16a - Pittura Bianca


Lei è il mio primo pensiero al risveglio.

La carta rosa, di sangue e acqua, nel gabinetto; gli occhi grandi, distaccati, impossibili da guardare e il sussulto di dolore quando ho sfiorato la manica della maglia. Lunghe, troppo lunghe a coprire le braccia, quando tutti sono in canottiera.

Il primo respiro della giornata è carico di frustrazione.

Chiudo di nuovo gli occhi e l'immagine di lei, rannicchiata nell'angolo del corridoio in penombra, mi invade la mente. I capelli ruffi sul viso, l'espressione terrorizzata.

Indosso una canottiera nera sopra ai pantaloni corti e mi affaccio alla porta della stanza accanto. Sam non c'è e neanche il libro di fiabe. Scendo le scale di corsa e scivolo sugli ultimi gradini.

Mio padre sta preparando il caffè. Non si sveglia mai così presto quando non è in servizio, a meno che non sia preoccupato. Entro in cucina con troppa foga e lui rovescia tutto il caffè sul ripiano. Imprecando si volta verso di me, ma non gli do il tempo di parlare.

«Sam non c'è».

Lui non si scompone e inizia a pulire il ripiano. «È alla serra da un'ora. Mi ha chiesto della pittura. Non so cosa stia facendo, ma se l'aiuta a distrarsi va bene».

La serra. Mi aiuti a ripararla? Me l'ero dimenticato. Stringo la pallina portachiavi con i semi di soffione di Lucia con troppa forza e mi obbligo a lasciarla andare prima di spaccarla. «La vogliamo riparare» rispondo mentre cerco un bicchiere.

Mio padre si ferma e smette di pulire. Il caffè sta gocciolando sul pavimento, lui lo guarda assente. «Non mangia» dice.

Mi verso un bicchiere d'acqua fingendo di non avere sentito.

«Mic. Non mangia. Mi senti?»

Il cuore mi pulsa nelle orecchie in un fastidioso battere scomposto, forte e veloce. Mi sento cadere e mi appoggio al ripiano della cucina mentre cerco di calmarlo. Mi concentro sulle screziature del marmo grigio per ritrovare la calma. «Che cazzo ci posso fare io?»

Mi esce troppo forte, troppo aggressivo.

Lui mi appoggia una mano su una spalla e mi guarda in faccia. Quello che vede non gli piace. «Hai ragione. Scusami. Sono solo preoccupato. Oggi lo comunicherò agli assistenti sociali e sentirò quando pensano di avere un posto per lei».

«No. Hai ragione. L'ho visto anch'io. Non mangia niente e credo vomiti quel poco che mette dentro. Resto a casa oggi e la aiuto a riparare la serra. Di meglio non saprei cosa fare...»

«Mic. Ho sbagliato. Non è una tua responsabilità».

No, infatti. L'uragano pazzo che ci hai portato in casa non è affare mio, eppure mi ha detto il suo nome e l'ha fatto perché era importante per me. Cerco di respirare in maniera normale e il cuore si calma. Anche stamattina, appena sveglio, ha fibrillato in questo modo ed è una sensazione terribile. Mi sembra di perdere il contatto con la realtà, che esista solo questo battito impazzito a separarmi dal vuoto. Stacco il cellulare dalla carica e cerco il numero di Elena. La vorrei chiamare, ma immagino la sua reazione e le sue battute appuntite. Non potrei affrontarle oggi. Digito poche parole.

Non sto bene. Ci vediamo domani a scuola.

Cos'hai? Vuoi che venga lì?

Niente. Sono solo stanco. Ci vediamo domani.

Ok. Riposati, amore. A domani.

«Ieri notte era in bagno. Non dorme bene». La carta igienica, le braccia coperte, la matita che buca la carne. Oh, Sam, cosa ne so io di tutto questo.

«È successo qualcosa a scuola?»

«Non lo so. Non sono con lei sempre» protesto. Mi sento stupidamente in colpa per tutto il tempo che ho passato a farmi i fatti miei.

«Forse dovresti chiedere alla sua compagna...»

«Mi metto a fare l'investigatore con le ragazzine?» Rido cercando di allentare la pressione sul petto, ma smetto subito. Non ci riesco. C'è qualcosa che non va. Il dolore è più intenso degli altri giorni e non passa. «Una cosa c'è. Un supplente. Sam è corsa fuori dalla classe al cambio dell'ora. Era sconvolta, ma quando le ho chiesto cosa avesse mi ha risposto che credeva di avere visto qualcuno della sua vita di prima».

«Cazzo». Mio padre si passa una mano sulla bocca e infila il cellulare in tasca. «Cosa aspettavi a dirmelo?»

«Non credevo fosse importante» ribatto.

Il senso di oppressione mi sale in gola. Mi appoggio di schiena alla cucina.

«Ti ha detto chi è?»

«Il supplente di chimica». Un pensiero scomodo e i ricordi del giorno precedente si accavallano formando un quadro che preferisco non vedere. «È rimasta con lui alla fine delle lezioni. L'ho cercata e non la trovavo. Era in una zona della scuola dove di solito gli studenti non vanno».

«Non doveva rimanere qui». Mio padre ora non mi guarda più, il segno della colpa è tra le sopracciglia contratte. Un milione di pensieri gli si affolla in testa. Tira fuori il cellulare dalla tasca, lo guarda e lo rimette via. Si vede chiaramente che è combattuto. «Bisogna inserirla nel programma di protezione».

«Cosa?»

«Deve sparire, Mic».

«Dove viveva prima di venire a casa nostra?»

«Alle baracche sul fiume».

È un posto terribile. La zona peggiore della città, ma questo non significa niente. «Perché l'hai portata via?»

«Non viveva come una bambina, lì. È una bambina. Niente più che una bambina».

A questo punto non capisco dove voglia arrivare, ma forse un'idea me la sono fatta. «Cosa posso fare?» È la seconda volta in pochi giorni che faccio questa domanda. Vorrei dare una mano a Sam e non ne ho le capacità. A causa di quello che ho detto a mio padre molto presto la porteranno via da qui. Questo pensiero mi lascia un senso di urgenza che non riesco ad arginare.

Zanna mi lancia un'ultima occhiata. «Lei si fida di te».

«Eppure non mi ha detto altro che il suo nome» ribatto.

Mi risponde quando è già sulla porta.

«Ti sembra poco?»

***

Sam è in piedi su una scala, appoggiata in equilibrio precario contro la parete della serra. Sui pantaloncini di jeans, sfilacciati su ginocchia magre, e sui polpacci contratti per raggiungere una zona impossibile per la sua altezza sono cadute gocce di vernice bianca. La maglia è annodata in vita e lascia scoperta la base della schiena. I segni sbiaditi delle ferite che aveva quando è arrivata non andranno più via e quel pensiero mi spaventa. Quello che Sam trattiene è così enorme da non poter essere gestito da un ragazzo di diciotto anni come me.

Sono andato a correre per calmarmi, ma non ha funzionato. Alle otto del mattino ci sono già trenta gradi. Il vento freddo di maestrale si mischia alla corrente calda e mi secca il sudore sulla pelle. Sento i brividi e lei indossa ancora quelle dannate maniche lunghe.

Mi avvicino attraverso l'erba alta e la chiamo. Lei si volta a guardarmi e perde l'equilibrio. La scala traballa e mi allungo a bloccarla prima che si ribalti.

«Mi hai spaventata».

«Lavori senza di me?»

Indico la parete che ha già terminato. La serra era marrone chiaro, ma lei ha scelto un bianco ottico, luminoso e freddo. «Spero non ti dispiaccia questo colore».

Le piace il bianco e veste sempre di nero.

«Ti ho portato un panino».

Lei fa una smorfia e continua a pitturare. Lascio il sacchetto appoggiato sopra a un tronco. Prendo un pennello e parto dal basso, dove ancora lei non è arrivata, in modo da andarle incontro. Quando arriviamo alla fine della parete esterna siamo spalla contro spalla. Ci sediamo sull'erba. Tutto quel bianco è accecante e socchiudo gli occhi. La pressione sul petto non è passata e il cuore non vuole saperne di riprendere un ritmo normale. Sento il fiato corto e gli occhi neri di Sam che mi fissano.

«Sei stanco?»

«Ho un aspetto così distrutto?»

Lei sorride. «Non più del solito».

«Ah, grazie».

«Come va il livido? Ti fa male?»

Scuoto la testa. «Non dovevo mettermi in mezzo».

Allungo la mano a prendere il sacchetto con il panino, lo rompo in due e gliene do metà. Non le dico niente, la guardo e basta. Spero sia sufficiente a costringerla a mandare giù qualcosa. I capelli scuri le sfuggono da una coda bassa e una ciocca le scende sul viso. La sposto con un dito e la metto dietro un orecchio, poi le allungo il pendente con lo zaino e aspetto la sua reazione che non tarda ad arrivare.

Lei lo prende con una strana espressione e lo aggancia al bracciale. Alla fine si copre il viso con entrambe le mani e la sento singhiozzare. In modi diversi, di felicità o di tristezza, finisco sempre per farla piangere. Stavolta, però, sapevo che sarebbe scoppiata. La scuola era una sua vittoria, di sicuro fino a ieri, poi è successo qualcosa che l'ha fatta diventare un fallimento.

Le appoggio una mano sulla schiena e i suoi singhiozzi mi corrono giù per il braccio. Il silenzio è l'unica via che posso darle per aprirsi, ma non ce la fa. Piange per tanto tempo e il dolore che esce fuori dal suo piccolo corpo è allarmante. Mi avvicino, incapace di fare altro, le passo un braccio dietro le spalle e la stringo finché non si calma. Parlo con le labbra appoggiate alla sua tempia e per un po' il cuore mi dà tregua.

«Non importa cos'è successo prima di adesso. Conta solo il coraggio che hai avuto a entrare in una scuola piena di gente sconosciuta, ad affrontare una nuova vita. Conta il coraggio di dipingerla di bianco». La sento sospirare contro di me e il suo calore mi entra dentro, accende un fuoco improvviso che mi lascia stordito. «Hai la forza per reagire. Io la vedo. Ti brilla in fondo agli occhi».

Finisco il mio panino e mi alzo in piedi troppo in fretta. Il cuore riprende a fibrillare, più forte che mai. Ricordo Sam che finisce la sua metà e mi sorride tra le lacrime. Cerco di portare una mano all'orecchio dove sento un basso ronzio che mi riempie la testa, di colpo vuota. Le gambe si piegano, non mi sostengono più. I muscoli sono incapaci di funzionare. Crollo sulle ginocchia, poi a terra, e quando il mio corpo impatta contro il suolo non sento alcun dolore.

🦋 🖤Spazio Fede 🖤 🦋

Ciao a chi passa di qui,

la storia vi prende? Cosa ne pensate? Me lo fate sapere nei commenti?

Se questo capitolo vi è piaciuto, accendete la solita stellina.

A presto

Fede

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