Le sei di mattina

Mi sveglio e apro gli occhi: fuori dalla finestra c'è ancora buio.

Per un momento penso di essermi sognata tutto. Solitamente mi capita il contrario: mi capita di sognare qualcosa di così spaventosamente realistico da temere seriamente, una volta sveglia, che quel qualcosa sia successo davvero.

La presa di coscienza della verità, in quel caso, è molto più rassicurante che in questo.

In questo caso, la busta che conteneva la lettera è lì, poggiata sul comodino, vicino al cellulare.

Guardo l'ora: le quattro e un quarto.

Mi tiro il lenzuolo fin sopra le spalle, tornando poi a poggiare la testa sul cuscino nella stessa identica posizione di prima, con lo stesso identico sguardo puntato verso lo stesso identico orizzonte indistinto di quando mi sono addormentata e svegliata.

Rimango così fino alle cinque e mezza, quando il mio cellulare vibra.

Lo guardo: mi è arrivato un messaggio. Da Gabriele.

Dice: "Spero di non averti svegliata, Sara (nel caso, sentiti libera di lanciare qualsiasi maledizione contro quell'idiota che ti manda un messaggio alle cinque e mezza del mattino). Mi sono accorto solo adesso di come le tue chiavi di casa abbiano fatto amicizia con la tasca del mio giubbino. Fammi sapere quando posso passare a ridartele. Firmato: Gabriele, il chi – l'avrebbe – mai – detto – che – era – un – tipo – mattiniero –?".

Sorrido appena e appoggio lo schermo contro il materasso. Me n'ero completamente dimenticata. La porta del mio appartamento dev'essere ancora aperta.

Riprendo in mano il cellulare.

Quell'equilibrio si è rotto. Io sono sempre un puntino errante, ora fermo, loro sono sempre cerchi.

Mia mamma, quando chiude la telefonata che le faccio ogni settimana, mi dice sempre "Buonanotte, Sara. Noi siamo sempre qui". Loro sono sempre lì. È giusto. Sono cerchi.

Come quello strafatto che incontrai alla fermata dell'autobus. Spero, almeno, che lo sia ancora.

È da quel giorno che ho cominciato a pensare di poter imparare da loro. È adesso, però, che sento che ho realmente bisogno di salire su quell'autobus. Di salire e basta.

Ormai non ho più molte cose in sospeso dal giorno della mia fuga. Anche la madre di Luca ha fatto qualcosa, ha fatto un passo. E io sono sempre ferma, ad arrabbiarmi con me stessa.

Adesso sento di dover far qualcosa anch'io. Quel cerchio strafatto se l'è scelta, la sua strada. La madre di Luca mi ha chiesto di tornare.

Non so come mettere insieme queste due cose. Scegliere una strada, ma tornare indietro. Non lo so. Ma stavolta, se non riesco a fare nessuna delle due, non voglio crogiolarmi di nuovo nel mio egoismo. Devo imparare dai cerchi, e i cerchi si lasciano toccare, non fuggono.

Così anch'io, per una volta, voglio farlo.

Ieri volevo dire alla madre di Luca che la luce di un musicista si stava spegnendo e che mi dispiaceva che quella di Luca si fosse spenta così presto. Ora penso che l'unica luce che non ho tenuto in considerazione, l'unica che avrebbe potuto davvero salvarmi, è stata la mia. Quella che avrebbe potuto, o che forse può ancora, aiutare Gabriele. Quella che per lui è abbastanza, sebbene appartenga ad una lucciola insignificante.

I cerchi sono la ragione del loro aiuto. Forse posso esserlo anch'io. Dovrei provarci, almeno una volta.

Solo così potrò dire di essermi lasciata veramente affrontare.

"Non sei un idiota. Vieni adesso. Firmato: Sara, la non – lanterna".


∞ ∞ ∞


Gabriele non ha risposto al messaggio. Paradossalmente, però, l'ha fatto più di quanto non potesse davvero farlo in lettere.

Quando sento bussare alla porta sono le sei in punto. Mi alzo: vorrei dirgli che la porta è aperta e lasciare che sia lui ad entrare, per potermi illudere di non assumermi alcuna responsabilità per qualunque cosa dovrà succedere, ma scaccio il pensiero nel giro di un secondo. Sarebbe solo, come ho detto, un'illusione.

Abbasso la maniglia e apro la porta: Gabriele, stavolta, non dice niente. Sorride appena, quasi involontariamente. Mi scosto e lo faccio entrare.

L'atmosfera delle sei di mattina è strana: sembra tutto in stallo, come se ogni cosa fosse sospesa tra la notte e il giorno, come se ogni cosa non volesse decidersi ad accadere.

"Non pensavo che sarebbe mai successo", mormora Gabriele. Sposto lo sguardo dalla finestra, sbattendo un paio di volte le palpebre: "Cosa?"

"Questo". Mi guarda e sorride di nuovo, di nuovo involontariamente. Stavolta la vedo, la vedo davvero quella tristezza sulla quale mi sono spesso interrogata. E solo ora capisco che non sta nel suo sguardo, né nel suo sorriso.

Mi faccio coraggio, quello vero, e muovo alcuni passi verso di lui. Esito, poi entro in camera. Gli faccio cenno di seguirmi. Mi siedo contro il bordo del letto, sul tappeto, e lui fa lo stesso.

"Guarda", mormoro.

"Che cosa?"

"Non lo so. Quello che vuoi".

Mi perdo un po' via ad osservare le nuvole rincorrersi nel cielo e solo quando distolgo lo sguardo mi rendo conto di essere l'unica ad averlo mai degnato alla finestra. Gabriele sta guardando me.

Potrei scommettere che il mio sesto senso l'abbia fatto apposta anche stavolta a starsene zitto. L'ho insultato fin troppe volte per non subirne la ripicca. Ripicca che, tra parentesi, manifesta sempre quando c'è di mezzo Gabriele.

Anche se ora non mi importa più di tanto. Ora che lui si sporge un po' e poggia le labbra sulle mie, in quello che, d'improvviso, alla debole luce delle sei di mattina, ora che non ho più nulla, più nessuna zavorra che mi lega al passato, in quello che non mi arriva come un bacio, ma come le mie sei di mattina. O meglio, come un invito a lasciarle arrivare, a lasciare che il mio buio svanisca, poco a poco.

"Posso rimanere?", mi chiede, qualche secondo dopo.

La sua domanda mi lascia basita.

Non dovrebbe essere lui a chiedermelo. Non secondo la mia teoria. Eppure annuisco.

L'atmosfera alle sei di mattina rende il silenzio meno teso. Più terso. In tutti i sensi. Lo rende semplice, meno carico di aspettative, vago, non finalizzato ad essere spezzato.

Per questo, quando Gabriele lo spezza, mi sento libera e svincolata da qualsiasi timore nel rispondergli. Perché credo nelle sei di mattina, in un certo senso.

"A cosa stai pensando?".

"Ai... bicchieri".

"Ai bicchieri?"

"Sì".

Dopo qualche secondo arriva la domanda che mi aspettavo: "Bicchieri in che senso?"

"In senso metaforico".

Gabriele ridacchia: "Okay, adesso ti riconosco".

Mi volto a guardarlo, corrucciando la fronte: "Perché?", ma lui non mi risponde e scosta lo sguardo dal mio.

"Tu come lo vedi il bicchiere?"

"Come?"

"Il bicchiere. Mezzo pieno o mezzo vuoto?".

Sorrido. Non so bene in che modo, ma sorrido, lasciando che l'amarezza si nasconda, per una volta, dietro la pura e semplice verità.

"Mezzo vuoto. E l'altra metà solitamente la immagino ripiena di qualche bevanda che mi fa schifo, tipo aranciata o Coca Cola".

Gabriele sorride e scuote la testa. La sua spalla tocca la mia.

"Riesci sempre a stupirmi, Sara".

"Perché sono molto più pessimista di quanto ti aspettavi?"

"Certo che no. Perché non ti piace la Coca Cola", mi risponde, abbassando il capo e sollevando l'angolo della bocca. Mi strappa un sorriso, vero, stavolta.

Lascia passare qualche secondo prima di dire, più seriamente: "Non hai una grande considerazione della tua vita".

"Non proprio", confermo, forse fin troppo sinceramente.

"Credi che riuscirai a tornare a vederlo mezzo pieno?". Percepisco l'asse della conversazione spostarsi verso di me. Non è questo che volevo. Sento le lancette tornare indietro, verso la notte.

"Chi ti dice che l'ho mai visto così?"

"La ragazza che era seduta di fronte a me l'altro ieri sera".

"Quella ragazza non esiste. Lo dici soltanto perché le circostanze ti inducono a farlo, tutto qui", mormoro.

"Quali circostanze?"

"Il cielo azzurro, il silenzio, l'atmosfera delle sei di mattina. E la convinzione che ogni cosa sia bellissima solo perché puoi immaginare che lo sia e che lo sia sempre stata".

"Le circostanze non cambiano i principi*, Sara, e tu sei, per principio, molto più di quello che riuscirei anche solamente ad immaginarmi, se mai volessi farlo, nell'arco di tutta una vita".

"E questa perla di saggezza da dove spunta?", mormoro, tenendo lo sguardo fisso sulla finestra, il cuore che mi rimbomba nelle orecchie.

"La prima parte da Socrate. La seconda è tutta farina del mio sacco".

"Più che farina, zucchero", commento, senza tanti filtri. Non credo ad una sola parola di quello che ha detto. Però l'ha detto, e ciò non può non farmi effetto.

Gabriele rimane in silenzio.

"Non sono nulla di speciale", buttò lì, alla fine.

"Sei passata dall' ineluttabile nulla all'intramontabile nulla di speciale. Interessante".

"Sì, non spicco esattamente per originalità".

"Dunque non sei nemmeno nulla di originale. Se continuiamo così, per sottrazione arriveremo, presto o tardi, a capire di che cosa sei un qualcosa. Secondo me presto, comunque".

Gabriele non sta fingendo. La sua testardaggine è talmente spontanea nel mostrarsi che non può essere finta, e non può nemmeno non toccarmi, a questo punto. Anche se non vorrei, quindi, sono costretta a voltarmi verso di lui. Ma ho troppe parole sulla punta della lingua, e troppe poche parole scritte su quella lettera, per dire ciò che gli avrei sicuramente detto se tutte loro, se tutte quelle parole, non fossero mai entrate in questo appartamento. Per questo dico le uniche che non appartengono a questo appartamento, né al supermercato, ma a me.

"Da quando sono qui, ho sempre pensato che uno dei miei principi dovesse essere quello di non essere mai qualcosa di definito".

"Da quando ti conosco, ho sempre pensato che uno dei miei principi dovesse essere cercare di convincerti a cambiare i tuoi e farti vedere il bicchiere mezzo pieno. D'acqua".

"Questo non è un vero principio", controbatto senza pensare.

"Nemmeno i tuoi lo sono".

"Ma tu sei una circostanza, Gabriele. Ti stai contraddicendo. Anzi, stai contraddicendo Socrate, a voler essere precisi". Non appena smetto di pensare a quanto la sua affermazione, in effetti, fosse contradditoria a quella di Socrate, mi rendo conto di quello che ho detto prima.

Gabriele non è la mia destinazione, ed è vero, questo l'avevo già detto. Solo, non avevo mai pensato che potesse essere una circostanza. Perché le circostanze se ne vanno, ad un certo punto.

"Lo so", dice lui, a bassa voce. "Ma vorrei lo stesso vederti felice".

Una strana consapevolezza tinge il mio sguardo, assieme alle mie guance.

"È per questo che sorridi così spesso?". Gabriele, detto fatto, sorride spontaneamente.

"Forse. Non lo so. È per questo che credi di aver toccato il fondo?"

Raddrizzo la schiena e reprimo l'impulso di guardarlo, in un modo che rivelerebbe davvero troppo, inghiottendo respiri.

"Per cosa?"

"Per credere più alle circostanze che ai principi, ormai. Per rifiutarti di sorridere".

Succede così, all'improvviso: di colpo, capisco.

"È per questo che tu credi di non averlo ancora toccato? È per questo che hai deciso di affrontarmi?"

Se Gabriele crede che toccare il fondo significhi non sorridere più, allora è a questo che si sta preparando. A non sorridere più. Ogni pensiero saetta nel mio sguardo come se lo stessi esprimendo a voce, e Gabriele segue ogni lampo con estrema attenzione, gli occhi nei miei, fin quando, alla fine, una cosa la dico: "Perché me?".

E finalmente lui mi risponde: "Perché non avevo alcun motivo per sceglierti".

Mi accorgo solamente di una cosa prima di guardarlo in volto: di come il silenzio non mi sia mai sembrato tanto pieno.

Così, io ho sempre voluto scrollarmi di dosso il peso di ogni responsabilità, ho sempre voluto tenermi dentro ogni cosa, dopo Luca, mentre Gabriele ha sempre voluto fare l'opposto, ha sempre voluto varcare la sua circonferenza. E non per misericordia nei miei confronti. Perché ha sempre creduto in me.

E non credevo, sinceramente, che sarebbe mai potuto succedere. Per questo, anche se sono troppo stanca delle parole, ne dico altre.

"Io non credo, sai, che si possa toccare il fondo. Perché non c'è nessun fondo. Siamo persone, non barili".

E, immediatamente, penso che la responsabilità che si è voluto prendere, quella che non ha potuto assumersi per la malattia di suo padre, ne sono certa, quella che gli ha permesso di salvare una lucciola, riponga il suo senso in questo. La responsabilità può farti cadere, affondare: se noi fossimo barili, questo non potrebbe succedere. Ma la responsabilità può anche accendere ogni persona, tener viva la sua fiamma: se noi fossimo barili, al contrario, riuscirebbe soltanto a bruciare le nostre grezze assi ricurve di legno.

"E la morte?", mi chiede. Lo guardo a lungo prima di rispondere, come non avevo fatto mai prima d'ora.

Nascondo anche la paura, assieme all'amarezza, dietro alla verità predicata prima. Poi lo dico.

"La morte è qualcosa di troppo ignoto persino per poter essere definito. Io credo che quel qualcosa non potrà mai essere semplicemente confinato sul fondo di un barile. Mai. Soprattutto se qualcuno gli sarà vicino, a tenergli la mano. Ad affrontare il buio. E ti assicuro, Gabriele, che non sarei mai riuscita a dire queste cose se non sapessi che tu sei la miglior persona per affrontarlo. Parola del buio. In persona".

Anche Gabriele, ora, mi guarda a lungo prima di dire qualcosa. Io, nell'attesa, rimango a fissarmi le ginocchia, incapace di fare altro.

"Vorrei poterci credere. Vorrei crederci, davvero, ma non ci riesco".

Ed ecco che, in quelle tre frasi sconnesse, mi sembra, all'improvviso, di vedere riassunto alla perfezione il mio ultimo anno di vita.

Potrei dirgli che lo capisco. Però non è così.

Potrei dirgli che non dovrebbe pensare continuamente di non farcela, ma sarei leggermente ipocrita.

Potrei dirgli, invece, che ci riuscirà, ma nessuno ne ha la certezza, ed io sono l'ultima persona che può dargliene una. Io, che non sono nemmeno sicura di quale paia di calzini indossare la mattina.

Potrei dirgli che non ce n'è bisogno, che non c'è bisogno di crederci per farcela.

Ma non è vero.

Così come non è vero che potrei dirgli una di queste cose, nemmeno ipoteticamente parlando, perché a me, ormai, non appartiene più alcuna parola. Perché ormai non ho più nulla dietro cui nascondermi: non ho più dodici lunghi mesi di silenzio alle mie spalle, né ho più la musica. Solo ora prendo coscienza di come ogni giorno sia un nuovo passato anche per me, come ha scritto Giorgia, e di come io abbia, fino adesso, vissuto in virtù del passato remoto di un momento dal quale mi sono sempre illusa d'essere fuggita, mentre, in realtà, lui stesso sarebbe comunque fuggito da me. Mentre lui non mi ha mai rincorso, ed io, al contrario, mi sono sempre comportata come se avessi voluto farlo.

Quindi no, da me non viene più alcuna parola. Perché ormai non posso più assimilare, elaborare e lasciar spiccare pensieri su altri senza che uno di loro mi costringa ad accettarne uno inaccettabile. Ossia che io ho sempre saputo di non essere un barile, ma mi sono sempre comportata come tale.

Tanto freddamente calibrata da rimanere a galla quanto piena di sensi di colpa da bruciare.

Dopo ciò che ho detto sulla morte, capisco che non posso più fare niente per Gabriele.

Vorrei che il silenzio potesse parlare. In questo momento, forse, riuscirebbe a spiegargli ogni cosa. Ad esempio perché non l'ho spezzato per dire qualcosa, per dire uno di quei "potrei". Ma il senso non è questo, e non lo è mai stato. Faccio una sola cosa, che la consapevolezza di tutto questo lungo giorno, che sebbene sia cominciato da sole sei ore sembra essere durato già il quadruplo, mi permette di fare, alla luce delle sei di mattina. Incrocio le mie dita alle sue.

Gabriele non se l'aspettava, ma dopo qualche secondo fa scontrare il palmo della sua mano contro il mio. Rimaniamo così, in stallo.

Poi, il tempo di rendermi conto che ormai le sei di mattina sono passate da un pezzo, e Gabriele è fuori dal mio appartamento. L'ultima cosa che gli dico è: "Me lo dirai?".

Lui annuisce.


∞ ∞ ∞


Quindici giorni dopo mi arriva un messaggio. Sono le sei del mattino. Non c'è testo. Sullo schermo appare semplicemente una pagina bianca.

Una pagina bianca che, in realtà, è nera come il buio.



*Devo questa frase (che riassume il concetto socratico alla perfezione) ad una mia cara amica, che me l'ha ricordata durante un normalissimo giorno di scuola, senza la quale (senza la frase, ma, soprattutto, senza l'amica), questo capitolo non sarebbe mai venuto alla luce. In tutti i sensi.










N.d.A.

"Fly By", che si è conquistata col tempo vita propria ed esigenze altrettanto personali che la mia testa, ossia la sua casa, si è trovata per forza di cose costretta ad assecondare, non è nata, in realtà, con l'intento di mostrare un cambiamento radicale in Sara tramite eventi eccezionali tali da ribaltare le carte in tavola da un momento all'altro: spero, quindi, che questo capitolo non abbia dato quest'effetto. Un cambiamento in Sara c'è stato, ed è innegabile, ma gran parte di esso è scaturito dalle sue proprie potenzialità, attuate grazie all'aiuto, certamente, di Gabriele ed Elisabetta in particolare. Quello che volevo dire, però, è che ogni particolare ha contribuito a maturare le sue riflessioni, dal primo fino a questo capitolo, ed è stato proprio questo a portarla fin qui, fino a lasciarsi affrontare, fino ad un passo (il più difficile) dalla fine dello squarcio della sua vita che "si è voluto lasciar descrivere" dalla sottoscritta e che ora, come si è capito, sta ormai per chiudersi. È per questo, dunque, che, per tornare, deve prima capire di non essere "fuggita" invano. Di aver imparato qualcosa. Non sopporterebbe l'idea contraria. Per questo decide di chiamare Gabriele.

In realtà, per credere davvero in una storia e (soprattutto) in quello che dice, c'è bisogno di credere che continuerà anche dopo la parola "fine": io stessa, onestamente, ho bisogno di farlo. Chiamatela ingenuità o ottimismo sprecato, ma è così. È questa la ragione del titolo del capitolo: aprire uno "squarcio" (che più che ad uno squarcio assomiglia ad una di quelle fenditure che si usano per dimostrare sperimentalmente il fenomeno della diffrazione, giusto per dare un'idea della sua metaforica grandezza) nello squarcio.

Che poi, non ho idea di quando Sara riuscirà davvero a guardarlo in faccia, questo "squarcio" ... perché osservare il quadrato di luce che il vetro di una finestra riflette sul pavimento è una cosa, ma uscire di casa e sentire il sole sulla pelle è tutta un'altra storia... ecco, appunto, un'altra storia, che non è "Fly By".

La smetto, giuro.

Anzi, un'ultima cosa (e poi la smetto davvero, giurissimo).

Non so se sia riuscita a fare di Sara un buon personaggio, ma c'è una frase che, per quanto forse eccessivamente buonista, credo rappresenti meglio di mille mie contorte spiegazioni ciò che vorrei dire, e che spero che in qualche modo Sara, la cinica e disincantata Sara così contorta, sia riuscita ad esprimere, affrontando i suoi pensieri in silenzio. La riporto, e ringrazio di cuore ogni lettore e ogni scrittore che passa o è passato di qui ;-)

"Good people are like candles: they burn themselves up to give others light".

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