I (semplici) viaggi di Sara
Una volta ho detto che tutto ciò che avevo imparato dalla mia professoressa di inglese era stato l'aver appreso il significato del famoso concetto di gap.
Mi sbagliavo.
C'è stato un periodo, infatti, che quella stessa professoressa ha dedicato esclusivamente alla lettura del terzo libro de "I viaggi di Gulliver", quello in cui il protagonista si ritrova su un'isola volante, Laputa, abitata da scienziati impegnati nella sperimentazione di progetti a dir poco assurdi, della serie "come costruire una casa partendo dal tetto".
Lì per lì mi era sembrata una perdita di tempo bella e buona, esattamente come lo erano i tentativi degli stessi scienziati pazzi, sulle invenzioni dei quali avrò scritto almeno mezzo quaderno (e io non appartengo alla categoria di ragazze che ricamano due parole e mezzo in una riga, quando sanno come andare a capo correttamente spezzando la terza).
Adesso, tuttavia, mentre osservo lo scontrino che mi ha dato Gabriele, mi accorgo di essermi sbagliata.
Non su tutto, se devo essere proprio sincera, perché argomentare nella bellezza di un foglio protocollo il processo tramite il quale uno degli scienziati cerca di estrarre i raggi di sole dai cetrioli per poi rilasciarli nelle estati particolarmente tiepide non mi era sembrata, e non mi sembra tutt'ora, una cosa molto, come dire, utile.
Se non altro, però, grazie ad uno dei progetti analizzati – il quale, guarda caso, è stato quello che la nostra professoressa ci ha fatto approfondire di meno – riesco a capire come mi sento in questo momento.
Il che non è né poco, né scontato, per me.
Praticamente questo progetto consisteva nell'insegnare ai ciechi come distinguere i colori toccandoli e annusandoli.
Sì, è una scemenza totale. Non c'è molto altro da aggiungere.
O meglio, non c'è nient'altro da aggiungere riguardo gli intenti politici e sociali di Swift. E su questo versante ho già dato, capitolo chiuso, basta, stop.
Tuttavia, avrei parecchio da dire su un altro versante, ossia il mio, ma condenserò il mio "parecchio", che consisterebbe altrimenti in pagine e pagine di divagazioni mentali e ragionamenti astrusi e irrazionali, in un secondo "praticamente", giusto per rendere la questione più comprensibile.
Praticamente, dunque, io sono uno di quei ciechi e quello che c'è scritto su quel miserrimo pezzo di carta è uno di quei colori – o, forse, anche più di uno.
Il mio caro e semplice guardare, stavolta, non può aiutarmi a capire quali sono quei colori, perché non so più cosa guardare, e comunque, se anche lo sapessi, non saprei come guardarlo. Questa cosa, di qualunque cosa si tratti, non è... guardabile. Non è un fiore nascosto dall'erba alta che puoi trovare, seppur con fatica, e riconoscere grazie ad una semplice occhiata. Sono delle frasi, e, per quanto stupido possa sembrare, nel momento in cui Gabriele le ha scritte per me hanno smesso, partendo dall'ipotesi che lo siano state nel lasso di tempo compreso tra la loro stesura e il momento in cui le ho lette, di essere semplici frasi e si sono... spezzate. Riguardano me, ma non le ho scritte io.
Una parte di esse viene dal sole, l'altra è nascosta dal buio. Non riesco ad inquadrarle e non ce la farò mai se continuerò a leggerle e a tenerle tra le mie mani, perché, da questo punto di vista, sono totalmente cieca e non posso capire cosa significhino.
"Ehi!"
Due colpi netti contro la porta dello sgabuzzino mi fanno sobbalzare e, istintivamente, rimetto lo scontrino nella tasca della divisa.
"Chi cavolo c'è qui dentro?". L'inconfondibile voce della mia vicina di cassa, Patrizia, mi risveglia definitivamente dal torpore in cui mi stavo perdendo e, con riluttanza, mi alzo.
"Chiunque sia, o apre immediatamente la porta, oppure non si disturbi a tornare a lavorare, perché..."
Giro la chiave e apro la porta. Devo ammettere che le sue ultime parole stavano quasi per convincermi a non farlo.
Ma oggi non è il giorno giusto.
"Sara?! Che..."
"Ero al telefono con mio padre e non volevo essere disturbata. E, se questa spiegazione non ti soddisfa, parla pure direttamente con lui: ti dirà che non sa nemmeno di avere una figlia".
Mi volto e la lascio lì, leggermente spaesata e ancora paonazza per l'esagerata scenata di prima, stupendomi di quanto un semplice accenno di tragicità possa inibire qualsiasi tipo di persona e distoglierla dai suoi più decisi obiettivi.
In primis, mio padre non ha l'Alzheimer; in secundis, le ho dato una non – giustificazione, e lei non se n'è nemmeno accorta.
Guardo l'orologio: sono le cinque.
Sto per dirigermi verso la mia cassa quando mi rendo conto che non è quello che voglio fare.
Osservo di nuovo lo scontrino, qui, in piedi tra lo scaffale dei sottaceti e quello delle maionesi.
Su un'altra cosa mi sbagliavo. Pensavo che non ci fosse nulla di personale nei confronti di Gabriele. Ora, invece, ho la netta sensazione che tutto questo sia molto più personale di quanto credessi.
Insomma... mi sto contraddicendo, in tutti i sensi.
E allora, Sara, non hai più scelta: l'unico modo per non rischiare di nuovo un suicidio collettivo da parte dei tuoi ormai disperati neuroni è deciderti a guardare veramente quello scontrino.
Parlando con Gabriele.
∞ ∞ ∞
Ottenere il permesso per finire prima il mio turno è stato relativamente facile. È bastato l'alone di tragicità rimastomi attorno dopo il breve, ma intenso, confronto con Patty - che, come ho già detto, è pappa e ciccia col capo - per farle tirare fuori quel senso di pietà impensabilmente nascosto in lei.
Uscire dal supermercato è stato altrettanto facile. Salire sull'autobus è stato facile. Anche sedermi in parte al finestrino, che non è sempre facile, lo è stato. Persino lasciar passare il tempo senza desiderare di farci a pugni pur di farlo rallentare, o accelerare, è stato insolitamente facile: forse sempre per la questione di quell'interferenza distruttiva mentale, e, nel mio caso, oserei aggiungere patologica, dato che non so bene nemmeno io cosa desiderassi di più.
Sono riuscita a scendere dall'autobus senza inciampare e rischiare così di rompermi l'osso del collo e nel Grande Bosco nessun cinghiale a dieta ha attentato alla mia vita.
È stato tutto molto facile. Tante, tantissime volte ho desiderato che ognuna di queste cose succedesse esattamente come è successa oggi, a partire dall'uscire prima dal supermercato. Ecco perché, adesso, vorrei fermarmi qui. Sotto il "mio" arco di pietra.
Potrei farlo, in effetti. Se lo facessi, oggi rimarrebbe un giorno semplice, e stop. Nulla di personale rischierebbe di metterlo in discussione. O meglio, ciò che di personale è intruso in esso, ossia quel piccolo pezzo di carta che ho in tasca, finirebbe per tornare a casa con me e per lasciarmi un piccolo vuoto, che tuttavia la consolazione di aver almeno provato a riempirlo compenserebbe.
Mi chiedo, allora, perché sto camminando. Perché non sono ferma sulla soglia dell'arco. Perché non so quel che sto facendo e perché non so dove sia finita la mia razionalità esasperante.
Non so nemmeno perché, improvvisamente, mi ritrovo a sapere la risposta a tutti questi perché. Lo so e basta: questa volta, non voglio lasciare le cose a metà. Non voglio rimanere a metà.
Ecco perché mi decido a fare un passo, e poi un altro, e così via, finché non mi ritrovo nella piazzetta del paese: una volta lì, immobile vicino ad una vecchia fontana, mi rendo conto che non ho la più pallida idea di dove abiti Gabriele.
Ed ecco concluse le cose semplici di oggi.
N.d.A.
Salve a tutti ;-)
Non so se qualcuno di voi riuscirà a sopportare anche quest'ennesimo capitolo di passaggio, ma, nell'improbabile caso che ciò avvenga, vorrei assicurarvi che è solo grazie ad esso che siamo giunti (alleluia) ad una svolta. E il merito va, come al solito, alle contraddizioni della nostra inconsapevole Sara: alla fine, infatti, dice concluse le cose semplici di quel giorno, mentre, in realtà, sono le più difficili che una come lei avrebbe mai potuto fare.
So che a volte mi perdo troppo nell'introspezione, ma spero che stavolta sia riuscita a migliorarmi su questo fronte: ringrazio davvero moltissimo chi mi supporta ;-)
A presto!
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