Il quasi furto

Sabato sera.

È un rapporto di amore e odio quello tra me e il sabato sera. L'odio, sorvolando per un attimo sull'esagerazione di questo termine usato in relazione a una riflessione riguardante un giorno della settimana, deriva dall'irrefrenabile flusso di ragazzine che corrono, urlano e schiamazzano per il centro commerciale e che poi, inevitabilmente, entrano nel supermercato, agguantano qualche schifezza confezionata, galoppano verso la mia cassa (che, non so per quale astruso motivo, sembra attirarle come un completo intimo in offerta), e lì cominciano a guardarmi dall'alto in basso, (letteralmente e non) e a lanciarsi occhiate infastidite mentre spostano il peso da una gamba all'altra, come se non fossero nemmeno in grado di reggersi in piedi, in attesa che io finisca di registrare la loro "spesa" (cosa che, ovviamente, faccio alla velocità di una lumaca con la diarrea; è un gesto del tutto altruistico, il mio: metto un po' di carne al fuoco per non far incendiare inutilmente i loro nervi).

L'amore, invece (ammetto che anche questo è un termine esagerato, ma in confronto a chi lo usa nella frase: "Dio, che amore questa tutina per cani!", non me la sento di sostituirlo con qualcos'altro) deriva dal fatto che smonto verso le dieci, cioè quando il centro commerciale chiude, e che ho poi l'oneroso compito di riordinare gli scaffali e di riempirli con i prodotti inscatolati che vengono consegnati a partire dal tardo pomeriggio.

Forse, se fossi una normale adolescente, mi struggerei e passerei la serata a piangermi addosso e a recitare la parte della vittima, inzuppando l'intera fornitura settimanale di fazzoletti, oppure esulterei dalla gioia e, finito il mio lavoro, tirerei fuori dalla borsa una minigonna, una canottiera e dei tacchi da vertigine e mi fionderei in discoteca; non so, dipende da che modello di adolescente avete in mente. Dato che, però, non appartengo a nessuna di queste due categorie, restare alzata fino a tardi a stracciare scatoloni e a vagare per i corridoi vuoti con l'unico sottofondo della musica a leggero volume e del ronzio della luce mi mette addosso un sacco di tranquillità. Non penso a niente e penso a tutto allo stesso tempo, senza doverne far conto a nessuno, e questo mi fa sentire bene. L'unica cosa che mi dà fastidio è quel grassone di un guardiano che quando vede che mi perdo un po' dietro a qualche fornitura di libri comincia a ronzarmi intorno come una di quelle zanzare che la notte, di punto in bianco, ti prendono di mira i timpani, con l'intenzione di: a) farti venire una crisi isterica alle tre del mattino; b) farsi ammazzare.

In fondo, comunque, non lo biasimo: nonostante sia grasso e anche abbastanza brutto (non che io sia Miss Mondo, sia chiaro), ha la fede e immagino che la sua idea di sabato sera non consista esattamente nel guardare una ragazza mentre apre scatoloni e pulisce nastri trasportatori per la spesa.

Le casse aperte, questo sabato sera, sono solamente due, la mia e quella di Maria, perché pare, e sottolineo il pare, che Susanna abbia un terribile mal di gola.

La settimana scorsa aveva un terribile raffreddore, quella precedente una terribile febbre e quella prima ancora un terribile mal di stomaco.

Per crederle, come minimo, bisognerebbe accertare l'esistenza della terribilite sabbatica, una grave patologia debilitante che impedisce il normale svolgimento delle attività quotidiane e causa un improvviso malessere dovuto all'influenza che il sabato esercita sulla povera paziente... la quale, per puro caso, è affetta da una lievissima e insignificante forma di alcolismo.

Come massimo, bisognerebbe essere sua madre, cioè il mio capo.

Lupus in fabula: sta passando vicino alla corsia degli shampoo proprio in questo momento, con un muso lungo così e gli occhi porcini che guardano solo ed esclusivamente il pavimento.

Mi supera senza guardarmi: ottimo.

Tiro un sospiro di sollievo e il mio sguardo cade su due ragazzine, o meglio, entra in gravitazione del piercing che entrambe hanno all'ombelico, così grande e luccicante che sembrano avere una palla da discoteca infilzata in pancia, per poi scontrarsi con un tessuto lucido argento senza spallini che copre a malapena entrambi i loro seni, entrambi palesemente imbottiti. Hanno i capelli lucidi, il top lucido, i pantaloncini di pelle lucidi, le gambe - persino quelle - lucide, le scarpe lucide.

Potrebbero essere scambiate per la versione in plastica di loro stesse.

Sono vicine allo scaffale dei burrocacao e parlottano tra loro. Ad un certo punto una si piega, come per volersi allacciare le scarpe, mentre l'altra sta ritta come un palo guardandosi intorno.

Quella non mi frega: nessuna delle ragazzine petulanti che popolano il centro commerciale perderebbe il suo tempo a guardare le offerte dell'ultimo modello di set di pentole antiaderenti invece del suo amato cellulare.

Faccio appena in tempo a vedere l'altra, quella accucciata, smettere di fingere di allacciarsi le scarpe e infilarsi una confezione di quei gel per il piacere in quella sottospecie di top prima che la sua amica si volti verso di lei, coprendomi la visuale.

Per essere delle ragazzine sono fin troppo all'antica: il trucco del palo ormai è sgamabile quanto un fan degli Slipknot ad un concerto di Chopin.

Mi viene un lampo di genio: afferro il citofono, interrompendo automaticamente la mia playlist, e annuncio che Maria è desiderata urgentemente al punto d'incontro per i clienti. Maria chiude annoiata la cassa e se ne va.

Non c'è nessuno in coda e le ragazzine vengono verso di me.

Scaricano come se fosse del pesce appena pescato al porto due pacchi di assorbenti e le solite schifezze sul nastro trasportatore.

Io lancio una fugace e discreta occhiata alle loro facce e, per qualche secondo, non riesco a pensare ad altro che al mezzo chilo di mascara che hanno sopra ciascun occhio.

Poi, superato lo shock, ritorno a guardare i due pacchetti di assorbenti.

Allungo il braccio, ne prendo uno mollemente, poi appoggio il gomito sul nastro trasportatore e lo avvio, lasciando che scivoli fino al registratore di cassa.

Se me la gioco bene, posso sperare di vedere fino a che punto gli etti di blush che hanno sulle guance riusciranno a mascherare il loro rossore.

"Non è succo di ciliegia", esordisco, con lo sguardo ancora incollato alla figura stilizzata di un assorbente con le ali.

La Tizia e l'altra smettono di guardare i loro smartphone e una delle due emette un verso non del tutto identificato.

"Né uno shampoo per capelli", aggiungo.

"Non riusciremo mai ad andare da Tiffany", sbuffa scocciata quella che etichetto, dopo la sua arguta osservazione, come Pizia.

"Né tantomeno uno yogurt". Corrugo la fronte e fingo di stupirmi del fatto che esistano delle istruzioni per aprire un assorbente.

"Scusami, che stai dicendo?", si decide a dire la Tizia.

"Per l'amor del cielo, non fare la finta tonta".

Mi guarda stralunata.

Beh, se non vuole dirlo lei, ce la devo fare arrivare io.

"Per il tuo bene, ragazzina, fingi di essere perlomeno cerebralmente attiva, perché ti assicuro che unire la deficienza ad un abbigliamento del genere non ti porterà più in là del ciglio di una strada. Se punti ad un marciapiede, però, è un altro paio di maniche...".

La Tizia mette su un'espressione leggermente schifata, forse in attesa di capire la mia allusione e potersi sdegnare. Alla Pizia, nel frattempo, arriva un messaggio sul cellulare: non faccio in tempo a girarmi verso di lei che già lo stringe in mano, stirandosi le dita per riuscire a tenerlo bene (perché più che ad un cellulare assomiglia ad una barretta di cioccolato Wonka).

Ci metto mezzo secondo: glielo sfilo di mano senza troppa fatica, dato che non ha una cover e scivola come una saponetta, e me lo infilo nella divisa.

Diciamo che lo faccio per dar loro un incentivo a non svignarsela.

"Ma come ti permetti?", strilla la Pizia dopo un attimo di défaillance durante il quale la osservo compiere un enorme sforzo per riuscire a spalancare gli occhi.

"Mi permetto", le rispondo monocorde. Poi, guardando la Tizia, aggiungo: "Ci sono due possibilità. Posso chiamare i vostri genitori e lasciarvi a loro, dimenticandomi dello yogurt alla ciliegia che hai infilato nell'imbottitura del tuo reggiseno, oppure posso alzare di dieci decibel il mio tono di voce e chiamare Giovanni, quella guardia lì, proprio di fronte a voi, e lasciarvi a lui. Decidete".

Pare che il mio discorso abbia attirato l'attenzione di parecchia gente, ma il blush regge ancora bene.

Per qualche secondo il silenzio si potrebbe tagliare a fettine.

Poi la Tizia estrae la boccetta rossa dal suo top e lo appoggia con delicatezza davanti al mio naso.

Il flusso di chiacchiere ricomincia a scorrere e le uniche a rimanere in silenzio siamo io, la Tizia e la Pizia.

Attraverso il liquido gelatinoso della boccetta vedo tornare in cassa Maria, che non si è accorta di nulla, e con nonchalance afferro il secondo pacchetto di assorbenti e le altre schifezze e le registro.

Una mia amica mi diceva sempre che c'è una sottile linea tra l'essere sarcastica e l'essere stronza, e che io la varcavo troppo spesso in certe situazioni. Aveva ragione.

Il brutto è che i sensi di colpa arrivano sempre, in ogni caso, che lo faccia una o duecentosessantaquattro volte al giorno. Sempre.

Ora, visto che sono in ballo, decido di ballare.

"Non servono gli assorbenti quando si rimane incinta".

So di aver colpito nel segno nell'istante in cui la Tizia incrocia le braccia e si precipita a ribattere: "Esistono i preservativi, non so se capisci cosa intendo...".

La strafottenza nella maggior parte delle ragazzine lievita che è un piacere quando si comincia a parlare di sesso. È incredibile.

"Intendo benissimo, ma non credo che facciano altrettanto i ragazzi "cosa-c'è-di-meglio-per-una-notte-di-sballo-di-un-pò-di-sano-sesso-libero-con-una-minorenne-consenziente-?"".

Affondate.

Guardo per curiosità il costo di quel gel alla ciliegia: nove euro e novantacinque centesimi. Pensavo che l'industria del sesso costasse un po' meno.

"Riportalo al suo posto", dico alla Tizia. Lei lo afferra con rabbia e s'incammina verso lo scaffale.

"Il cellulare", mi ricorda scocciata la Pizia.

"Quando torna la tua amica. Sono sette euro e quindici centesimi", replico, pur pensando che, per l'umiliazione che hanno subito, potrei anche darle tutto gratis.

La Pizia tira fuori dalla tasca posteriore delle sue mutande, pardon, pantaloncini, una banconota da dieci euro. Le do il resto e infilo lo scontrino nel sacchetto.

Quando la Tizia torna, estraggo il cellulare/saponetta/tavoletta di cioccolato dalla tasca e, prima che ad entrambe possa venire in mente di porgersi il dubbio, lo sblocco dopo tre tentativi, memore del gesto a "v" che la Pizia ha fatto prima col pollice.

"Ecco come li avrei chiamati. Cerca di essere un po' meno banale la prossima volta, non so se capisci cosa intendo...", le scimmiotto con un'espressione angelica.

La Tizia e la Pizia si congedano in fretta, ma non abbastanza da impedirmi di scorgere un po' d'imbarazzo sulle loro guance.

Commessa: 1; blush: 0.

Mentre escono dal supermercato lancio uno sguardo a Tiffany: ha appena chiuso. Dentro di me si leva un grido vittorioso.

Sto per chiudere anch'io la mia cassa quando una signora anziana appoggia sul nastro tre sacchetti di verdure.

"Ha fatto bene, signorina", sussurra all'improvviso, quasi volesse confidarmi un segreto.

"Ho fatto quello che dovevo fare. Sono nove euro e novantotto centesimi".

"È giusto insegnare ai posteri ciò che si ha imparato", dice, ancora con quel tono.

La guardo confusa, poi mi accorgo del suo sguardo compassionevole e capisco.

Sospiro, sbuffo, inspiro.

"Mi sa che ha preso un granchio, signora. Io non ho nulla da insegnare. Tengo le gambe chiuse da quando ho imparato a sedermi decentemente, la mia virtù è ancora tutta al suo posto e l'unico essere umano di sesso maschile che ho visto nudo è stato mio cugino, quando avevo sette anni. Sono nove euro e novantotto centesimi".

Quando sollevo lo sguardo, mi accorgo che la signora ha perso ogni traccia di confidenza nei miei confronti, assieme ad un po' di colorito. Mi affretto a darle i due centesimi di resto e lo scontrino ancor prima che mi porga la banconota da dieci euro, poi chiudo la cassa. Interrompo la musica, avviso la clientela che tra cinque minuti il supermercato chiuderà e mi avvio al banco dei gelati per sistemarli, mentre Maria riceve le ultime persone.

È stata la mia amica a rimanere incinta a sedici anni.

Quella che mi diceva sempre della linea tra sarcasmo e stronzaggine.

Quando me lo disse, ricordo che, come prima cosa, mi vennero in mente una miriade di linee che nel tempo record di una sola notte aveva ampiamente superato, ma poi mi trattenni dal farglielo notare. Sarebbe stata l'occasione perfetta per superare la linea del sarcasmo, ma con che faccia avrei potuto farlo? Con che faccia avrei potuto rinfacciarle l'errore che aveva fatto se io stessa, così facendo, avessi ripetuto per l'ennesima volta il mio errore?

Il freddo si schianta contro il mio viso e chiudo gli occhi istantaneamente.

Sto cominciando a diventare intollerante al freddo, per colpa di quel maledetto condizionatore che se la ride a due metri dai miei nervi, questi maledetti freezer che d'estate vengono presi d'assalto manco ogni gelato fosse scontato del 99,99% e la mia maledetta vita sociale.

L'avviso di chiusura del supermercato mi scongela le meningi e mi fa accorgere di aver sistemato i ghiaccioli all'anice al posto di quelli all'arancia. Tiro fuori la testa dal freezer, gustandomi l'allettante idea di assestargli un bel calcio, quando, tra le goccioline di condensa che stanno scivolando sulla sua vetrina, vedo avvicinarsi Maria.

Guastafeste.

"Il camion dei formaggi ha avuto un guasto. Arriverà stanotte. Lo aspetti tu? Tanto Giovanni è qui fino alle cinque".

Sporgo la testa oltre il vetro e la vedo allontanarsi.

Chiedere è lecito, rispondere è cortesia. Si dice così, giusto?

Io evidentemente sono considerata troppo scortese anche solo per meritarmi l'attenzione di una risposta.

Scaravento la porta vetro contro il freezer e contemporaneamente mi volto dall'altra parte per non dover più vedere (almeno per due giorni) né la faccia scandalizzata di Maria né le confezioni di ghiaccioli al posto sbagliato, lasciandomi alle spalle una folata di aria gelida.

Come sempre.


∞ ∞ ∞


Sono le nove. Il centro commerciale chiude alle dieci.

Consegno il denaro della giornata al Supervisore di cassa, un ragazzo taciturno che non si prende mai il disturbo di rispondere al mio saluto, poi vado a togliermi la divisa, sostituendola con una felpa grigia un po' scolorita. Sento che, pian piano, la parte di brividi dovuta al freddo climatico se ne va, e mi rammarico di non potermi liberare anche di quell'altra parte di brividi, quella che mi sta addosso da troppo tempo per andarsene.

Esco, controllando che Giovanni sia di guardia, e mi inoltro tra le vetrine.

L'odore di crêpes e zucchero filato mi ricorda che, se devo tirare fino all'una di notte, ho bisogno di mettere sotto i denti qualcosa, quindi salgo al primo piano e prendo un gelato da un chiosco che ne fa davvero di squisiti, giusto un attimo prima che chiuda: la ragazza che mi ha appena allungato oltre il bancone una coppetta al cocco e menta spegne luci e chiude la vetrina, poi esce dal retro e si attacca al cellulare. L'incasso, probabilmente, lo depositano ogni fine settimana, com'è pure giusto che succeda in un centro commerciale che non vede un furto dall'ultimo assalto di adolescenti incalliti alle macchinette dei popcorn (un tentativo, peraltro, finito nel nulla).

Ogni giorno qui tutto è sempre uguale, eppure tutto non potrebbe essere più diverso.

Il paradosso mi salta all'occhio soltanto il sabato, quando mi immergo nella vera "vita" del centro commerciale. Sì, perché quando sono seduta alla mia cassa e lancio un'occhiata a quell'incessante via vai di gente, vedo solo la stessa caotica scena dell'occhiata precedente, ma quando mi ci ritrovo in mezzo, a quel via vai... è allora che sento tutte quelle vite che mi sfiorano per un secondo e poi se ne vanno, senza lasciare traccia di loro nella mia memoria, eppure lasciando nitida nella mia testa la loro presenza, finché cammino tra esse. È quando mi ci ritrovo in mezzo che non le chiamo più gente, ma vite, non più corpi di pelle, ossa e muscoli che fanno da fondo immutabile al mio lavoro, ma miliardi di pensieri, parole ed emozioni in un costante movimento a sé stante, incontrollabile.

Guardo le vetrine dei negozi che stanno per chiudere.

Queste riflessioni non fanno bene. Non portano mai a niente. Il che non sarebbe grave se riuscissero a portare a qualcuno.

Raggiungo il secondo piano, che è molto poco frequentato visto il genere di negozi che ci hanno rifilato: un negozio di cose per la casa, un'erboristeria, un negozio per neonati e un altro di cose per la casa.

Mi siedo su una panchina, in disparte dalle ultime due persone presenti oltre a me, che stanno ammirando un divano a prezzo scontatissimo, e aspetto che il gelato si sciolga.

A me il gelato piace berlo. C'è a chi piace il caffè lungo, no? Penso sia un po' la stessa cosa.

Mi metto a guardare il cielo, ma non è che sia poi così interessante. Le stelle non si riuscirebbero a vedere nemmeno con un telescopio astronomico e la luna è coperta dalle nuvole. E le nuvole le guardo a ogni pausa pranzo.

Allora mi volto verso le persone del divano. Stanno discutendo.

"Domani Alice ha il saggio di danza. Ce la dovevi portare tu, ma all'ultimo momento hai detto che avevi da fare e ..."

"Mi ricordo, cara, non c'è bisogno di farla lunga".

"E allora perché mi chiedi se può venire Matteo a prenderlo?! Sai che ha l'esame tra una settimana".

"Vabbè, verrò io..."

"No, vabbè niente!"

"Ma che ti prende?"

"Ogni volta che devi fare qualcosa lo fai notare come se fosse un peso per te e come se gli altri non ti dessero scelta, e non mi piace, okay? Sembra che tu sei l'uomo più impegnato del mondo".

"Che tu sia", appunta il signore. Sorrido involontariamente.

"Mi prendi in giro?!". L'uomo ride e le passa un braccio sulle spalle.

"Sì. Sai che ti dico? Questo divano non mi piace per niente".

"Cosa?"

"Non mi piace".

"E perché non l'hai detto subito, Giacomo?"

"Perché piace a te, e se lo vuoi io domani verrò qui un'ora prima dell'apertura e appena aprirà sarò il primo a salire le scale e mi fionderò in questo negozio con i soldi contati in mano, lo comprerò, lo porterò a casa e poi mi beccherò dal capo una sgridata per il ritardo, e poi ne beccherò un'altra, perché uscirò prima e ti raggiungerò alla scuola di danza, dove tu mi guarderai esterrefatta mentre salirò sul palco dopo che Alice sarà rimasta lì sopra ad aspettarmi, e insieme ti grideremo: Eleonora, vuoi sposarmi?"

Il mio gelato fa in tempo a sciogliersi del tutto prima che la donna, Eleonora, dopo molte spiegazioni sdolcinate e un principio d'infarto alla vista dell'anello, dica il fatidico sì.

Li guardo, mio malgrado, mentre si baciano e si abbracciano.

Questa me la devo segnare sul calendario: "Scena da film alle nove e quarantacinque. Esistono, scoperta eccezionale".

Sto ancora navigando nei miei pensieri quando sento la donna chiamarmi, e quasi mi rovescio il gelato addosso.

"Scusa! Scusami, ti disturbo?"

"Dice a me?"

La donna sorride come se fosse la Felicità in persona e annuisce.

"Sei l'unica testimone di questo momento. Non so se hai sentito..."

"Oh, sì, ho sentito quasi tutto. Congratulazioni", dico, sorridendo confusa, appoggiando il gelato da bere sulla panchina e alzandomi.

"Grazie! Noi volevamo chiederti... non so, ti sembrerà strano, ma se potevi fare una foto con noi".

"Giuriamo solennemente di non essere ricercati dalla legge", aggiunge l'uomo.

Acconsento, non sapendo come rifiutare in modo cortese.

Ci mettiamo davanti alla vetrina, appoggiando la macchina fotografica sulla panchina, e dopo qualche secondo e un imbarazzante coretto di "cheeeeeeese", la luce rossa si spegne.

"Grazie mille! Come ti chiami?", mi chiede Eleonora. Sto per risponderle quando Giacomo mi interrompe.

"Ha già fatto abbastanza. Se ci dicesse il suo nome potrebbe essere troppo facile rintracciarla".

Sorrido debolmente: "È stato un piacere. Ancora congratulazioni. Arrivederci".

Prendo il gelato e raggiungo le scale, girandomi un attimo per ricambiare il loro saluto.

Quanto sono strane le vite innamorate. Non hanno vergogna di niente. Se c'è una cosa che ho imparato, osservandole, è proprio questa.

Metto piede sul pavimento del pianoterra e mi avvio verso il supermercato. A metà strada mi guardo di nuovo alle spalle e li vedo uscire. Ancora abbracciati.


∞ ∞ ∞


"Ehi! Ho sentito che stasera hai sventato un furto!"

Giovanni stacca il fondoschiena dall'antitaccheggio a cui era appoggiato e manda giù il suo ultimo M&M's.

"Se per te "cazzata da adolescenti" è sinonimo di furto e "impedire a due adolescenti di compiere una cazzata da adolescenti" è sinonimo di sventare, allora sì, ho esattamente sventato un furto". Gli porgo la mano e aspetto che ci lasci cadere il sacchetto vuoto. Lo molla senza spendere più di mezza caloria e, mentre me ne vado, bofonchia un: "Acida come sempre, eh?".

Salto con una gamba il portello automatico della cassa e lo sento guardarmi la schiena.

"La mia non è acidità. È..."

"Dolcezza andata a male. Lo so, lo so. Perché una torta può anche essere la più buona dell'universo, ma non c'è nulla che possa impedirle, dopo diciannove anni, di trasformarsi in una poltiglia verde ammuffita", recita, alzando la voce per farsi sentire. Alzo un pollice per complimentarmi della sua memoria.

"Ma tu non sei né la torta più buona dell'universo, né una poltiglia verde ammuffita!", dice, alzando ancora un po' la voce.

Mi fermo e mi giro.

"Nessuno ha ancora provato il contrario".

Lo lascio lì, con l'espressione un po' stanca che lo contraddistingue, e riaccendo la musica a basso volume, perché so che alle signore delle pulizie fa piacere avere un po' di sottofondo.

Le osservo mentre alcune di loro cominciano a piroettare goffamente su sé stesse, ridendo.

Poi me ne vado.

Prendo un pacchetto di biscotti a caso dal secondo scaffale, un libro dal ripiano dei classici e poi sprofondo a gambe incrociate sul pouf che sta nel reparto libreria, sul quale mi siedo praticamente solo io perché, più che creare l'atmosfera confortevole di un angolo lettura, a guardarlo vien voglia di iscriverlo a uno di quei siti di incontri per scacciare quel senso di depressione che emana da ogni sua cucitura.

Osservo la copertina del libro e leggo un titolo che mi sembra di aver già sentito da qualche parte: E le stelle stanno a guardare. È un tomo di 525 pagine scritte in miniatura e l'autore è un certo A. J. Cronin.

In un lampo rivedo la libreria di mio padre e il tavolino accanto alla poltrona sommerso da una pila di cinque o sei libri. In cima, lo stesso libro che ho tra le mani, soltanto un po' più sgualcito. È il libro che stava leggendo l'ultima volta che l'ho visto.

Una strana sensazione mi invade il petto e mi impedisce di sfogliarlo, ma anche di rimetterlo al suo posto. Finisco per non fare nulla e lo lascio qui, adagiato sulle mie ginocchia.

Guardo il soffitto, accecante a causa dell'autostrada di luci al neon che lo costellano, e il centro commerciale oltre il vetro della libreria, vuoto e silenzioso, ma ancora splendente dalle migliaia di volt che sprizzano da ogni suo lampadario, vetrina, faro, torcia delle guardie, fontana ad acqua e via dicendo.

Tengo il fiato sospesa, in attesa.

Le luci si spengono, le signore delle pulizie, così come le guardie di controllo, se ne vanno. Arrivano le guardie notturne, ma si appostano alle entrate, lontano dalla mia vista. Giovanni mi chiede se può spegnere anche le luci del supermercato, per risparmiare energia. Dico di sì.

In un attimo il buio mi avvolge e finalmente posso tornare a respirare.

L'oscurità, ormai, non mi spaventa più.



N.d.A.

Con questo capitolo dichiaro ufficialmente chiusa l'introduzione alla storia vera e propria. Non che questi tre capitoli non ne facciano parte, ovviamente: direi piuttosto che le sono indispensabili. Lo so, potrebbero essere risultati un po' monotoni, ma, ecco, in un certo senso la loro indispensabilità sta proprio in questo: spero, infatti, che abbiano dato un po' l'idea della vita della nostra protagonista.

Bando alle ciance, chiusa parentesi, a voi il giudizio.

Grazie a tutti, e a tutti: a presto ;-)

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