Destinazioni fittizie
Sono sempre fuggita dalle destinazioni.
Avete presente quei film in cui i protagonisti urlano tutti insieme: "Destinazione: ..." facendo seguire a questa gioiosa esclamazione, pronunciata il più delle volte sul rimorchio di un fuoristrada, il nome di un posto fantastico che nel 99% dei casi vi fa diventare verdi dall'invidia? Ecco. Sono sempre stata allergica a quei tipi di film. Li credevo troppo surreali, troppo smielati e troppo a lieto fine.
Stamattina però, mentre fissavo le crepe del mio soffitto, mi sono accorta che non ho mai pensato ad una cosa, accecata da tutte le mie simpatiche e puntigliose constatazioni: non ho mai pensato alla destinazione.
Ho sempre pensato alle circostanze, all'inverosimiglianza dei film, ai cliché delle coppiette che alla fine si sarebbero inevitabilmente dichiarate, se non accoppiate, e ho sempre spento la tv, o chiuso gli occhi addormentandomi sulle poltroncine del cinema, prima di vedere l'arrivo di quei quattro ragazzi alla destinazione urlata a squarciagola un'ora e svariati minuti di fotogrammi prima.
Non sono mai stata focalizzata sulla destinazione perché tutti insegnano che l'importante non è la destinazione, ma il viaggio, e il mio problema è che io ho sempre avuto talmente paura del viaggio che avere una destinazione non mi è mai passato nemmeno per l'anticamera del cervello. Fermarmi era semplicemente fuori discussione.
Eppure, senza una destinazione, credo che nessuno troverebbe un valido motivo per fare un viaggio. Si sa sempre dove andare, quando si parte. O, per lo meno, si sa sempre il perché del partire.
Io non ho mai saputo nessuna delle due cose.
Sono fuggita per scappare da ciò che ho fatto a Luca, ma questo non mi ha portato ad una destinazione. Mi ha portato ad un supermercato, ma, capite bene, non è esattamente la stessa cosa.
Ecco perché oggi ho deciso di scoprire cos'è successo alla fine di tutti quei film.
Pulisco il finestrino del treno con la manica della felpa.
Non ho tre amici rompiscatole a farmi compagnia, né un paio di Ray-Ban in testa che mi tengono indietro i capelli, né, d'altronde, il vento che me li scompiglia. Non ho nulla di tutto ciò.
Oggi ho solo una destinazione: il mare.
∞ ∞ ∞
È quasi mezzogiorno quando mi siedo ai piedi della spiaggia, in mezzo all'erba mai tagliata e bruciata dal sole. L'odore salmastro dell'aria mi pizzica le narici.
Il cielo è limpido, la spiaggia è deserta e l'unico rumore che sento è lo sciabordio delle onde sul bagnasciuga.
Tre sono le ragioni che rendono imperfetta quest'atmosfera: a) il cielo è limpido, ma all'orizzonte si intravedono dei, se non sbaglio, cumulonembi, che di qui a qualche ora faranno piovere a secchiate; b) la spiaggia è deserta perché ho tranquillamente scavalcato il cartello di divieto d'accesso posto all'entrata del vialetto semi abbandonato alle mie spalle; c) l'unico rumore che sento è lo sciabordio delle onde perché mi sono dovuta fare due chilometri a piedi per trovare una spiaggia (che poi, appunto, è anche teoricamente inaccessibile) lontana più di dieci metri dalla strada.
Dettagli a parte, adesso sono qui. Era da un sacco di tempo che non andavo al mare. Non ricordo l'ultima volta, sinceramente.
Dovrei sentire qualcosa, che so, una sensazione di pace, o di arrivo, o di qualcos'altro: sto osservando il mare da un punto della costa deserta e sono giunta a destinazione. E, anche se il mare non è l'oceano, rimane comunque una delle più grandi destinazioni - cliché della storia cinematografica e non.
Eppure non provo un granché. La sua vastità, anzi, quasi mi spaventa. Al contempo, però, non posso nascondere di trovarlo bellissimo.
Sembra che troneggi sul mondo intero dicendo: "Guarda tutte quelle persone che si affannano come se fossero tante piccole biglie rinchiuse in un flipper dai mille vicoli ciechi, mentre io me ne sto qui, calmo, a vedere come se la cavano".
Mi sdraio, poggiando la testa sulla felpa che ho appallottolato a mo' di cuscino sull'erba.
Ieri sera ho dato il mio primo bacio e adesso, tredici ore dopo, sono su una spiaggia ad osservare gabbiani, distante qualcosina tipo trecento chilometri da Gabriele.
Mi sfugge un sorriso a pensare al colmo in cui mi sono cacciata. Ma la cosa ancor più strana è che, non appena chiudo gli occhi, mi viene in mente, a proposito di film, quel film mentale che ho fantasiosamente elaborato il giorno in cui Elisabetta mi aveva detto di essere rimasta a vivere a casa di Alby sebbene avesse finito l'Università. Mi viene in mente Elisabetta, seduta sul divano, che teme che Alby possa volerla fuori da casa sua, e Alby, che, al contrario, non ha mai preso nemmeno in considerazione l'idea.
Poi mi viene in mente me stessa, quella persona che teme che Gabriele possa volerla e che non è riuscita a stare seduta sul letto per più di quattro minuti prima di prendere il primo treno e fiondarsi qui.
Riapro gli occhi.
Forse ho appena capito che per me non conterà mai niente né il viaggio né la destinazione, fintanto che continuerò a sbagliare entrambi e a fuggire, in particolare, la seconda opzione.
E che quindi quei film, probabilmente, non arriverò mai a capirli.
∞ ∞ ∞
Giovedì
Stanotte non ho dormito. Sono tornata a casa verso le undici, ma il rumore del mare e quello dei molteplici pensieri che hanno avuto modo di spiccare felicemente sul mare in tempesta che ha infuriato per tutto il giorno anche nella mia testa ha pensato bene di tenermi compagnia fino all'alba.
Per questo motivo, quando scorgo Gabriele spuntare all'inizio della corsia in cui mi trovo non riesco ad essere abbastanza in me da sorprendermi, né da pensare a come evitare l'argomento di cui sicuramente parlerà; tutti quei pensieri spiccati su di lui e su suo padre che mi hanno a dir poco perseguitato fino a qualche ora fa mi tornano alla mente prepotentemente, mandandomi talmente in confusione che, se potessi, gli volterei le spalle e me ne andrei.
Però, di nuovo, non lo faccio.
"Sara".
"Gabriele".
Può sembrare stupido, ma trovo la formula che ormai usiamo per salutarci molto più sopportabile dei soliti "ciao".
"Sai, sono venuto a casa tua, ieri, ma non ti ho trovata".
Con un braccio faccio cadere tutti i tubetti di salsa al pomodoro nello scatolone che tengo schiacciato tra lo scaffale dov'erano posizionati e il mio bacino, incurante di come possa apparire leggermente sgraziato il gesto che compio, poi lo appoggio a terra.
"Sono andata al mare".
Gabriele rimane muto per qualche attimo. Probabilmente è più stupito di quanto mi aspettassi.
"Fammi capire: ti sei fatta quattro ore di treno per vedere il mare?"
"Sì".
"Devono averti scossa parecchio gli eventi dell'altra sera".
Deglutisco a fatica. Non avevo pensato alla sua reazione, né alle sue risposte sempre così maledettamente schiette.
"Forse un po'", mormoro, continuando imperterrita a riempire lo scaffale ora vuoto con i sottaceti.
Improvvisamente, dopo un momento di silenzio durante il quale mi guardo bene dal rivolgergli una sola occhiata, Gabriele, senza staccare gli occhi dalla mia figura, pianta una mano sul barattolo di peperoni che ho appena afferrato.
A questo punto mi volto a guardarlo.
Mi aspettavo di vederlo sorridere, invece la sua espressione, seria, mi fa quasi indietreggiare.
"Possiamo parlare, da soli?". Le sue parole mi destano dal mio precario stato di spaesamento mentale e con la coda dell'occhio vedo una coppia di ragazze allontanarsi in tutta fretta verso le casse, ridacchiando.
Annuisco senza riflettere e in meno di dieci secondi mi ritrovo a chiudere la porta dello sgabuzzino.
"Perché?"
"Perché cosa?"
"Perché fai così?".
Rimango in silenzio. Gabriele incrocia le braccia.
"Se stai aspettando che ti risponda, sprechi il tuo tempo".
Lui distende le braccia e infila le mani in tasca.
"Okay, cambio domanda. Perché sei finita nel luogo più lontano possibile da me nemmeno poche ore dopo l'altra sera?"
Il suo tono di voce, ostinatamente distaccato, mi provoca, ma allo stesso tempo mi rendo conto di non sapervi reagire.
Aggrotto la fronte.
"Non volevo fuggire il più lontano possibile da te", mormoro, totalmente consapevole della contraddizione che ho appena reso palese.
"E allora perché?", ritenta, con voce più dolce.
"Non lo so".
Abbasso il capo. Lo sento avvicinarsi.
"Se il problema sono io, allora..."
Lo interrompo immediatamente, sorridendo senza farglielo vedere.
"Il problema non sei tu, Gabriele".
"Sara, sinceramente, se tu sapessi qual è il problema, me lo diresti?"
Stavolta incollo letteralmente il mio sguardo al pavimento. Potrei mentirgli, ma qualcosa mi dice che lo capirebbe subito. Di conseguenza, rispondo sinceramente: "No".
Poi, forse spinta da quel no, che mi suona così brutto, così fatalista, o forse per cercare di deviare dall'argomento, o forse per altri motivi a me ignoti, gli espongo la mia teoria, quella del puntino errante, badando di non guardarlo mai negli occhi.
Sono talmente abituata a pensarla, che spiegarla non mi risulta nemmeno così difficile.
Non so cosa mi dia la forza di non fermarmi dandomi della stupida ogni quattro secondi. Non lo faccio e basta. Forse vado avanti semplicemente per inerzia, perché fermarsi sarebbe più faticoso che continuare allo stesso modo di come ho miracolosamente iniziato.
Da buon puntino errante, questo lo so bene. E, a pensarci, adesso, forse il problema è proprio questo.
Nel rendermene conto, quando finisco la mia spiegazione, lo guardo.
Devo dire che non è niente male nemmeno lui nel lasciarsi affrontare.
Questo, però, non potrò mai confessarglielo. Non siamo due psicologi che si confrontano riguardo i loro problemi. Non è questo il senso.
"Non so quale sia il senso. Davvero, non so cosa stia cercando, né cosa stiano cercando gli altri cerchi. Ed è questo quello che so, insomma", concludo, a bassa voce.
Gabriele rimane, teso, a fissarmi. Devo dire che la sua reazione è invidiabile. Anche se stiamo parlando di Gabriele, per un attimo ho davvero pensato che sarebbe uscito di corsa dalla porta, o che mi avrebbe riso in faccia.
Invece no.
"Per non sapere nulla, rifletti su molte più cose di quante non me ne sarei mai aspettate", dice, alla fine.
"Perché tendo sempre a vedere la parte meno pratica di ogni cosa. Proprio di ogni cosa, credo. Forse anche dove gli altri potrebbero vedere solo quella".
Non faccio in tempo a rendermi conto dell'ambiguità delle mie parole che lui, prontamente, mi precede.
"Stiamo parlando di quello?"
Rimango zitta. Mi ha frainteso, non avevo nessuna intenzione di parlare di quello.
Non perché m'imbarazzi. Al contrario, questa è una delle poche cose che non m'imbarazza per nulla. Sono sempre stata estremamente aggiornata su ogni cosa riguardante il sesso, dopo la colossale stupidaggine da me compiuta quel venerdì funesto davanti al professor Fantasia. E questo perché non me n'è mai importato un bel niente, del sesso. Dal giorno dell'incidente di Luca, poi, l'ho quasi addirittura, come dire, apaticamente ignorato.
Non so se Gabriele se ne accorga, ma, dopo un attimo, l'angolo della sua bocca si solleva in quel suo mezzo sorriso che non ha niente a che fare con la malizia, bensì con la curiosità, e, con mia enorme sorpresa, si sporge in avanti e poggia le sue labbra sulle mie, portando lentamente le mani sui miei fianchi.
In un primo momento, mentre mi lascio travolgere dall'impennata della mia frequenza cardiaca, non riesco a capire la ragione del suo gesto, e penso che non riuscirò mai a capirla, né a capire lui. Penso sia sbagliato.
Poi mi rendo conto che a sbagliare sono io. Perché, in fondo, stiamo solo cercando di dimenticarci, per un attimo, di noi, e lo stiamo facendo entrambi, qui, in questo sgabuzzino. Io per un motivo, lui per un altro.
E questo lo sappiamo entrambi, benissimo.
"Sul lato pratico non vedo altro che questo, per ora. Sarò un po' cieco, forse, ma sono sincero".
"E se io non fossi Sara e tu non fossi la persona che sei adesso, ci penseresti?".
Il cuore mi batte all'impazzata e non ho idea del perché abbia appena detto ciò che ho detto.
Mi sono cacciata nello stesso guaio dal quale stavo cercando di sbrogliarmi.
Qualunque cosa mi succeda in questo sgabuzzino è oltremodo preoccupante se mi ha portato a chiedergli una cosa del genere.
Gabriele la prende seriamente. Ci riflette un po' su prima di rispondermi: "Con "se tu non fossi la persona che sei adesso" intendi dire "se io non fossi così coinvolto con la non – Sara alla quale sarei di fronte, o meglio, non sarei di fronte, se proprio vogliamo far combaciare le idee?".
Potrei imbarazzarmi fino a sciogliermi di fronte a ciò che ha appena detto, eppure sono talmente convinta di non contare così tanto come il modo in cui ha detto ciò che ha detto potrebbe far sembrare, che rimango seria e annuisco.
Gabriele riporta le mani in tasca e raddrizza la schiena, sorridendo.
"Credo che l'unica cosa alla quale penserei sarebbe la stessa, in ogni caso; punto primo: a meno che tu, o la non – Sara, se preferisci che io finga che potrebbe esserci una non – Sara di fronte a me, non aveste un preservativo nascosto nel portafoglio, cosa che faticherei a credere, saremmo totalmente sprovvisti di precauzioni, e non sorvolerei mai su questo fatto; punto secondo: puzzerei pur sempre da capo a piedi di patatine fritte e hamburger e, a meno che l'ipotetica non – Sara stamattina non si fosse svegliata nel bel mezzo di una crisi d'identità e ora si sentisse, che so, tipo un tubetto di maionese, non sarebbe un'esperienza particolarmente eccitante, e ci terrei a chiarirlo, in tutta onestà; punto terzo: sarebbe molto più comodo farlo in un letto, o su un semplice materasso, perché, per quanto ammiri l'originalità dell'atmosfera di uno sgabuzzino di un supermercato, questo posto non sarebbe mai all'altezza di una qualunque non – Sara, che, al contrario dell'originale, ci crederebbe senza bisogno della mia specificazione. Senza offesa a questo meraviglioso sgabuzzino".
Silenzio.
Non avrei mai pensato che la parola sgabuzzino, pronunciata da Gabriele, avrebbe rischiato di farmi venire un infarto.
Il pensiero di Luca, tuttavia, frena qualsiasi mia reazione. Provo una strana sensazione, ripensando soprattutto al punto terzo del suo monologo: è come se ciò che Gabriele ha detto mi facesse sentire autorizzata a denigrare Luca per quello che ha tentato di fare quella notte. Ma non mi sento pronta per questo. Non sono mai stata pronta per questo, non ho mai voluto esserlo, perché mi è sempre sembrata, e ancora adesso mi sembra, una stupidaggine rispetto a ciò che io ho provocato a lui.
Forse è sbagliato, o forse no, e forse potrei riuscire anche a spiegare a Gabriele perché non sto spiaccicando mezza parola, se...
"Sara, sei di nuovo lì dentro?!".
... Se Patrizia Comencini non fosse mai nata.
Ogni cosa rimane in sospeso, eccetto la mia voce, che sussurra: "Devo andare, scusami. Aspetta un attimo prima di uscire". Vorrei aggiungere che avrei voluto avere più tempo, più coraggio, per non lasciare di nuovo le cose a metà. Ma, per un semplice circolo vizioso, non lo dico e lascio anche questa frase a metà.
Poi mi volto, apro di colpo la porta, arrabbiata con me stessa, e m'incammino verso destra, senza degnare Patty di uno sguardo. Lei, come previsto, dà le spalle allo sgabuzzino per riprendermi. Non ho intenzione di ascoltare ciò che sta dicendo, ma, per darle questa impressione, mi volto.
Dietro di lei, aspetto di veder uscire Gabriele.
Nell'attesa colgo solo alcune parole della nenia della CC8 (Commessa Cassa 8, è così che ogni tanto il nostro capo ci nomina), del tipo "punizione", "lavoro", "turni extra", e dopo troppi attimi comincio a preoccuparmi, ma alla fine lo vedo sbucare dalla soglia e fermarsi a guardarmi.
Solleva una mano, tra le cui dita mi pare di vedere... uno scontrino?
Poi si avvicina allo scaffale delle pentole e lo infila nella prima che si trova davanti.
"... dunque, ti vuoi decidere o no?"
Questa è l'unica frase del discorso di Patty che riesco a recepire chiaramente e per assurdo, mentre Gabriele sparisce silenziosamente dalla corsia, mi vien voglia di risponderle: "no, non voglio decidere", dal momento che un pensiero improvvisamente spiccato sugli altri mi ha fatto venire in mente la favola di Hansel e Gretel e mi ha fatto associare Gabriele ad Hansel, a quello che lascia le briciole dietro di sé, e me stessa ad una Gretel un po' diversa da quella della favola, ad una Gretel che non può fare a meno di seguirle, ma che, ora, non riesce più a capire in virtù di chi, o di cosa, le stia seguendo.
Perché forse non è Gabriele la sua destinazione.
N.d.A.
Riguardo al discorso sul viaggio e sulle destinazioni, tengo a precisare che in realtà, io come persona ho molto a cuore la frase: "Ma i veri viaggiatori partono per partire e basta: cuori lievi, simili a palloncini che solo il caso muove eternamente, dicono sempre "andiamo", e non sanno perché. I loro desideri hanno le forme delle nuvole", di Charles Baudelaire – che è leggermente in contraddizione con ciò che ho scritto; ovviamente, però, Sara è un caso particolare, e così lo è tutto ciò che pensa.
Grazie a tutti per tutto e, particolarmente, per la vostra pazienza.
A presto!
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