39 - Solo insieme

«Agitato?»

«No».

In effetti quando si trova davanti la commissione d'esame, Michele parla con scioltezza, è disinvolto, integra una materia con l'altra, si rivolge a viso alto, occhi negli occhi, ai suoi professori che annuiscono attoniti e adoranti. La camicia celeste fa risaltare l'incarnato troppo pallido e gli occhi chiari. La sua espressione è aperta, solare, intelligente, niente a che vedere con il temporale che gli batteva in testa il giorno prima. Le sue mani si muovono eleganti, lente, mentre illustra un concetto che non riesco a capire perché sono troppo concentrata su di lui, che neanche mezzora fa rifiutava di alzarsi dal letto e adesso incanta tutti i presenti, me compresa.

Conclude l'esame come se fosse una banale interrogazione, poi si gira a fissarmi e mi fa il segno della vittoria. Viene verso di me. Gli passo una mano dietro la schiena e gli do un abbraccio rapido, forse un po' freddo. Mi illudo che sia soddisfatto per avermi dato ascolto, ma non è così.

«Sei stato fantastico».

«Sei contenta adesso?»

Mi giro stranita verso di lui, capisco il dolore per Lucia, i momenti di tristezza in cui si barrica in camera al buio con quelle dannate cuffie nelle orecchie, ma non diplomarsi per questo mi sembra quasi surreale. A me, che non ho potuto proseguire gli studi e ho chiesto in prestito appunti di altri più fortunati di me, avida di nutrirmi con qualcosa che sentivo fondamentale per non sprofondare nel marcio che mi circondava. Quella me, proprio non capisce il ragazzo ricco che fa i capricci e purtroppo lo giudica. «Non ti capisco».

Il suo sguardo cambia, diventa profondo, duro. «L' ho fatto solo per farti contenta».

«Allora potevi risparmiartelo».

«Era quello che tu volevi e io l'ho fatto. Adesso andiamo a casa».

«Hai una fortuna che non ti meriti». Più abbasso la voce, più il mio tono vibra di stizza e fastidio.

Mi giro per uscire dal cortile assolato, ma lui pianta un braccio contro il muro e mi blocca. È chino su di me, esistiamo solo noi due. L'aria che ci separa è rovente. Nessuno dei due abbassa gli occhi, nessuno fa un passo indietro. «Hai proprio ragione, Samantha». Sillaba il mio nome con astio e non riesco a ricordare come siamo finiti ad aggredirci in questo modo. Socchiudo le labbra per dirgli che mi dispiace, che non intendevo davvero quello che ho detto.

Elena ci raggiunge insieme al suo profumo di gelsomino e il mio proposito sfuma in un lampo lucido di rabbia. La sua gioia solare viaggia in parallelo al nostro disagio, ma lei non se ne accorge. Mi ignora come sempre e questa volta ne sono contenta. Approfitto della distrazione per passare sotto al braccio di Mic e uscire dal cortile. Non mi volto indietro, vederli insieme mi annienta, come se lui potesse essere solo mio. Non ho mai permesso a nessuno di toccarmi il cuore e non lo farò adesso. Da dove viene questo sentimento? Dove nasce? Il bacio sotto la neve era solo una scommessa. Il braccialetto? Nient'altro che pietà. 

Sono arrivata alla macchina di Vanessa, ma i pensieri che ribollono in testa stanno diventando intollerabili e invece di fermarmi, punto dritta verso la fermata dell'autobus. Con la coda dell'occhio vedo l'auto in borghese degli agenti che ci seguono quando ci spostiamo dalla villa e penso a Zanna. Questa mattina, quando ci siamo alzati, non era ancora rientrato. È raro che la televisione sia accesa, ma Vanessa stava seguendo il telegiornale. Nella notte sono state intercettate sei chiatte che trasportano il Nod lungo il fiume, i mezzi sequestrati e i corrieri arrestati. Zanna ha avuto la sua vendetta e la mia paura, visto che conosco mio padre, è che sia stata solo una dichiarazione di guerra. Gli uomini che Zanna ha in custodia sono fedeli a Frog e non lo aiuteranno, temono per chi hanno lasciato alle baracche. Non parleranno mai.

Avrei fatto meglio ad andarmene subito, prima di creare tutti questi problemi a Chris e alla famiglia di Mic, prima di lasciarmi coinvolgere da quel ragazzo così diverso da me. L'autobus accosta al marciapiede e apre le portiere. Salgo, ma una voce mi fa fermare sul primo gradino.

«Sam!»

Lo vedo correre lungo il marciapiede dal lato opposto. Ha il viso preoccupato e arrabbiato. Il ricordo di Michele che mi pugnala con gli stessi occhi resi elettrici dalla rabbia mi attraversa e mi torna in mente il regalo di Lucia. Oggi è il suo compleanno. La mia rabbia sfuma.

L'autobus riparte e mi lascia ferma sul marciapiede.

Mic afferra la mia spalla e cerca di riprendere fiato. «Non farlo mai più!»

«È un ordine?»

Lui solleva il labbro superiore come non gli ho mai visto fare, è buffo e mi scappa una risata. Lui resta serio. «Non ti darò mai ordini» risponde. La discussione si chiude lì e scendiamo a prendere l'auto.

***

Michele ha acceso la radio e guida in silenzio. Schiarisco la voce a disagio. «Potevi rimanere a festeggiare con Elena».

«Non ho niente da festeggiare».

Incrocio le braccia sul petto e guardo fuori dal finestrino. «Ricordati di vivere sempre come se fosse l'ultimo giorno». Le parole lette sul biglietto di Lucia, attaccato a quell'ultimo, strano, regalo mi affiorano alle labbra in maniera spontanea e Mic mi inchioda di nuovo al sedile con uno sguardo di fuoco. Oggi lo sto facendo davvero infuriare e già che sono sulla strada giusta sgancio anche l'ultima bomba. «Se hai una ragazza, il giorno del tuo compleanno lo passi con lei. Non corri dietro a un'altra».

Mic stringe i denti e quando risponde lo fa in tono piatto, tuttavia dentro riesco quasi a sentire la marea che sale. Mette i brividi. «Avevo paura per te».

«Abbiamo auto che ci seguono ovunque. Non devi proteggermi. Lasciami a casa, se vuoi, ma festeggia con lei. Il diploma, il tuo compleanno, quello che ti pare. Io sto bene». Controllare il tono di voce ed evitare che suoni sarcastico mi riesce abbastanza bene. Dentro ho una piccola Sam che ride di me.

Mic accosta a lato della strada e quando si volta a guardarmi la marea che gli sbatte dentro divora me, spiaggia deserta da sempre in balia delle onde. «Quello che stava per succedere tra noi due è sbagliato, Sam. Fidati. Non farebbe bene a me e neanche a te. Non ne hai bisogno adesso».

Il viso assonnato di Chris mi torna in mente. Non credergli. Mic ha gli occhi sinceri mentre parla, pensa davvero che mi farebbe del male, ma non capisco in che modo. A ferirmi in questo momento è solo la distanza tra i nostri corpi, il desiderio che riesco con fatica a tenere sotto controllo ed è per me una sensazione del tutto nuova. Non c'è stato giorno, negli ultimi tre anni, in cui non abbia desiderato l'estinzione della popolazione maschile del pianeta o che non abbia temuto le mani o il corpo di un uomo.

Slaccio la cintura di sicurezza e mi sollevo in ginocchio. L'auto di Vanessa è vecchia e ha un tipo di sedile che crolla indietro se tiri una leva. Lo faccio. Mic finisce semidisteso nell'abitacolo con un'esclamazione sorpresa. Non se lo aspettava e cerca di rialzarsi.

Lo tengo fermo con una mano sul petto e lui rinuncia al tentativo di tornare seduto. Passo una gamba oltre le sue. «Non stava per succedere. È già accaduto».

«Sam, dico davvero».

«Anch'io».

Avvicino il viso al suo e lo sento inspirare come se la sua aria fossi io. «Cosa ti aspetti da me?»

La sua domanda mi lascia interdetta. «Vivevo all'inferno e mi avete portato in un castello incantato». La mia mano resta ferma su di lui, sento il suo cuore accelerato sotto la camicia. «Voglio solo capire cosa ti rende felice».

Mi afferra brusco il polso e lo solleva via dal suo petto. «Farti vincere. Solo quello mi ha reso stupido e felice. Ogni volta che appendo una vittoria a quel bracciale, io mi sento vivo».

«Allora cerchiamone un'altra, oggi, ma questa volta dovrai vincere anche tu».

***

«Papà è tornato?»

Vanessa esita nel rispondere, poi dal cellulare in vivavoce dice: «È passato da casa, ma adesso è di nuovo in centrale. Vuole che siamo al sicuro e non sarà così finché non prenderà Frog».

Mi intrometto nella conversazione: «Credo sia il caso che io e Chris ci allontaniamo da casa vostra».

«Non è un'opzione» ribatte lei. «Tutto bene l'esame?»

«Sì». Mic mi lancia un'occhiata incomprensibile e un brivido mi sale la schiena. «Io e Sam andiamo a festeggiare».

«Fate attenzione, mi raccomando».

Michele saluta sua madre e continua a guidare lungo il litorale. Lo guardo con la coda dell'occhio, sembra sereno e da un'altra parte con la mente. Ha degli sbalzi d'umore improvvisi che non riesco a capire e che dovrebbero mettermi in guardia su di lui, invece più mi respinge, più dentro di me cresce un legame incoerente, istintivo e insensato. «Hai detto che non festeggiavi».

«Non il compleanno e neanche il diploma. Posso festeggiare altro, però».

Sta giocando con me, non vuole parlare del suo compleanno perché coincide con la disgrazia di sua sorella, non vuole essere felice per un traguardo importante, ma vuole comunque stare con me e il pensiero fa crescere il brivido che si è avvinghiato alla mia spina dorsale.

«Non vedo l'auto degli agenti».

«Sono molto discreti. Di solito non si fanno vedere, se non è necessario. Circondano la zona senza far sentire troppo la loro presenza. Con noi sono ancora più attenti per via di Zanna». È tranquillo mentre parla e mi sorge un dubbio.

«Vi è già capitato di essere sotto scorta?»

Lui annuisce. «Zanna non ha valutato i rischi e ha messo troppo sotto pressione il giro della droga».

«Un po' come fa adesso».

«Quella volta è stata una vendetta. Esiste un equilibrio tra bene e male, che ogni tanto viene sconvolto, e di solito sono gli agenti che ci vanno di mezzo».

«O la gente delle baracche che cerca solo di sopravvivere» aggiungo.

«C'è sempre un soggetto o un evento che causa questo squilibrio, in inglese si chiama disruptor» continua lui.

Lo guardo affascinata. Le mani strette sul volante, l'attenzione rivolta alla strada e l'espressione incerta. Sta scoperchiando un vaso che forse avrebbe voluto tenere sepolto sotto metri di terra. «Ora il disruptor sei tu, piccolo uragano, ma quella volta sono stato io». Si volta verso di me e lo incoraggio a proseguire con il mio silenzio. «Non è una bella storia» mi avverte.

«Le migliori non lo sono mai...» Sorrido e gli faccio un segno con la mano. «Volta qui a destra».

«Dove andiamo?»

«È una sorpresa. Adesso racconta la peggiore delle tue storie. Mi piacerebbe davvero conoscere il tuo cuore più nero, e magari un giorno io ti mostrerò il mio». Ho detto qualcosa di molto sbagliato perché lui schiocca la lingua con fastidio, socchiude gli occhi e trattiene la marea che di nuovo sembra sul punto di travolgerci. Dopo un tempo infinito, la sua voce inizia a raccontare con fatica, lenta e morbida come velluto nero. Triste, di un dolore graffiante.

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