•PRIMA PARTE• I- mezzosangue.

Diciassette anni dopo.

Era curioso il fatto che ci si potesse affezionare in quel modo ad un oggetto di metallo. Il ciondolo era con lei fin dal giorno in cui aveva cominciato a capire come andasse il mondo, una piccola sfera non più grande di una biglia, argentata ed elegante, meravigliosa nella sua fragilità. Sul retro c'era l'attaccatura delle ali, ali che assomigliavano tanto a quelle degli angeli, nelle rappresentazioni teatrali o cinematografiche; essendo più lunghe, ripiegate su loro stesse, del corpo del ciondolo, le punte piumate finivano appena un centimetro sotto la base. Una sottile catenella che passava sotto di esse permetteva di legarlo intorno al collo, indossandolo come un medaglione.
Era l'oggetto più prezioso che Alyssa Jefferson possedesse, nonostante non ne conoscesse la fonte. Luthien, sua sorella, le aveva raccontato che glielo avevano messo al collo il giorno della sua nascita e da allora non se ne era più separata. Non lo toglieva nemmeno per andare a dormire. Provava una sorta di attrazione magnetica verso quella piccola sfera argentata, una specie di morbosa ossessione, ma non riusciva a spiegarsene la ragione.
Ora se lo rigirava fra le dita, sottili e affusolate, mentre il bus che l'avrebbe ricondotta a casa affrontava una terribile curva stradale. Alyssa sentì l'autista imprecare contro qualcosa sulla strada, ma non prestò troppa attenzione. Il gruppetto di ragazzi accanto a lei, in piedi a causa del sovraffollamento del mezzo, continuava a ridacchiare; il ragazzo con gli occhiali e l'aria da secchione non smetteva di scorrere con lo sguardo le pagine di un libro enorme, dall'aria pesante; Nicholas Pertyl, per cui aveva una cotta da circa un anno, non faceva che lanciare sguardi languidi alla ragazzina nuova appena trasferitasi. Ma nemmeno a quello prestava troppa attenzione. Per quanto l'aveva rigirata fra le dita, la piccola sfera era diventata caldissima. Alyssa sospiró e si riallacciò il ciondolo al collo. Il paesaggio, fuori dalla vettura, era grigio e triste. La pioggia tamburellava sui finestrini, come tante piccole dita e, da uno spiraglio fra le ante del portellone, entrava un fascio di aria gelida. Il freddo le penetrò nelle ossa. Rabbrividì. Il tempo non era mai dei migliori, da quelle parti, e in fondo gli abitanti vi erano abituati, ma quel vento gelido nel mese di maggio era davvero inspiegabile. Quando prenotò la fermata successiva le parve che Nicholas Pertyl le rivolgesse uno sguardo, ma fu solo questione di un istante: in meno di un secondo tornò a portarlo sulla ragazza nuova e Alyssa decise di abbassare il proprio, scuotendo il capo. Era una storia senza via d'uscita. Nicholas non l'avrebbe mai considerata come lei considerava lui, era solo questione di accettare la cosa.
Quando scese dalla vettura, il fango parve risucchiarle i piedi. Con uno sforzo ricacciò fuori gli stivali e si diresse lungo la via di casa. Il vento spirava feroce contro di lei, avvolgendo il suo ombrello e facendolo piegare verso l'alto, e l'umidità dominava il paesaggio. Quella via era più vuota del solito, probabilmente a causa della pioggia, ma, vedendola in quel momento, Alyssa cominciò a percepire uno strano senso di disagio, che la spinse a guardarsi ripetutamente intorno, in cerca della fonte di quel fastidio. Tutto ciò che scorse, oltre la potenza dell'acqua e della nebbia, fu la sagoma delle poche case che abitavano la via, sepolte quasi totalmente dalla tempesta. Stringendosi il cappotto intorno al corpo, la ragazza continuò a camminare, i riccioli ramati incollati al viso, le labbra tremanti, la sensazione di essere seguita che l'accompagnava ad ogni passo. C'è qualcosa che non quadra, si disse, ma cosa? E poi, tagliente e glaciale come la lama di un coltello, il sibilo arrivò. "Alyssa." Disse solo, e il nome rimbombò nell'aria umida di quel mezzogiorno di Maggio, come un'eco sinistra. Quando il suo nome venne ripetuto per la terza volta Alyssa pensò che non avrebbe mai avuto fine. La ragazza impietrì, nella rigidezza del suo metro e sessanta, voltandosi improvvisamente con il timore di scorgere qualcuno dietro di lei e riconoscerlo come l'origine del suono. Ma, quando si girò, non vide nessuno. Solo chilometri e chilometri di strada grigia e infangata, solo pioggia e vento che si mescolavano in un turbinio di angosciose sensazioni. Ma nessuno di umano che potesse aver pronunciato il suo nome. Il freddo la faceva rabbrividire ma era nulla se confrontato all'angoscia che le attanagliava le viscere, mozzandole il respiro. Muoviti a tornare a casa, si ordinò mentalmente.
Alyssa cominciò a correre, rischiando di inciampare più volte nel fango e nei detriti che esso racchiudeva. E intanto la voce dal sapore di sangue e metallo continuava a rimbombarle nella testa, sibilando il suo nome come un'inquietante litania. Ebbe l'impulso di gridare, gridare di smetterla, di allontanare quel demone invisibile che le stava dilaniando la mente, ma le parole non riuscirono mai a penetrare la barriera sigillata delle sue labbra bagnate.
Con un ultimo sforzo svoltò l'ultimo angolo che la separava dalla sua abitazione, accelerando il passo e cercando di resistere alla tentazione di crollare a terra. La voce continuò imperterrita, ma questa volta al nome "Alyssa" sostituì qualcos'altro: la parola Mezzosangue.
-Lasciami in pace, chiunque tu sia...- sibilò la ragazza percorrendo a grandi falcate il vialetto di casa, e richiudendo il cancello di ferro dietro di sé. Con un respiro profondo, Alyssa corse in direzione del portone di casa e infilò una mano nella tasca del cappotto, in cerca della chiave. Rovistò a lungo fra le cartacce e le briciole, ma senza risultato. La chiave era sparita. Inspiegabilmente.
Alyssa si guardò intorno terrorizzata, mentre la voce metallica tornava all'attacco. -Mezzosangue, mezzosangue, mezzosangue. La ragazza lasciò cadere l'ombrello, ormai inutilizzabile, e picchiò con quanta più forza possibile contro il legno del grande portone d'ingresso, nella speranza che sua sorella maggiore si precipitasse ad aprire. Dovette attendere nemmeno un minuto. La porta si aprì, cigolando lungo il cardine, rivelando la snella figura di Luthien Jefferson. La sua espressione, quando la vide, bagnata fradicia sul portico e con il terrore dipinto in volto, fu scioccante.
-Che diavolo è successo?-
Alyssa scosse il capo, incapace di proferire parola.
-Entra, svelta! Sta diluviando!-
Luthien allungó un braccio e trascinò la sorella all'interno, sbattendo il pesante portone dietro di sé. -Alyssa, stai bene?- esclamò in tono preoccupato. -Perché non mi hai chiamata? Sarei potuta venire io a prenderti.-
Ma lei non la stava guardando, tantomeno ascoltando. Teneva lo sguardo puntato contro il vetro opaco della finestra accanto all'ingresso, gli occhi sgranati, il respiro ansante, il petto che compiva movimenti troppo rapidi. La voce era sparita di colpo, nell'istante in cui aveva varcato la soglia, ma la sua presenza -la presenza di qualcuno che fondamentalmente non c'era mai stato- era ancora lì, dentro la sua testa.
-Ehi...- mormorò Luthien avvicinandola con cautela. Le sue braccia la strinsero forte, mentre gli occhi di Alyssa continuavano a scrutare in direzione della strada, al di sopra della spalla della sorella. Pian piano il disagio scemò, lasciando il posto a una leggera agitazione. Alyssa chiuse gli occhi, abbandonandosi a quell'abbraccio che Luthien le stava regalando e si sentì, finalmente, al sicuro.

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