E stop

Mia madre è una delle poche persone che mi sono mancate di più, all'inizio. Non perché avessimo un particolare rapporto. Io ero sua figlia, lei era mia madre, e stop. Io le volevo bene, lei mi voleva bene, e stop.

Ecco, forse il problema erano quegli stop. Non c'è mai stato tra noi qualcosa che andasse oltre lo stop. Per esempio, il mio andamento scolastico non le è mai interessato particolarmente.

A sua discolpa va detto che fa l'insegnante da oltre vent'anni, ed essere circondata da ragazzini cinque mattine a settimana toglierebbe anche a me la voglia di parlare degli stessi pure a casa con un'altra ragazzina.

Oppure, non siamo mai andate al cinema insieme, a mangiare un gelato insieme, a camminare insieme o a ridere insieme.

A sua discolpa, di nuovo, va detto che questo non è sempre stata colpa sua.

Quando una era dell'umore giusto, l'altra le avrebbe volentieri cucito la bocca, e quando all'altra tornava il buon umore, l'una era troppo impegnata a rinfacciarle la sua villania per accorgersi che, così facendo, invogliava l'altra a cucirle nuovamente la bocca.

Vi lascio immaginare chi fosse l'una e chi fosse l'altra.

È sempre stato così. Ho imparato a non dimenticarmi nulla e, dopo un po', mi sono ripromessa di legarmi al dito ogni sua villania. Non perché la odiassi (ho già espresso il mio parere in proposito - io non odio la gente).

Io le ho sempre voluto bene.

L'ho fatto per ricordarmi di quando me ne dimenticavo, o di quando le sue parole mi facevano credere il contrario.

Il problema principale erano quegli stop e il fatto che nessuna delle due volesse mai andare oltre. Lei ha sempre accettato e ben visto i lati del mio carattere che ricadevano sotto la sezione "Buoni e giusti", e ha sempre ignorato quelli che ricadevano sotto la sezione (per lei) "Cattivi e sbagliati e indecenti e fuori dagli schemi e chi più ne ha più ne metta". Ma io sono sempre stata entrambe le cose. Buona e giusta e cattiva e sbagliata. Solo che lei, e mio padre, non l'hanno mai veramente capito. O accettato. Forse credevano fosse un periodo transitorio, legato all'adolescenza.

Beh, è più o meno la reazione di ogni persona che ne è uscita a più o meno ogni comportamento di chi ne è ancora immerso fino alla punta dei capelli: questa è un'assoluta verità che ho veramente odiato fin quando non me ne sono andata.

Perché, se c'era una cosa della quale ero assolutamente certa, una soltanto, era che da sola, o meglio, con loro, non sarei di certo mai uscita da quel periodo transitorio.

L'ultima cosa che mio padre ha detto su di me, dopo una furiosa lite, è stata che in quella casa, comunque fossero andate le cose, avrebbero sempre comandato loro, i miei genitori, e che non sarebbe mai importato ciò che avessi detto io, una stupida ragazzina, fin che avessero continuato a proteggermi dall'alto della loro autorità.

Non sarebbe mai importato se, su dieci cose che dicevo, una soltanto fosse appartenuta alla sezione delle cose cattive, perché, di conseguenza, le altre nove sarebbero ricadute anch'esse sotto quella sezione. Tutto spariva di fronte a quell'unica cosa cattiva, detta magari per caso, senza volerlo.

Certo, la colpa era anche mia. Ma io che potevo saperne di come ci si dovesse comportare di fronte a due quarantenni? Che potevo saperne di cosa era giusto fare, di cosa volevano vedermi fare, di cosa ricadeva nella loro visione di ragazza equilibrata e di cosa, secondo loro, era da considerarsi stupido, inutile o intollerante?

Io non ho mai avuto quarant'anni. Spettava a loro, spettava a loro comprendere. Almeno un briciolo in più.

Lascio tintinnare il cucchiaino contro la tazza e mi appoggio allo schienale della sedia del bar.

Mi è passata la fame.

Cristina continua a sorseggiare il suo thè.

L'ho portata in questo bar perché ci vengo spesso e perché fanno degli ottimi thè, che lei adora. E perché se vedesse dove vivo non mi guarderebbe più in faccia.

Oltre alla questione comprensione, comunque, che credo faccia schifo nella maggior parte dei rapporti tra adolescenti e madri delle stesse, con mia madre riesco, più o meno, a parlare.

Stando bene attenta alla mia linea.

"Come stai?", comincia.

"Bene".

Quando sono asciutta significa che a) sto per piangere, oppure b) non mi va di non essere ascoltata.

"Il lavoro?"

"Tutto normale. Come sta il papà?", chiedo con circospezione. Mia madre picchietta la mano, che tiene leggermente chiusa a forma di pugno, sul tavolino per due volte, segno che qualcosa la preoccupa.

"Sì, il papà sta bene. Jessica è molto impegnata con l'università e Nicola lavora ancora dai Rigatti. È tutto normale anche da noi".

Lo dice come se non fosse vero, ma so che è vero. Era sempre tutto normale a casa nostra, e il fatto che io me ne sia andata deve aver reso le cose ancor più normali. Ci scommetterei il lavoro.

Rimaniamo ancora un po' in silenzio. Lei sta aspettando che le chieda quella cosa, e io sto aspettando che lei smetta di aspettare che le chieda quella cosa.

Anche se, in fondo, è ciò che desideravo chiederle da quando ieri mi ha telefonato dicendomi che sarebbe venuta a trovarmi. Quindi, alla fine, faccio proprio quello che lei vuole che faccia.

Cinquanta chilometri di distanza e sembra non essere cambiato quasi nulla.

"Come sta Luca?".

Se l'atmosfera si potesse registrare su DVD, quella che ha appena avvolto il nostro tavolo in questo momento assomiglierebbe a una vastissima distesa d'erba ricoperta di neve e bagnata da una pioggerellina fine, una di quelle pioggerelline fastidiose e insostenibili.

Luca non è il mio ragazzo, non lo è mai stato, non è il padre di mio figlio né nessun altro.

Luca era un mio compagno di classe.

Era particolarmente carino per essere uno che andava benissimo a scuola nonostante passasse un quarto del pomeriggio a studiare e tre quarti a suonare il violino.

Non il basso, non la chitarra elettrica, non la batteria né qualche altro strumento che fa molto figo. Suonava il violino, e lo suonava da Dio. Non ricordo nulla di lui se non questo. Gli altri particolari devo averli rimossi.

Mi ero preparata a questo, ad ascoltare mia madre che mi avrebbe risposto senza guardarmi, a quello che avrebbe detto, a ripensare a Luca e a quanto suonasse bene quel suo violino che non permetteva a nessuno di toccare.

O almeno, credevo di esserci riuscita.

Ma, evidentemente, cinquanta chilometri di distanza non cambiano davvero quasi nulla.

"Luca sta bene. È stabile. Non ha ancora ripreso ad andare a scuola, ma lo farà. Sua madre mi ha detto..." Smetto di ascoltare. Sono estremamente brava, devo ammetterlo, ad ascoltare attentamente e a non ascoltare per nulla.

Guardo fuori dalla finestra e mi stringo al petto la maglietta, rimanendo a braccia incrociate.

Dicono che, quando si prova un dolore fisico, tenere le braccia incrociate diminuisca la sensazione di malessere. Funzionasse davvero anche con i dolori non fisici e mi incollerei le mani ai fianchi opposti.

Successe alla festa di fine anno. Quell'anno si svolgeva ufficialmente nella palestra della scuola, ma ai ragazzi degli ultimi anni del Liceo era arrivata la soffiata di una Festa con la F maiuscola a casa di Matteo. Anche la mia classe era stata coinvolta.

Non importa che rivanghi perché avevo deciso di andarci, quanto era grande e immensa la casa, quanta gente c'era, quanto la mia amica, quella della linea, si fosse quasi subito appartata con un tizio che teoricamente avrebbe dovuto essere il suo fidanzato, ma che, non appena aveva scoperto che - ma guarda! - i bambini vengono fuori da quel genere di rapporto, era magicamente scomparso dal suo fianco sempre più grande, o quanto mi sentissi a disagio.

Importa sapere che ero venuta con Luca e che Luca era ubriaco fradicio quando venne da me, verso mezzanotte, e cercò di mettermi le mani addosso.

Fu questione di un minuto e lui non ottenne nulla, se non una ginocchiata da quelle parti e un sonoro schiaffo sulla guancia. Non ottenne nulla fino a trentaquattro minuti dopo.

Fino a che, dopo che lui mi chiese di aiutarlo in qualche modo a tornare a casa, scusandosi, dopo che io non lo ascoltai neppure, dopo che gli lanciai le chiavi della macchina addosso, dopo che lui le prese e le infilò nella toppa e dopo che io lo guardai allontanarsi, dopo tutto ciò mi sedetti sull'erba e rimasi là a frignare per qualcosa che non era nemmeno successo, mentre lui si schiantava contro un albero a pochi chilometri da me.

Pensai solo a me stessa quella notte. Non fui abbastanza attenta ai particolari. Luca si era scusato e io non mi ero fidata di lui. Luca stava scherzando e voleva solo tornare a casa e suonare per diventare un musicista professionista.

A casa.

Non riuscii più guardare la mia casa nello stesso modo, da quel giorno.

Successero molte cose, in seguito, cose legali, burocratiche e quant'altro, ma quello che mi rimase impresso fu il succo, non il contorno.

Luca paralizzato dalla sesta vertebra cervicale in giù. La sua casa, silenziosa, vuota. La mia casa.

Dopo quella notte non riuscii più a guardarla. Poi decisi che non avrei più dovuto guardarla.

Così, due mesi dopo, mi rintanai qui. Scrissi una lettera ai miei e presi l'ultimo autobus della giornata, alle 11.26 della sera del tre settembre.

Ora lavoro in un supermercato.

La distanza non cambia quasi nulla, ma il tempo sì. All'inizio non passava giorno che non ci pensassi: si trattava spesso di pensieri sconnessi e per la maggior parte del tempo non realmente consapevoli del loro significato. Erano pensieri a caso, quasi automatici, che mi sentivo in dovere di spendere per Luca.

Col tempo si sono fatti sempre più radi, ma sempre più intensi. Quando ci penso, ci penso veramente.

Niente si è ridimensionato da quella notte, con tutto il rispetto per Cristina.

La prima cosa che lei mi disse, infatti, fu: "Parlane, e vedrai che tutto si ridimensionerà".

Si ridimensiona una figuraccia, un brutto voto, una giornata storta o un polso rotto, avrei voluto risponderle.

Non glielo dissi mai. Quelle parole mi vengono sempre in mente, quando la vedo, ma non ho mai il coraggio di dirgliele.

Vorrei dirle anche che se si potesse stare meno peggio ammettendo ogni cosa sbagliata compiuta nella vita, che sia la vita di una diciannovenne o di una settantenne, non sarebbe così difficile ammetterla. Ma le suonerebbe simile ad una frase fatta presa da internet e non l'ascolterebbe.

L'unica cosa che faccio, allora, è tornare a guardarla e risponderle più asciutta di un fiume in secca: "Okay".

Mia madre mi guarda perplessa. Deve aver capito che non ho ascoltato un'acca del suo monologo. Poi prende la borsa.

"Ti ho portato dei soldi, se dovessi averne bisogno..."

"Mamma, io lavoro".

"Sì, ma non puoi rimanere in un supermercato per il resto della tua vita!", esclama.

Vorrei risponderle che nemmeno Luca dovrebbe stare su una sedia a rotelle per il resto della sua vita. Che non ci rimarrò per tutta la vita, in quel supermercato, ma che non tornerò di certo mai da loro.

Però sto zitta. Non la finiremmo più. O almeno, lei non la finirebbe più. Sto zitta anche perché rimanere semplicemente asciutta mi aiuterebbe solo in presenza o del caso a) o del caso b), non di entrambi.

Quando usciamo dal bar sono le 11.29.

I soldi, alla fine, non li ho accettati.

"Sara". Mia mamma si volta verso di me. È in piedi nel punto in cui prima si trovava il teppistello.

"Torna a casa. Devi studiare per trovare la tua strada. Non devi stare da sola", mormora. Ha le lacrime agli occhi.

"Non voglio fare nessuna delle tre cose, mamma. Non finché è qualcun altro a dirmele".

Dopo aver detto ciò, non riesco a non abbracciarla.

Il problema non è che non le voglio bene. Il problema sono quegli stop, e quella linea che ci separa, ma che comunque sempre ci unirà.

E il problema, un po', è anche che oggi è mercoledì, e che di Gabriele, ieri, non ne ho vista nemmeno l'ombra.


Bạn đang đọc truyện trên: AzTruyen.Top