La teoria del puntino errante
Sono sempre stata profondamente legata alla gente.
Potrebbe sembrare la frase più contraddittoria tra le più assurde frasi contraddittorie della storia, ma è così.
Ho una teoria, e sarò breve: parola di commessa subordinata al Supremo Ordine Delle Brave Commesse.
Se le persone fossero cerchi, avrebbero di certo milioni di sfumature diverse al loro interno, ed è così che apparirebbero a chi percorre il loro perimetro senza mai addentrarsi verso il loro centro, che agli altri rimarrebbe comunque profondamente irraggiungibile.
Quando però una persona smette di interessarsi dei suoi cambiamenti, quelli delle vite attorno a lei diventano quasi impossibili da non notare, ed è così che diventa un puntino, un puntino errante che scivola sui loro perimetri, incessantemente, rimanendo sempre uguale, pur continuando a muoversi mentre tocca e fugge quasi contemporaneamente (perché le vite sono tante) i cerchi che, immobili, mutano vorticosamente ogni giorno.
Ecco, la mia parte, in suddetta teoria, è quella del puntino errante. Il mio percorso è più o meno sempre quello, ma la gente cambia continuamente. E, senza tutte quelle vite, mi ritroverei completamente all'oscuro di ogni cosa.
Per questo, sono sempre stata profondamente legata alla gente.
Il punto è: che succede se il puntino errante entra in gravitazione di un solo cerchio? Che succede se si mette a percorrere il suo intero perimetro lasciandosi trascinare verso il suo centro?
Non posso saperlo, perché non mi era mai successo prima d'ora, prima che un ragazzo avesse bisogno di non so cosa per fare un qualche tipo di dolce e mi chiedesse quello che mi ha chiesto e da dove è cominciato tutto. O niente. E per di più, di lunedì. Eh sì, perché è per quello che, a pensarci meglio, è cominciato tutto. O niente.
La ragazza che sta dietro alla vetrina davanti alla quale sono ferma da ormai qualche minuto riattacca la cornetta al telefono come se volesse incollarcela sopra.
Sembra arrabbiata, o seccata. Gli occhi le luccicano, e non è un effetto del vetro che ci separa: sono un'esperta di princìpi di pianti.
Deduco, di conseguenza, che di certo la telefonata non era per una questione di lavoro. D'altronde, come potrebbe esserlo? Fa la commessa in uno dei negozi di vestiti più in del centro commerciale.
Mi chiedo, allora, come mai una persona dovrebbe arrivare a far star male in quel modo un'altra persona.
Su questo versante sono un po' ingenua, lo ammetto, perché per lo più io mi faccio del male da sola (solo psicologicamente, non fraintendete), e anche quando potrebbe sembrare che sia colpa degli altri, o quando semplicemente è colpa degli altri, tendo sempre a scusarli e ad incolpare la sottoscritta.
Non so esattamente il perché. È come se mi sentissi costantemente in debito col mondo intero.
Cioè, probabilmente tutti lo siamo, ma se partissi ogni volta per la tangente filosofica potrei arrivare ad affermare che nulla esiste o che tutto ciò che è esiste è falso*, quindi meglio evitare.
"Ciao".
Mi volto di scatto e mi ritrovo colui che ha appena rischiato di farmi prendere un infarto (e l'esercito degli organi potenzialmente ammutinabili si espande) a qualche centimetro dal viso.
Mi allontano senza nemmeno accorgermene.
"Ciao", gli rispondo comunque. Lui sorride: "Che ci fai qui?"
"Ci lavoro" dico, di nuovo quasi senza accorgermene. Gabriele alza un po' il mento e poi ruota leggermente la testa verso la sua sinistra, cioè la mia destra, anche se non so perché stia specificando questo inutile e trascurabile dettaglio. Né perché abbia notato quel suo stesso gesto.
"Penso di essermi espresso male; con "qui" non intendevo "qui" nel senso più generico del termine, cioè tipo "qui" nel mondo o "qui" al centro commerciale, bensì "qui" in questo metro quadrato di pavimento, davanti a questi tre metri quadrati di vetrina", dice, esprimendosi meglio.
"Faccio un giro", e cerco di non guardarti. Ovviamente queste cinque paroline le ometto, poiché altrimenti non rispetterei la successione lineare di termini linguistici che ho involontariamente adottato da quando gli ho detto "ciao" (una parola), "ci lavoro" (due parole) e "faccio un giro" (tre parole).
Esclusivamente per questo motivo.
"Quindi hai finito di lavorare", butta lì.
"No, sono in pausa". E quattro.
Aspetto che dica qualcosa, ma niente. Non so che fare. Dovrebbe andarsene, e invece se ne sta lì a guardare la vetrina.
Forse dovrei andarmene io, ma se lo facessi dovrei tornare al supermercato, e non muoio dalla voglia.
"Deve piacerti molto quel vestito", continua. Lo guardo interrogativamente.
"Lo stai fissando da un bel po'".
In realtà non so nemmeno di che colore sia. Lo sto fissando, sì, ma solo per non fissare il pavimento sporco di cicche, o la commessa triste. O lui.
Gli do un'occhiata più attenta: è giallo acceso, senza spallini, lungo e stretto, e termina a sirena. È orribile. E questo non posso proprio evitare di dirlo.
"Mi piacerebbe solamente se fossi cinquanta chili di maionese senza un tubetto dove morire soffocata".
E al diavolo la linearità.
Lo sento ridere e spontaneamente alle mie labbra affiora quello che potrebbe essere un sorriso se non decidessi che... no, non è il caso. Così, abbasso lo sguardo e penso istantaneamente a quello che sto indossando io adesso. Non indosso la divisa da commessa, bensì un semplice e comune paio di jeans stretti, una banale e comune felpa blu e delle banali e comuni scarpe da ginnastica. Non potrei essere più banale e comune di così.
E questo mi ricorda che oggi è sabato, precisamente sabato sera, e che non è martedì, né lunedì.
Mi guardo in giro, cercando di farlo nel modo più indifferente possibile.
Deve essere con qualcuno. Con una ragazza.
"Cerchi qualcuno?"
Complimenti Sara, hai un futuro nella CIA.
Raddrizzo la schiena e penso a cosa sia meglio rispondere.
"Si, sto cercando la tua ragazza, perché oggi non è martedì e per otto mesi ti ho visto venire al supermercato di martedì, quindi l'unico motivo per cui tu sei qui di sabato sera deve per forza essere una ragazza" non mi pare sia la scelta più auspicabile.
"No. Cercavo un orologio". Gabriele solleva un sopracciglio e sorride.
Che ha? Un orologio piantato nel petto che non ho notato perché sono troppo occupata a guardarlo in faccia, il che mi assicurerebbe una figura di merda colossale?
"L'orologio è due centimetri a sinistra della vetrina".
Sollevo lo sguardo e, non appena lo vedo, vorrei che la teoria filosofica secondo cui nulla esiste fosse soltanto per questo momento vera, e che riguardasse, in particolare, gli orologi da parete grandi come la Tavola Rotonda.
Devo dire che in termini di figure di merda riesco a superarmi ogni giorno.
"Non l'avevo notato", mormoro con il tono di voce più impassibile che riesco ad ottenere.
Gabriele potrebbe sfottermi in milioni di modi diversi, a questo punto. Invece, non lo fa. Sa che io sapevo che ore fossero ancor prima di chiedere che stavo cercando un orologio, lo sa benissimo, potrei scommetterci, ma non lo dice.
"Scusa se insisto, ma il supermercato non ha appena chiuso?"
"Sì, cioè...", cioè troppo tardi. Mi sono appena fregata da sola.
Siccome non possiedo ancora il potere di rimangiarmi le parole, faccio l'unica cosa che posso fare: ne aggiungo altre. O meglio, ne ripeto un'altra: "... sì", concludo, osservando il soffitto.
"Ma devo sistemare alcune cose dopo l'orario di chiusura, quindi sono veramente in pausa", sottolineo.
"L'idea che fossi in pausa per finta non mi è passata nemmeno per l'anticamera del cervello", sottolinea a sua volta Gabriele. "Mi chiedevo fino a che ora durasse questa pausa".
Aspetta. Dovrei allarmarmi? Magari è lui ad essere uno stalker, o uno psicopatico, o qualsiasi altra cosa.
Devo guardarlo come se i miei occhi stiano dando voce ai miei pensieri, perché un secondo dopo sorride e scuote un po' la testa: "Ti assicuro che non ho assolutamente intenzione di ucciderti, se è che questo che ti preoccupa. No, perché da come mi stai guardando sarei io quello che dovrebbe temere di morire da un momento all'altro, alla faccia dei cinquantaquattro testimoni che assisterebbero all'evento".
"Non so di cosa tu stia parlando", affermo, cercando di non lasciar vacillare il mio tono di voce. Mentre parlo sta ancora scuotendo leggermente la testa, ma non appena finisco annuisce vigorosamente: "Se lo dici tu mi fido. Allora, ora che abbiamo appurato che nessuno dei due ha intenzione di uccidere l'altro..."
"... davanti a cinquantaquattro testimoni...", preciso.
"... okay, te lo concedo, davanti a cinquantaquattro testimoni, cinquantacinque compreso il ragno che si sta dilettando a fare bungee jumping tra di noi...". Mi volto di nuovo verso di lui e il mio sguardo finisce esattamente nel suo: poi decido di smetterla con le figure di merda e lo focalizzo sul ragnetto che, effettivamente, sta appeso a testa in giù proprio in mezzo a noi.
"... posso chiederti cosa esula di preciso dal Supremo Ordine Delle Brave Commesse?".
Se potessi distinguere l'espressione di Jeff, il ragno, (ammesso che i ragni abbiano un'espressione), potrei osservargliene una decisamente delusa dipingerglisi sul "viso", perché, dopo aver goduto per due buoni secondi di una totale e piacevole attenzione da parte di due paia di occhi non intenzionati ad ucciderlo (cosa ben rara, credo, nella vita di un ragno di città), il suo momento di celebrità si è appena concluso, forse per sempre, dato che ho appena rifocalizzato il mio sguardo sorpreso in quello di Gabriele.
"In poche parole?" chiedo circospetta.
"In poche parole", risponde.
"In poche parole, la vita". Anche se è esattamente il contrario di quello che potrebbero pensare tutti vedendomi, e di quello che certe volte devo convincere me stessa di non pensare.
"Questo l'avevo capito".
"Non è vero", ribatto senza pensare, sorridendo amaramente.
"È vero".
Lo guardo. Ha le mani nelle tasche dei pantaloni e mi guarda a sua volta, stavolta serio.
"Però non mi aiuta molto a interpretare la risposta che mi hai dato l'altro giorno".
Mi vengono in mente un paio di battute al limite della mia fantastica linea, che mi ritrovo però a scartare. Alla fine, in effetti, dico semplicemente la verità.
"Non so nemmeno io come interpretare la mia risposta. In realtà, non so neanche come spiegarmi perché abbia cominciato a darti tutta questa confidenza".
Gabriele si sbilancia leggermente verso di me, come per darmi un colpetto immaginario con il gomito: "Beh, un motivo deve esserci, Sara". Nel sentirlo pronunciare il mio nome, per qualche assurdo motivo mi infervoro e lo aggredisco con voce tagliente: "Senti, la maggior parte delle risposte a domande che mi riguardano è "non lo so". Io non so un bel niente, al di fuori dell'intera gamma di marche di sottaceti e al codice per aprire il registratore di cassa, quindi, a meno che tu non sia interessato a sapere quale sottomarca di carta igienica sia la più venduta o a meno che tu non abbia intenzione di fare una rapina, opzione che ti sconsiglierei vivamente, tutto ciò che posso dirti è "non lo so". E non troverai nulla di meglio se cerchi tra le commesse di un supermercato, te l'assicuro".
Mi giro per tornare a fissare il vestito giallo di prima, ma noto, con dispiacere, che la saracinesca del negozio è ormai scesa del tutto. Non mi resta che abbassare lo sguardo e prepararmi ad andarmene.
"Ne sei sicura?".
Non so cosa intenda e sinceramente non ho più voglia di rispondergli. Voglio solo elaborare in fretta un metodo per evaporare.
Tuttavia, nonostante abbia già mosso un passo indietro, mormoro un: "di che cosa?", sperando che lui non mi senta.
Indovina indovinello: lo sente eccome.
"Che non troverò nulla di meglio di te, se cerco in un supermercato".
Non voglio sembrare altezzosa o vanitosa, né tantomeno darmi delle arie, visto che credo che farlo sia una cosa abbastanza deprimente. Quindi evito accuratamente di rispondergli.
"Non è quello che intendevo..."
"Intendevi che dovrei chiedere conferma alla "rossa"?"
"Le scoccerebbe troppo degnarti di una risposta", non riesco a trattenermi dal commentare.
"Alla bionda, allora".
"Oh, certo, lei sicuramente si diletterebbe ad elogiarmi e spenderebbe ogni buon aggettivo conosciuto all'umanità per descriverti la mia aura angelica. Saprebbe rendermi senza dubbio interessante".
"Non rimane che la mora".
La mora sono io.
"La mora ti risponderebbe che non sa perché ha detto quello che ha detto e che non era sua intenzione sembrare di essere migliore di qualcuno, siano pure quel qualcuno le sue adorabili colleghe, perché lei non è nulla, o è sicuramente meno di quello che pensi. E si scuserebbe, perché adesso dovrebbe proprio andare".
Fuggire o affogare. È questo il destino di un puntino errante. E io sono un tipo di puntino senza dubbio troppo egoista per scegliere la seconda opzione.
Prima di fuggire, però, lo guardo. Solo adesso riesco ad assimilare appieno l'espressione che aveva quando ha risposto alla mia domanda quasi - fantasma. Era uno sguardo quasi rapito da qualcosa a me totalmente incomprensibile, ma stranamente bello.
Stranamente, insensatamente e ineccepibilmente bello.
Sento qualcosa (forse il mio famoso sesto senso o il mio celeberrimo istinto, chissà) che mi sprona a non lasciargli l'ultima parola. Mi sento come in dovere di restituirgli quello sguardo.
"Perché lunedì? E, adesso, sabato?"
Gabriele sorride, ma con un sorriso diverso, quasi triste.
"Sarai anche brava a dire bugie, ma non sei un granché nel restare coerente con loro", dice in tono tranquillo. Senza rispondermi, ovviamente.
"E tu sarai anche bravo a stimare il numero di persone nel raggio di dieci metri, ma non sei un granché nel capire con quali valga davvero la pena di parlare".
Con questa mia ultima perla dovrei riuscire a metterlo in fuga. Sono insopportabile quando mi autosminuisco così esageratamente. E il bello è che non devo sforzarmi troppo per riuscire a farlo.
"Adesso sei abbastanza coerente".
Il mio cuore perde letteralmente un battito.
Se sono riuscita a seguire il suo ragionamento, quello che mi ha appena detto potrebbe essere interpretato come un contortissimo e delicatissimo... complimento.
E lo sappiamo tutti e due, come verifico guardandolo negli occhi, anche se io proprio non riesco a capirlo.
O meglio, ad accettarlo.
"Non mi hai risposto", mormoro.
Gabriele sorride e fa qualche passo indietro.
"Magari te lo dico martedì". Così dicendo, si volta e se ne va.
E io me ne rimango lì, con Jeff, incapace di muovermi. Non perché abbia le ginocchia che tremano o le farfalle nello stomaco, per carità. È solo che finché non mi muovo Jeff non potrà essere travolto da nessuno, e voglio tenere in vita ancora per un po' l'unico vero testimone del momento che è si è appena concluso.
I puntini erranti imparano molto dai cerchi, e ricordano altrettanto. E io in questo momento ho bisogno di un testimone, per credere davvero a ciò che è successo, e so che è una cosa stupida, perché Jeff ora starà pensando a mosche morte o a moscerini stecchiti o a qualsiasi altro insetto che vorrebbe mangiarsi per cena, e perché Gabriele non mi ha appena chiesto di sposarlo, come è successo a Eleonora con il suo futuro marito, quel lontano sabato di due settimane fa.
Ma ho bisogno di credere davvero a ciò che è successo, perché mi è successo qualcosa ed è quello che ho sempre desiderato. Ho sempre desiderato che mi succedesse qualcosa. Qualsiasi cosa, pur di non continuare a errare per altri otto mesi di freddo senza meta.
Nonostante questo, non posso rimanere ferma in eterno, perciò, dopo qualche altro secondo, muovo qualche passo allontanandomi dalla vetrina.
Jeff muore un paio di minuti dopo, travolto da una ragazzina che, ovviamente, non se ne accorge. Così me ne vado definitivamente anch'io, incamminandomi verso il supermercato.
Ed è strano, perché prima di rituffarmi in pensieri contorti contrapposti a pensieri stupidi riguardanti i prodotti che dovrò sistemare stasera, prima di questo non mi assale il panico né qualsiasi altra cosa, e la gente che mi passa accanto rimane gente, fuori da me e dai miei pensieri, per la prima volta dopo tempo immemore.
Per due minuti, la mia mente respira e il puntino errante viaggia da solo, al di sopra di ogni altro cerchio, e non prova nient'altro che sé stesso.
*La teoria filosofica cui mi riferisco è quella elaborata da Gorgia, un simpatico filosofo sofista del IV secolo a. C., nell'opera "Sul non essere".
N.d.A.
Questo capitolo ha un senso, lo giuro.
Secondo Gabriele, quando Sara dice di essere un nulla (di non contare niente, detto fuori dai denti), sta dicendo una bugia a lui e a sé stessa, e afferma che non è coerente con essa perché poi, con la domanda che gli fa, dimostra che è interessata a lui e che quindi, in fondo, possiede sicuramente qualcosa di più che una semplice tendenza a non credersi niente. Quando afferma, invece, che è coerente, si riferisce al fatto che lei ammette che non valga la pena parlare con lei, tirando di nuovo in ballo il fatto del nulla... Insomma, un senso c'è, ve l'assicuro. È nascosto sotto chili di contortaggine, ma c'è XD.
Ora chiudo, che questo capitolo è già abbastanza lungo di suo. Grazie a tutti coloro che sono arrivati fin qui a leggere: qualsiasi critica è ben accetta, dunque esprimete il vostro giudizio. Io non mordo ;-)
A presto!
Bạn đang đọc truyện trên: AzTruyen.Top