Il Grande Bosco

Nonostante non gli abbia sganciato nemmeno un centesimo, oggi il vento ha deciso di rifarsi vivo, dopo quasi tre settimane di vacanze durante le quali se la sarà spassata a sollevare minigonne e a far andare la sabbia negli occhi dei vacanzieri, che a loro volta se la staranno spassando sulle coste dell'Adriatico arrostendo sulle sdraio come cotolette.

Beh, certo, è il vento, non è mica il ciuffo d'erba che spunta tra le crepe dell'asfalto, la foglia secca che viene calpestata e ricalpestata di media centoquarantotto volte al giorno o una commessa del supermercato: lui una vacanza se la può permettere eccome, e se la permette senza problemi quasi ogni anno, qui, e quasi ogni anno poi, quando ritorna, si porta dietro le nuvole, ma le lascia trastullarsi sopra le nostre case per svariate ore prima di dargli l'ordine di piovere, giusto il tempo necessario per scaldare ancora un po', fino, diciamo, al limite estremo del sopportabile, l'aria.

Sì, sto parlando del venticello caldo e di quella meravigliosa afa che precedono un temporale e mi sto permettendo di prosaicizzarli entrambi (termine da me inventato in questo preciso momento, che starebbe a significare "girare intorno al concetto in modo prosaico") mentre aspetto che il silenzio si rompa.

Oggi è decisamente in ritardo.

Appoggio la testa contro il muro e chiudo gli occhi.

L'arco di pietra sotto il quale mi trovo appartiene ad una vecchia costruzione che un tempo dev'essere stata una fabbrica o qualcosa del genere. Si trova al limitare del bosco che circonda la città e che si chiama, con grande sfogo di fantasia da parte dei cartografi o di chiunque l'abbia per primo nominato, Grande Bosco.

Pochi commenti, per favore, perché per arrivarci mi faccio due cambi d'autobus e tre buoni chilometri a piedi ogni domenica mattina, ossia oggi, cioè il giorno, signore e signori, in cui si raggiungerà un numero mai raggiunto prima dalla scienza, ovvero il più alto numero di suicidi collettivi da parte dei membri della società di Mantenimento Sinapsi e Governo Neuroni di un cervello umano, a motivo della fallimentare ribellione da parte della suddetta società a ripetuti casi di prosaicizzazioni e divagazioni mentali.

È da quattro giorni e mezzo che continuo così. Non riesco a stare un minuto senza pensare a niente, perché ci metto mezzo secondo per trasformare tale niente in quel ragazzo del quale non mi permetto di nominare il nome, che, a questo punto, sta riuscendo a mandare a puttane anche il mio cervello, oltre che il mio stomaco e i miei polmoni, sebbene io non lo veda da, appunto, quattro giorni e mezzo.

Sento l'odore inconfondibile della pioggia mentre s'incanala nell'arco trasportato dal vento, sfilandomi davanti al naso velocemente per poi tornare in fretta a respirare dall'altra parte, una volta uscito da questo tunnel.

Qui è dove ho passato la mia prima notte da "orfana".

Non fraintendete: orfana non nel senso stretto del suo comune significato, ma volto piuttosto a dare l'idea della prima notte di una ragazza scappata di casa senza la più pallida idea di dove andare.

Ero scesa dall'autobus verso mezzanotte e mezza e, dato che il mio appartamento sarebbe stato libero soltanto dalla mattina successiva, avevo cominciato a vagare per la strada, cercando di trovare un senso a quello che stavo facendo. Gira e gira, ero arrivata all'ingresso del bosco. C'era un sentiero ben illuminato che si inoltrava tra gli alberi e io, che ero sempre stata affascinata dai boschi e dalle foreste, non avevo resistito alla tentazione di scoprire dove portasse.

La prima cosa a cui avevo pensato nel vedere questa catapecchia e l'arco di pietra era stato il film "La città incantata" *. L'unica e banale differenza era che il tunnel non portava a nessuna città incantata, ma soltanto ad un paesino di poche centinaia di abitanti.

Vi chiederete perché mi faccio due cambi d'autobus e tre buoni chilometri a piedi per starmene seduta contro un muro di pietra umido e ricoperto di graffiti.

La risposta è semplice: la musica. Ogni domenica mattina, il suono di un pianoforte spezza il silenzio e rimbomba tra i tronchi degli alberi.

Non ho la più pallida idea di chi suoni, ma, chiunque sia, lo fa maledettamente bene.

Per lo più sono brani classici, ma certe volte, prima che me ne vada, verso le undici, esplode un jazz da far paura, e poi pezzi blues e arrangiamenti e chi più ne ha più ne metta.

Non mi sono mai spinta oltre la fine del tunnel: mi basta ascoltare.

Ascolto e basta.

Potrebbe sembrare noioso, detto così, ma io passo quarantatré ore a settimana a guardare gente che parla e parla e parla e parla: la prima cosa a cui penso, quando arriva la domenica, è che ho voglia di staccare da tutto e da tutti.

Forse nessuno passerebbe un'ora su un autobus puzzolente e si farebbe venti minuti a piedi in mezzo a un bosco per ascoltare qualcuno di cui non conosce né il nome né il cognome né il sesso né niente, che però schiaccia maledettamente bene quei tasti. Ma è proprio per questo che lo faccio io.

Se c'è una cosa che non fa mai nessuno, la faccio io, è assicurato.

Se nessuno ha mai parlato così a lungo di niente per evitare di pensare a niente e di finire per trasformare quel niente in qualcosa del tipo un ragazzo e il suo nome, ci ho pensato io in quest'ultima ora.

E, adesso, posso semplicemente ascoltare.



*La Città Incantata è un film di Hayao Miyazaki, forse il suo film più famoso, ed è semplicemente stupendo. Vi consiglio di guardarlo.

N.d.A.

Questo "capitolo" (virgolettato perché non doveva essere un capitolo, inizialmente) forse vi ha annoiato, o forse non ci avete capito nulla e adesso vi starete chiedendo cosa caspita c'entri con la storia: cercherò di rispondervi, per evitare di sembrare mentalmente contraddittoria o più contorta di quanto già non sembri.

Questo "capitolo" esprime al meglio (spero, perché trovare il meglio in una "cosa" come quella sottostante è dura) la mentalità di Sara. Lei fugge sempre concretamente, ma poi, nei pensieri, come fa? Me lo sono chiesta e ho voluto rispondermi, e rispondere a voi, se magari avete avuto lo stesso dubbio, attraverso il suddetto "capitolo", che, diciamo, è di passaggio.

Il succo è che per fuggire ascolta e per ascoltare fugge ;-)



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