Lasciarsi affrontare

"Entra".

Avete presente quando uno di quei professori stronzi dentro ti interroga e tu non sai un emerito nulla e le prime parole che dici, contro la tua volontà ma spinto da quell'istinto primordiale di conservazione della dignità che ti impedisce di restartene muto come una cozza, sono quattro sillabe spiaccicate pienamente a caso che, ovviamente, non c'entrano mai un'acca secca con ciò che dovresti teoricamente dire, e non appena le dici ti accorgi che non riusciresti ad articolarci sopra un discorso nemmeno se avessi a disposizione un'intera era glaciale e l'edizione integrale della Treccani, e l'unica cosa che vorresti è rimangiarti tutto, ma non puoi, sempre per quel discorso riguardante l'istinto per la conservazione della dignità, e rimani lì, a bombardarti di imprecazioni mentali rigirandovi come una frittata, tra un "ma porca" e l'altro, quelle quattro sillabe senza colpa, chiedendoti per quale turba mentale tu abbia potuto pronunciarle, e nel frattempo quel famoso professore stronzo dentro non favella, manco avesse una patata strozzatagli in gola, e riesce ad uccidere definitivamente anche il tuo istinto di conservazione della dignità, per cui ti ritrovi ad impanicarti e a prepararti a restartene, alla fine, davvero muto come una cozza?

Bene.

Ora sono ufficialmente impanicata.

Il ricordo di una situazione molto simile a quella appena descritta, vissuta da me medesima due anni fa, mi torna in mente nel giro di qualche secondo - e grazie tanto amigdala, che scegli sempre i momenti più opportuni per rivangare certe memorie - ossia il tempo che Gabriele impiega per chiudere la porta e Minù per sfuggire alla mia presa e rifugiarsi sotto il mio letto, lasciandomi sola e senza alcun espediente per poter deviare l'attenzione da me e da qualsiasi futura conversazione, che, a questo punto, senza un gatto maschio con un nome da femmina sul quale parlare, si arenerà in mezzo secondo, secondo le mie ottimistiche previsioni.

Mi rigiro lo straccio bagnato tra le mani. Non voglio guardarlo, ma so che devo farlo, prima o poi, e preferibilmente prima, onde evitare che venga una bella polmonite ad entrambi, così alzo lo sguardo.

E non incontro il suo.

Stupita, guardo quello che sta osservando: l'imbarazzo e il panico della situazione svaniscono per lasciare il posto ad una sensazione psicologicamente ancor più debilitante e, come dire, indescrivibile.

Ho due sole foto esposte nel mio appartamento, sulla mensola impolverata che sta all'ingresso.

Nella prima ci sono io che sorrido, mostrando un bellissimo apparecchio ai denti, con la mia famiglia. La seconda invece è una foto della mia classe, scattata pochi giorni prima dell'incidente. Sono in piedi al fianco di Luca.

Il fatto che non sia ancora fuggito e che non abbia un'espressione schifata in faccia già mi dice che non è un ossessionato dell'ordine o della polvere, che non gli faccio vomitare, nemmeno con l'apparecchio ai denti, e che è curioso.

E che mi sta guardando, inconsapevolmente, molto più di quanto non potrebbe fare guardandomi in faccia.

"Credo che non possano subire una metamorfosi semplicemente grazie all'intensità di uno sguardo. La mia dignità avrebbe già provveduto, se fosse possibile".

Gabriele si volta verso di me, come se fosse appena uscito da uno stato di trance, e sorride distrattamente: "non sono così male".

"Lo sono, invece. E ti darei qualcosa di asciutto anche se mi dicessi che assomigliavo alla nipotina del dentista di Nemo, non preoccuparti".

Gabriele sorride: "magari con un paio di occhialoni...", e si capisce che sta pensando esattamente il contrario.

O almeno, io lo capisco talmente al volo che questo basta a destabilizzarmi. Mi volto ed entro in camera, aprendo l'armadio. Ne tiro fuori una felpa blu: l'ho rubata la sera prima di andarmene dall'armadio super inaccessibile di mio fratello, giusto per mettere in chiaro che avermi fatto pagare l'affitto di quella stessa felpa è stato un gesto che la mia mente complessata da adolescente complessata – come soleva riferirsi alla mia persona – ha interpretato più o meno come un invito a togliergliela dai piedi per non lasciare che la mia essenza da adolescente complessata rischiasse di impregnare e imputridire i suoi altri vestiti.

Prendo anche un asciugamano pulito, chiudo l'anta e me lo ritrovo a qualche passo di distanza. Gli do il tutto.

"Se vuoi, il bagno è di qui, ho un phon e..."

Non faccio in tempo a risollevare il capo che si sta già infilando la felpa.

"Grazie, ma credo che i tuoi capelli necessitino del phon molto più dei miei".

Giusto. Il mio mocio personale ha bisogno di essere strizzato.

"Faccio subito. E...".

Come si dice? Fai come se fossi a casa tua? No, non voglio che faccia come se fosse a casa sua. E cosa voglio?

"Ti chiudo le finestre? Sta piovendo dentro..."

Per questo momento, ringrazio letteralmente il cielo.

"Sì. Grazie", e poi mi dileguo in bagno.

Quando esco, pochi minuti, una maglietta asciutta e uno chignon alto dopo, lo trovo seduto sul divano.

Minù gli sta facendo le fusa, tanto per cambiare.

"Sara, credo che Minù si sia innamorato di me. Il problema è che l'unica cosa di femminile che possiede è il suo nome, a quanto ho capito".

"A quanto hai capito tu, ma evidentemente non lui", commento.

Allora qualche incertezza esistenziale sessuale ce l'ha. Interessante...ma su questo rifletterò in seguito.

Ora ho un ragazzo seduto sul divano del mio appartamento con i capelli ancora mezzi bagnati e il mio gatto tra le braccia che mi sta guardando.

Mi siedo anch'io, sulla poltrona vicina, incrociando le gambe per sembrare un filino più disinvolta di quanto non lo sia affatto.

"Sbaglio, o questa situazione ti mette a disagio?".

"Rendo onore alla tua geniale perspicacia", gli rispondo in fretta, in modo molto poco convincentemente acido.

Gabriele rimane in silenzio. Con la coda dell'occhio, però, noto che lancia un'occhiata alle fotografie alle mie spalle, prima di tornare a guardarmi.

"Che ne dici di ricominciare?"

"Quando mai abbiamo iniziato?", ribatto svelta.

"Mi pare fosse un lunedì".

Non riesco a trattenermi: "E a me pare che tu sia il ragazzo che mi chiese informazioni sul "reparto" dolci e io la ragazza che praticamente lo ingiuriò per aver rischiato di essere investito da un autobus", mormoro, cercando di risultare abbastanza chiara nel mio intento di autodefinirmi la ragazza meno indicata per lui se ha intenzione di dilettarsi nel cercare di fare amicizia con qualcuno, o, perlomeno, se ha intenzione di farlo seguendo un tipo di approccio normale.

"Splendida capacità mnemonica", conferma, lasciandomi un po' interdetta e un po' sorpresa.

"Scusa, ma chi te lo fa fare?". Mi accorgo di aver parlato nel momento in cui Gabriele smette di accarezzare Minù e, per un attimo, mi guarda come se stesse cercando di scoprire cosa si nasconda dietro i miei occhi neri come la pece.

"Non lo so", risponde alla fine, sinceramente.

"Non sai chi ti stia ricattando per farlo?", ritento.

Certo che tu, Sara, sei veramente l'effigie della fiducia in sé stessi.

Gabriele sorride, l'angolo della bocca piegato all'insù: "Sei testarda, Sara. Però non so ancora il tuo cognome", dice, deviando dall'argomento.

Evidentemente ha già capito che cercando di convincermi di qualcosa di cui io stessa non sono affatto convinta si potrebbe andare avanti all'infinito senza ottenere nulla.

"Nemmeno io".

Gabriele mi porge immediatamente la mano: "Stevens".

Anche un cieco noterebbe la riluttanza nel mio sguardo, perciò aggiunge: "Se vogliamo ufficializzare la cosa, la stretta di mano è indispensabile".

Gliela stringo e, ovviamente, mi accorgo che la mia ha una temperatura inaccettabilmente bassa.

Strano, ma vero, ho sempre le mani fredde, anche se questa è l'unica volta in cui rendermene conto mi sta provocando esattamente l'effetto opposto.

"Marchesi", mormoro.

Ricominciare. Sono davvero pronta? Gabriele non è Luca, certo, ma non conosce nemmeno un ventesimo di ciò che io conosco di me, che poi, in pratica, è un ventesimo di ciò che sono veramente.

"Gabriele...".

"Sara".

Dunque, questo sarebbe il momento adatto per sparare una profonda frase ad effetto, diventare l'emblema della sapienza e fare la figura di quella "ragazza timida ma con il mare dentro" famosa.

Eppure, manco a dirlo, di frasi ad effetto nella mia mente, in questo momento, non ce n'è nemmeno l'ombra.

"... sono una commessa", dico infine, sganciando la mia perla di saggezza.

"E io un povero studente in crisi. Direi che il concetto di perfezione e felicità non è per nulla contemplato dal mio vocabolario mentale", replica prontamente.

La sua spontaneità mi spaventa da un lato, ma m'incuriosisce da morire dall'altro.

E questo è un problema, Sara?

"In questo caso, direi che il tuo vocabolario mentale è parente del mio", dico, e, senza accorgermene, sorrido debolmente al pavimento. Il rumore della pioggia che di colpo si affievolisce mi fa rialzare gli occhi.

"È meglio che vada. Ti ho già disturbata abbastanza", mormora, scostandosi delicatamente Minù dalle gambe. Prima che me lo dica lui, lo precedo: "Puoi tenerla. La felpa. A me non serve".

Gabriele mi guarda con una strana espressione in viso, forse sorpreso perché l'ho anticipato, o forse per qualche altro motivo a me sconosciuto.

"Sono in debito", risponde.

"Certo. Mi devi ancora una risposta", articolo, sollevando leggermente un sopracciglio.

È lui che ha detto che sono testarda, mica io.

"Allora ci vediamo martedì", dice, sebbene non riesca a recepire del tutto le sue parole – perché ancora non riesco a credere a quanto stia succedendo.

"Un vero martedì?". Mi volto a guardarlo. Gli sfugge di nuovo un'occhiata alle fotografie, anche se ancora non capisco a quale delle due sia più interessato, e uno sguardo triste pennella il suo solito sorriso.

"Spero proprio di sì".

Quelle sue ultime parole mi fanno capire di essere già parecchi passi più vicini alla risposta. Anche se, adesso che sono anche distante pochi passi concreti da lui, mi rendo conto dell'enorme differenza che c'è tra il ragazzo che vedevo sempre il martedì, in felpa e jeans, e questo ragazzo, che è vero e così... vero. Vero e basta. E difficile.

Vorrei rispondergli che lo spero anch'io, ma rimango zitta e lo saluto con un misero sguardo.

Quando la porta si chiude, non posso fare a meno di chiedermi, ancora una volta: perché?

Perché un ragazzo come Gabriele Alessandro Stevens dovrebbe interessarsi di una commessa dalla pelle pallida, dagli occhi neri e dai capelli dello stesso colore, di un semplice puntino errante?

Stringo il cuscino al petto e un secondo dopo lo scaglio contro la parete, arrabbiata.

Arrabbiata con me stessa, perché ho sempre paura di quello che potrebbe succedere; perché, ora che ho visto un raggio di sole sfuggire all'eclissi che ho osservato per così tanto tempo, ho solo voglia in parte di nascondermi da esso, in parte di affrontarlo; e, infine, perché mi sento talmente divisa tra una possibilità e l'altra da sentire finalmente qualcosa, ma un qualcosa che mi spaventa profondamente.

È un circolo vizioso.

Il fatto è che ho freddo da così tanto tempo che non penso di meritarmi il caldo. Lo raffredderei solamente e non voglio, non voglio questo.

Minù si accoccola sul cuscino, chiudendo gli occhi quasi subito.

La giornata dev'essere stata alquanto strana anche per lui. Avrebbe potuto morire, e invece è ancora qui.

Perché? Qualcuno potrebbe dire per una serie di fortunati eventi. O per coincidenze.

Ma io non credo nelle coincidenze.

Ciò che succede, succede sempre perché qualcuno decide, in un momento, di affrontare qualcosa: qualunque cosa si affronti ha alle spalle una scelta dalla quale deriva, una scelta che, da qualsiasi persona venga affrontata, implica un dubbio e, forse, un problema, alle spalle di chi l'affronta.

E oggi, chi ha affrontato qualcosa non sono stata di certo io, ma è stato Gabriele.

Appoggio la testa allo schienale della poltrona.

Forse ho sempre inconsciamente pensato che i cerchi non avessero nulla da affrontare. Che avessero tutto ben chiaro, e che i problemi fossero solo di chi ha smesso di guardarsi dentro, dei puntini erranti.

Eppure, comincio a credere che forse chi ha scelto di non guardarsi dentro ha scelto semplicemente la strada più facile, lasciando tutto il resto fuori da sé per osservare gli altri. Gli altri, che per affrontare qualcosa hanno tutto un perimetro e tutto un cerchio da mettere in discussione, a differenza di me, che non ho nulla e, nonostante ciò, ho comunque paura e resto ferma, nel mezzo.

È proprio vero. Io non ho nulla da insegnare ai cerchi. E ora, grazie ad uno di loro, ho appena scoperto cosa si nasconde dietro a ciò che sono abituata a vedere di loro, ossia dietro la parte perfetta e diversa da me, che ho sempre, in fondo, invidiato e abbandonato. Come ho fatto con la mia famiglia, con Luca, con tutti.

Ciò che si nasconde dietro di loro è molto di più e forse è molto più vicino a me di quanto io creda.

Non ho nulla da insegnare ai cerchi, ma da loro posso imparare.

E, forse, l'unica cosa che posso fare è lasciarmi affrontare da uno di loro, tanto per cominciare.

O meglio, tanto per ricominciare.



N.d.A.

Buongiorno a tutti ;-) Vorrei subito cominciare con una breve – che poi diventerà abnormemente prolissa- spiegazione riguardo alle ultime due frasi. Quando Sara dice di volersi "lasciare affrontare", è come se stesse accettando il fatto di lasciarsi avvicinare da Gabriele, perché è riuscita a intuire che ciò che potrebbe averlo spinto a venire da lei sia un problema, e , sebbene non abbia idea del perché sia venuto proprio da lei, ma, anzi, forse proprio per questo, è come se si sentisse in qualche modo "in dovere" di non allontanarsi da lui, di non spaventarsi, per non risultare d'intralcio al suo problema, per "aiutarlo", aspettando di vedere ciò che potrebbe succedere se smette per un po' di errare e si ferma di fronte ad un cerchio, e si lascia, appunto, da lui affrontare... certe volte, spesso quando non ce ne accorgiamo nemmeno, sono gli altri ad aver bisogno di noi, ed è veramente un peccato lasciare che le nostre insicurezze, o il nostro egoismo – talvolta il confine tra di essi è molto labile – ci allontanino da loro.

Chiusa la parentesi proto-filosofica, che a quanto vedo ora che la rileggo, mi sono impegnata a fare il più contortamente possibile – e per questo vi chiedo immensamente perdono, ma la mia dev'essere una malattia incurabile... – dicevo, ringrazio coloro che leggono in silenzio e commentano. 

Grazie mille ;-)

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