Cimitero dolci
Ho sempre fatto pena con i ragazzi. Insomma, ci so fare quanto ci sa fare un pizzaiolo davanti ad una scarpa rotta da aggiustare, senza avere a disposizione un tubetto di colla.
Se avessi almeno quel tubetto di colla, forse riuscirei a spiaccicare qualche frase di circostanza e a sorridere e a fare quegli sguardi da ragazza timida, ma con il mare dentro, o una cosa del genere.
Invece quel tubetto di colla non ce l'ho, quindi faccio pena con i ragazzi.
Mi trovo sempre davanti a due casi: o sono loro che mi notano per primi, oppure lo faccio io. Nel primo caso, se sorridono, di solito ricambio e stop. Nel secondo caso, se sono carini, non appena alzano lo sguardo, faccio il contrario ed evito accuratamente il contatto visivo.
Loro non mi cercano, io non li cerco. Punto.
Eppure, con lui è diverso.
Non so cosa ci sia di diverso, in realtà, perché le cose sono andate esattamente come nel secondo caso. E lui non è 'sta gran bellezza, cioè, non è brutto, ma non è nemmeno bello da svenire.
Probabilmente è solamente il fatto che lo vedo sempre da solo ad attrarmi.
Esistono quattro tipi di attrazione, secondo me: l'attrazione fisica, l'attrazione spirituale (nel senso meno religioso del termine), l'attrazione provocatoria e quella distratta. Lui ricade nell'ultima categoria. Quella che nel 90% dei casi porta alla delusione, nel 9% al nulla e nel 1% al qualcosa.
Il pullman frena bruscamente e in un quarto di secondo mi ritrovo il tavolino richiudibile del sedile davanti al mio ficcato nello stomaco.
Impreco sottovoce e alzo lo sguardo per vedere cosa sia successo.
Faccio appena in tempo a scorgere un motociclista alzare una mano al conducente per scusarsi prima che il pullman ricominci a muoversi.
"Siete tutti interi?", chiede l'autista. Gli altri annuiscono.
Il mio stomaco resta zitto.
∞ ∞ ∞
Questo lunedì non poteva iniziare peggio di così.
A parte la questione delle mie viscere, che stanno ancora piangendo, oggi mi tocca rifornire gli scaffali di metà supermercato con i prodotti che sono arrivati stamattina, ossia i ritardatari del sabato sera. Teoricamente, quando capita, spetta a Susanna sistemarli, ma pare che il virus della sua terribilite sabbatica abbia subito qualche variazione genetica che ha prolungato il suo effetto.
Il primo imballo che apro è pieno di uova: per raggiungere il loro scaffale, visto che sono le nove e il supermercato è già pieno zeppo di allegri mattinieri, decido di passare davanti alle casse e poi deviare per la corsia dei prodotti per la casa.
Mi imbatto nel padre della settimana scorsa non appena esco dal magazzino, rischiando di investirlo con il carrello stracolmo di scatoloni. Sembra una giornata a tema.
"Mi scusi, non l'avevo vista!", dice alzando le mani, come se fosse stata colpa sua.
"Non è stata colpa sua, mi scusi lei", lo rassicuro, non riuscendo a non perdermi per un attimo nei suoi occhi sinceri, da marito novello e quasi - padre ansioso. Sono azzurri.
"Si sente bene?", mi chiede. Abbasso lo sguardo.
Sento l'improvviso impulsi di rispondergli sinceramente, ma poi mi trattengo.
Efficienza, cortesia e distacco. Questo è il motto, e questo, di conseguenza, è quello che devo essere io: efficiente, cortese e distaccata. Di – stac – ca – ta.
"Sì, grazie. Mi sono ricordata che una settimana fa non le ho dato lo scontrino della sua spesa. Era lunedì scorso. Yogurt al cocco...". Non appena dico le ultime tre parole, lui s'illumina e mi guarda sorpreso.
"Oh, lei è la commessa! Non si preoccupi, non me n'ero minimamente accorto", dice, sorridendomi impacciato.
"Tenga". Lo tiro fuori dalla tasca e lo liscio con le dita. Lo sguardo mi cade nel suo carrello. Questa volta è pieno di yogurt alla fragola di una marca semisconosciuta che a me piace un sacco.
"Grazie! Non doveva".
"Dovevo, invece", replico. Poi, senza alcun motivo, aggiungo: "Sono anche i miei preferiti. Gli yogurt", preciso.
L'uomo sorride, questa volta senza imbarazzo: "Sono per..."
"Sua moglie", concludo, fregandomene altamente del concetto di distacco. Il signore non si scompone per il fatto che l'abbia interrotto, anzi: il suo sorriso si illumina e il suo volto abbandona l'espressione imbarazzata di prima.
"Proprio così. Ha gli ormoni impazziti, è incinta... ma avevi capito anche questo, vero?"
È il mio turno di sorridere. Era da tempo che non lo facevo di mia spontanea volontà.
Poi me ne vado.
"Arrivederci", dico.
"Arrivederci. E grazie!", mi saluta.
Scuoto la testa ed entro nella corsia accanto. Decido di riempire per ultimo il banco degli yogurt.
È sbagliato scappare sempre in questo modo. Ma non riesco a farci niente, non riesco proprio a farci niente di niente, nada de nada... finché una voce non si interpone tra i miei pensieri e le confezioni di uova che ho appena cominciato a sistemare.
"Mi scusi, dove si trova il reparto dolci? L'ho cercato dappertutto, ma non riesco proprio a ..."
Quando il ragazzo mi vede si blocca. Quella che va totalmente in tilt, però, sono io.
È il ragazzo. Proprio quello.
"Lei è... stamattina era sull'autobus?", mi chiede.
Sposto la mano per appoggiarmi al carrello, ma la confezione ruvida di uova mi scivola da sotto le dita: la afferro prima che sia troppo tardi con un'agile mossa grazie alla quale rischio di strapparmi tutti i muscoli della spalla sinistra, poi la rimetto al suo posto.
Un brivido caldo scende lungo la mia schiena mentre torno a fissare il ragazzo, che mi sta fissando a sua volta.
"Se fossi stato al suo posto, la frittata era assicurata", commenta.
"Sì", dico.
"Sì, era sull'autobus?" ritenta.
"Sì".
Ma che cavolo, cervello, hai dimenticato le altre ventiquattro lettere dell'alfabeto?
"Mi sembrava di averla già vista. Sono scivolato con la moto e l'autista ha dovuto frenare per non investirmi. Un bel colpo, immagino".
Udite, udite: sta per arrivare la risposta più originale dell'anno...
"Sì".
Vorrei sotterrarmi. Il ragazzo, però, sorride, e io, dato che non sopporto trovarmi in imbarazzo davanti a qualcuno, non esito a riappropriarmi della mia voce.
"Non è divertente, ho rischiato l'asportazione dello stomaco".
Il ragazzo sorride di più: "Io ho rischiato l'asportazione della mia anima da questo pianeta, ma mi dispiace comunque per il suo stomaco".
Scosto lo sguardo e impilo tre confezioni di uova. Efficienza, cortesia, impatto. No, aspetta, non era così.
Efficienza, cortesia...
"Non fa niente, il reparto dolci..."
Efficienza, cortesia, velocità. No!
Ma i motti non dovrebbero essere facili da ricordare?
"... è nella terza corsia a... ma lei non stava andando dalla parte opposta al supermercato?".
Cavolo, distacco. Ecco cos'era. Quanto è infida la connessione cervello - lingua. Si attiva sempre quando ormai è troppo tardi perché possa salvarti la faccia.
Il ragazzo scrolla le spalle: "Non sarebbe stato aperto a quell'ora, così ho fatto un giro".
La sua risposta non fa una piega e sembra definitiva. Torno a guardare le uova che ho sistemato sullo scaffale.
È finita lì? Rientro in quel 90%?
Sto già per rassegnarmi quando, d'improvviso, parlo di nuovo, voltandomi a guardarlo come se lo vedessi per la prima volta.
"Ma oggi non è martedì", esclamo con stupore. Il ragazzo imita il mio tono di voce, continuando a sorridere.
"Caspita, ha ragione. Ho infranto la mia routine, cosa mi devo aspettare, la pena di morte o la cassa con la ragazza dai capelli rossi?"
Mentre mi chiedo dove possa trovare un badile abbastanza robusto da riuscire a rompere le piastrelle del pavimento per la mia fossa, un lieve cambiamento nell'aria che mi circonda mi fa miracolosamente tornare in me. La musica che c'era in sottofondo si è interrotta a causa dell'avviso di non so che cosa.
Per la terza volta mi rimetto a controllare – senza che ce ne sia alcun bisogno - di aver sistemato per bene queste benedette uova Coccodì, poi, quando sono sicura di aver recuperato una quantità di autocontrollo sufficiente ad assicurarmi una certa dignità, gli dico con voce anonima: "La porto al reparto dolci".
Afferro il carrello e lo indirizzo verso la fine della corsia. Per un po' restiamo zitti, io perché troppo intenta a ripetermi nella mente il mio adorato motto, lui perché probabilmente non vede l'ora di allontanarsi da questa stramba commessa.
"Quanti anni hai?" mi domanda improvvisamente dopo che abbiamo superato tre corsie.
"Diciannove. Lei?".
Non è che mi interessi veramente. Potrei scommettere che ne ha venti. Glielo chiedo soltanto per dargli di nuovo del lei.
Distacco.
"Venti. Potremmo darci del tu, se ne avessimo voglia".
Aumento leggermente il passo, ma lui sembra non accorgersene.
Vorrei che fosse arrogante, che avesse almeno una sfumatura di arroganza o di prepotenza larga quanto un'unghia nella voce. Ma niente.
"Potremmo". Giro l'angolo e indico una stretta colonna verde acqua.
"Quello è il reparto dolci".
"Ah. Non so perché, ma quando ha detto "reparto" mi sono venuti in mente scaffali pieni zeppi di aromi, lieviti, preparati, gelatine, stampini, meringhe, meringhette... insomma, quelle cose lì", dice piazzandosi accanto a me.
Lancio anch'io un'occhiata più attenta a quei quattro prodotti messi un po' a caso tra la farina e il latte a lunga conservazione.
"Forse "angolo dolci" è più adatto", mormoro.
"O Cimitero dolci. Suona bene". Mi scappa un sorriso, ma mi affretto a coprire quella crepa. Non so se mi abbia visto. Il mio sesto senso mi dice di sì, ma che importa?
"Questo è tutto quello che abbiamo". Quando alzo lo sguardo, il suo si abbassa, di poco, e incontra il mio, giusto per un paio di secondi.
"Devo andare, mi spiace. Arrivederci". Mi giro di scatto e punto al reparto biscotti.
"Arrivederci", lo sento dire.
Non gli rispondo.
Per un po' non penso proprio a niente. Rifornisco lo scaffale dei biscotti e quello della cioccolata, infine incollo il mio sguardo ai quaranta tipi di yogurt e sistemo anche quelli. Il ragazzo se ne va qualche minuto prima che finisca.
Quando torno verso la cassa, noto la chioma rossa (tinta) di Maria ondeggiare a destra e a sinistra mentre passa al registratore alcuni prodotti e mi sfugge un sorriso.
Chi l'avrebbe mai detto che la simpatia della commessa dai capelli rossi non balzasse all'occhio solo a me...
Sto per fare quattro salti mentali indietro nel tempo, per assimilare quello che è successo davanti alle uova e al Cimitero dolci, quando un peso insostenibile si piazza tranquillamente nel mio petto, mozzandomi il respiro.
È simile al piombo o a una colata di melassa che mi appiccica ogni muscolo e scivola lentamente, ma inesorabilmente, verso il mio stomaco. Vorrei contrarre i muscoli, ma non ci riesco, vorrei scuotermi e togliere quel cumulo di polvere che sta logorando ogni mia cellula, ma non ci riesco, vorrei mandar giù ma non ci riesco, vorrei smetterla, smetterla, smetterla...
Non ricordo come ci sono arrivata.
Stringo le inferriate e appoggio la testa sul freddo cemento del davanzale.
Ho aperto la porta e sono entrata. Questo è certo. Non ricordo il come.
Mi tremano le gambe: mi lascio scivolare contro il muro, sfregando i palmi delle mani contro di esso finché non li appoggio alle mie ginocchia ormai piegate, toccando con la fronte la parete.
Il dolore, pian piano, passa. Mi rialzo in piedi e osservo il mio riflesso nella finestra appannata.
Non ho pianto. Ormai non lo faccio più da un po'.
Sembra che abbia visto un fantasma, ma in generale il mio viso non mostra altro.
È questo che odio di più dei miei attacchi di panico. Quando passano non rimane alcun segno di loro e certe volte combatto con la mia stessa mente cercando di convincerla che c'è stato, che sono stata male, che è successo qualcosa.
Ma è difficile.
Fisicamente non lasciano traccia e mentalmente mi mandano in tilt, ma quando passano torna tutto come prima e non c'è nulla, non c'è nulla che possa fare per riuscire a capire cosa sia successo in quel "tilt", e se sia successo. Non c'è assolutamente nulla.
Faccio solo una cosa non appena riprendo il mio posto in cassa: il mio lavoro.
Quello per il quale ho lasciato la scuola, per il quale mi alzo ogni mattina alle sei, o prima, certe volte, e per il quale le gambe, a fine giornata, mi diventano dei pezzi di legno.
Poi, pian piano, mentre le ore passano, cerco di pensare di nuovo, ma a piccole dosi, a quel momento.
Fra tutti i martedì in cui l'ho visto negli ultimi otto mesi, durante i quali la probabilità di parlargli, anche per sbaglio, è sempre stata molto più alta della probabilità che accadesse in qualsiasi altro giorno, è successo nel suo unico lunedì. Gli ho parlato nel suo unico lunedì. Unico, ne sono sicura.
Chiudo la cassa, mi cambio ed esco.
Dopo aver lanciato ogni tipo di maledizione contro la mia professoressa di matematica e la sua ossessione per il calcolo delle probabilità, l'unica volta in cui ho provato ad applicarlo alla realtà, fatto quanto meno improbabile, ha sbagliato!
Queste sono più o meno tre giorni di studio completamente perse.
Salgo sull'autobus e mi siedo in fondo, vicino al finestrino.
Io non sono una che crede in queste cose. Nelle cose speciali. Non più, e mai più dovrei farlo.
Però succede qualcosa quando il tempo passa e di punto in bianco non ti trovi più a vagare tra una miriade di gente, vicino a una miriade infinita di vite, ma decidi di sfiorarne una, una sola: ti trovi a dover togliere il pilota automatico e ad affrontare. Semplicemente ad affrontare.
Vedo il sole tramontare dietro gli alberi, andando a nascondersi dalla notte.
Il mio tramonto dura da otto mesi, da quando mi sono nascosta da una notte troppo potente da poter essere affrontata.
Non so ancora se sia scappata da qualcosa di bello o da qualcosa di veramente brutto come ho sempre pensato. Ma adesso, dopo questa giornata, non riesco a non pensare di dover riprovare davvero ad affrontare.
Potrebbe essere il mio sesto senso a suggerirmelo. Certo, lo sto ignorando da un bel po'... ma finché non ci va di mezzo un ombrello e qualche metro cubo di acqua, potrei anche tornare ad assecondarlo.
Forse.
N.d.A.
Non sarà stata un'entrata in scena trionfale o particolarmente grandiosa, ma, se non altro, il ragazzo ha ufficialmente fatto il suo ingresso nella storia. I dialoghi sono il mio punto debole (non che, per questo, io abbia un punto forte, ovviamente...), ma spero che, nonostante ciò, risultino perlomeno decenti. A voi il giudizio.
Grazie e a presto :-)
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