46 - Aria
🦋 In memoria di Diana.
La tristezza del mondo è un brivido nero.
Vorrei che avessi avuto il tuo Chris, per portarti via prima che fosse tardi.
«Non sembri in forma, Scorpio».
Candy sprizza sensualità e un'armonia luminosa che stona con gli abiti succinti che indossa dietro al bancone del bar. Questa sera a stento la guardo in faccia. Ho passato la notte sulla spiaggia e non c'è parte del corpo che non mi faccia male. Se guardo il mare vedo Lucia, se chiudo gli occhi la sogno. Immagini lucide, in cui sento il sapore della sua pelle come se fosse sopra di me. Non riesco a pensare a mia madre, come se quello che ho visto ieri fosse solo un altro sogno troppo reale. Il resto è nebbia spessa, anche il suono di quel pianto disperato che mi rimbomba ancora nelle orecchie. È l'alba e il Black Bridge è quasi vuoto.
«Sto una favola» rispondo, e le rendo il bicchiere vuoto.
«Hai un incontro oggi?»
Annuisco. Tiro fuori il cellulare e lo appoggio sul bancone, l'ho silenziato per non sentire le chiamate di mio padre, ma quando si illumina di nuovo appare un numero che non conosco. Lascio che lampeggi a lungo, poi, chiunque sia, rinuncia. Ci sono due chiamate di mio padre, un suo messaggio, e altre venti del numero sconosciuto. Ogni emozione è attutita, anche il cuore che salta un battito nel vederle. Spero che sia qualcuno che mi dice che Jack si è finalmente schiantato con l'auto contro un albero. Sorrido, il mio sorriso da squalo.
Candy appoggia una mano sulla mia. «Non combattere stasera. Non sei a posto».
«Non sono affari tuoi» ringhio. Lei si tira indietro e riprende ad asciugare i bicchieri. Vorrebbe offendersi e non ci riesce, mi lancia occhiate preoccupate.
«Come sta il fratello della ragazzina? Ha due occhi davvero meravigliosi, per quel che riusciva a tenerli aperti» dice lei.
Accidenti agli occhi di Mic, se dietro quelle palpebre non ci fosse stato lo stesso sguardo di Lucia, l'avrei lasciato lì ad ammazzarsi con il Nod. E non è escluso che riesca comunque ad accorciare il poco tempo che gli resta. Stringo le labbra al pensiero e fatico a riconoscere il dolore che mi attanaglia le viscere. Sono libero, niente legami, niente responsabilità, com'è giusto che sia.
Il telefono riprende a squillare. Candy mi guarda, appoggia il bicchiere. «Rispondo io? Dico che hai da fare».
Scuoto la testa. Al decimo squillo scorro il dito sullo schermo e sento la voce ansiosa della vicina di casa. «Christian, scusami, non voglio disturbare».
«Venti chiamate e non vuole disturbare?»
«Lo so, ma voglio solo sapere se sei a casa». Si interrompe un istante, si sente una finestra che si apre. «Tuo padre è uscito in questo momento e la bambina... come si chiama? Non importa, volevo dire...»
«Deve parlare con Jack di questo, gliel'ho detto. Comunque non sono a casa».
Avvicino il dito per riattaccare e sento la sua voce concitata. «Piange ininterrottamente da ieri sera, quando l'ho lasciata con lui. Se suono alla porta non mi lascia entrare. E adesso è uscito, ma non l'ha portata con sé».
«Deve farsi i fatti suoi. Ci penserà lui alla bambina».
Chi? Jack? L'ubriacone che ti pesta a sangue? Si occuperà di una neonata che urla?
La mia mente riprende a ragionare piano, come se fosse rimasta addormentata a lungo.
«Non posso far finta di niente, Chris. Non la sento più piangere».
Riattacco e sbatto il telefono sul bancone. Il vetro si scheggia. Candy sta ferma, aspetta che le chieda aiuto. Mi conosce come le sue tasche.
Mi schiarisco la voce. «Quanto può stare un neonato da solo?»
Mi guarda come se fossi un alieno, ma io non so niente di bambini, non mi piacciono neanche. «I neonati stanno con la mamma, di solito, o con il papà. Con qualcuno che si prenda cura di loro». La musica del locale mi rimbomba in testa, ma non mi impedisce di pensare quanto invece vorrei.
«Ogni quanto mangiano?»
Candy si sposta da un piede all'altro, a disagio, poi si china verso di me fino ad essere molto vicino. «Dipende dall'età».
«Appena nati».
«Chris, spesso. A volte anche ogni ora, se il parto è stato traumatico».
Non vorrei avere così nitida nella mente l'immagine della stanza da letto di casa mia dopo la nascita di mia sorella. Ok, mangiano spesso, Jack le avrà dato da mangiare. E in quel momento si sveglia del tutto il mio istinto, quello che mi permette di sopravvivere nell'ostilità di questa periferia. Da quante ore mi sono allontanato? Dodici. Merda.
«Tra quanto smonti?»
Quella ragazza meravigliosa si slaccia il grembiule, scavalca il bancone ed esce con me. Mi resta ancora il dubbio che non abbia pensato le stessi proponendo una scopata nei bagni come la prima volta, ma la velocità con cui si è messa a disposizione mi ha commosso. Siamo i peggiori, qui al fiume, ma formiamo squadre fantastiche.
Il sole sorge alle mie spalle e mentre mi avvicino a casa la mia paura aumenta, tanto che mi fermo con la mano sulla maniglia.
Candy mi incita a entrare. Le ho chiesto di aspettarmi fuori nel caso fosse rientrato Jack. Lui infatti dorme su una poltrona. Stringe una bottiglia tra pollice e indice e russa. L'odore di alcol mi prende allo stomaco. Dalla camera da letto non proviene nessun rumore. Ho un groppo in gola e per un istante mi vedo mentre mi giro, infilo la porta e me ne vado senza sapere, senza vedere, senza l'immagine della bambina che ho abbandonato senza neanche voltarmi indietro.
Di solito mi sento adulto, indipendente, capace. Ora non ho addosso neanche i miei quasi quindici anni. Stringo i denti e spingo la porta. È in una culla che mia madre si è fatta prestare da un'amica pochi giorni fa, era felice dell'arrivo di questa bambina. Non piange. E' ancora avvolta nello stesso telo in cui l'ho vista quando sono tornato e l'odore nella stanza è pungente.
Mi chino su di lei. Respira piano. Quando la sollevo mi rendo conto che il telo è intriso di urina e feci verdi. Non so neanche come tenerla in braccio e mi viene da piangere di rabbia. La appoggio contro di me e vado in bagno, apro il rubinetto e aspetto, come se non sapessi che l'acqua calda non c'è mai stata. Alla fine la lavo alla meglio e l'avvolgo in un asciugamano pulito. Quando sono sulla porta, Jack si muove, socchiude gli occhi.
«Cosa le hai dato da mangiare?»
Non risponde.
«Hai dei pannolini?»
«Chiedilo a tua madre» risponde.
Penso che sia ancora ubriaco, ma poi ride, un ghigno cattivo, e so che è sobrio.
«Sei una testa di cazzo». Sbatto la porta alle mie spalle e sento la bottiglia di vetro che si infrange contro la lamiera.
Appena fuori Candy mi guarda a occhi spalancati.«Tu... con la ragazzina?» chiede.
Se non avessi il cuore a mille per la paura che la neonata mi muoia in braccio da un momento all'altro, mi scapperebbe da ridere, poi forse piangerei anche. Una figlia con Lucia, non ci avevo mai pensato. Fa male.
«No» mi affretto a rispondere. E poi lo dico. E allora diventa vero. «Lei è mia sorella».
«Non sta bene, Chris. Dobbiamo farla mangiare».
«So dove andare».
«Hai una macchina?»
«No. Non importa. Andiamo». Comincio a camminare e Candy mi ferma, sfila la bimba dalle mie braccia che tremano, mi apre la camicia. La appoggia contro di me, la pelle bollente di quella cosina contro quella ghiacciata del mio petto, il suo cuore piccolo contro il mio, e allaccia il telo dietro la mia schiena. Chiude due bottoni e mette le mie braccia a sostegno. La guardo ammirato. «Così sente che ci sei» dice. Ha gli occhi lucidi e non le chiedo dove abbia imparato quelle cose, ma ricordo il taglio basso sopra il pube, quando abbiamo fatto sesso.
«L'ho dovuta dare via. Non avevo i soldi per mantenerla e poi, che vita avrebbe avuto qui? La mia?» La capisco anche troppo bene, ma il peso che sento addosso aumenta e non è la bambina che porto sul petto. Lei è una piuma.
Candy incrocia il mio sguardo e riprendiamo a camminare veloci. «Come si chiama?»
Non lo so. Non ha un nome. Inspiro a fondo e lei si muove contro di me. Respira. E riprende a piangere. È un sollievo sentirla. La mia libertà, la mia voglia di andarmene, muoiono.
«Aria. Lei è la mia Aria» dico. Ci sarò sempre per lei.
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