi accorgo che sapere che se ne sta andando non riesce a lasciarmi indifferente, sebbene sappia che lo rivedrò, ma anzi, instilla in me una nuova sensazione di vuoto, di solitudine.

Come se, nel momento in cui la Luna torna a coprire il Sole, io non sia più capace di riportare in pochi secondi lo sguardo a terra, ma continui a guardare là dov'era il Sole, e come se, nel farlo, mi rendessi improvvisamente conto di quanto è grande il freddo che mi circonda.

In pochi secondi, comincio ad elaborare più razionalmente queste riflessioni.

Non c'è davvero nessun pericolo?

Non c'è davvero nulla di personale?



N.d.A.

Buonasera a tutti ;-)

Ci tengo a precisare (e non so esattamente il perché, ma è un particolare che mi affascina molto) che in realtà Sara, sebbene se ne stia accorgendo con una lentezza esasperante, non potrebbe trovarsi in una situazione più personale di questa: altro che non farsi coinvolgere. Lei è già totalmente coinvolta, come avrete, immagino, intuito... spero di essere riuscita a non annoiarvi, e ringrazio ancora (e non mi stancherò mai di farlo) chi legge e chi mi supporta con i suoi commenti... se avete ogni tipo di consiglio in testa, sarò ben lieta di ascoltarlo!

A presto :-)

Bạn đang đọc truyện trên: AzTruyen.Top